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25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Il condominio dell’arte 2012 – “Giardino” – Il racconto vincitore scritto da Tommaso Lencioni

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Pubblichiamo (fuori concorso) il racconto di Tommaso Lencioni, vincitore della sezione racconti della prima edizione del concorso  “Il Condominio dell’arte”. Il tema indicato: “Il mondo che vorrei”.

 

GIARDINO  di Tommaso Lencioni

 

Effettivamente non è stata una bella giornata. Si capiva già dal mattino: i nuvoloni che incombevano in lontananza non erano certo segno di bel tempo. Laura, ironia della sorte, era andata a scuola, come del resto tutte le mattine, in bicicletta. Una vecchia bicicletta, di quelle con il sellino scomodo, la ruggine sulla canna e i manici mezzi rotti. Ma a Laura piaceva la bicicletta, soprattutto quella. Era l’unico frammento di storia di suo padre, morto quando lei si era trasferita con la madre da Piombino a Lucca, altra ironia della sorte. Gliela aveva regalata quando aveva 10 anni. A lei bastava, soprattutto perché Piombino era piccola e si girava bene in bicicletta. Ogni volta che andava a scuola, la mattina presto, vedeva il sole felice che si alzava alto nel cielo, ed era una perenne scoperta: ogni giorno c’era una nuova sensazione. Vuoi l’odore delle onde fresche, appena alzate, che si scagliavano contro gli scogli fragorosamente o il rumore delle piante che all’agitare dello scirocco si scompigliavano come serpi scatenate. La città era piena di vita: l’odore del pane appena sfornato rinvigoriva Laura prima del suono della campanella. Così era, o meglio è stato per un po’ di tempo. Quando il padre morì di tumore ai polmoni, lei aveva 13 anni e, per lavoro, la mamma fu costretta a trasferirsi a Lucca per cercare di mantenere tre figliuole, delle quali Laura era la terza. Da quel momento la bicicletta fu l’unico ricordo tangibile di Piombino, del salmastro che aveva corroso la  bicicletta, e di suo padre.

Abitava appena fuori dalle mura – la casa l’avevano presa con un mutuo abbastanza favorevole – , la sua scuola era invece dentro la cerchia, e tutti i giorni Laura cercava di riproporre ai suoi occhi, orecchi e mani, le sensazioni che a Piombino, quotidianamente avvertiva durante il tragitto. Ma invano. Le macchine ronzavano sulla circonvallazione come aerei da guerra, esalando un velenoso e caldo smog, il fiumiciattolo intorno alle mura scorreva sporco, inciampando, via via, in qualche lattina di Fanta o Coca cola – che schifo -, l’unico elemento naturale, gli alberoni sulle mura e il prato proprio lì sotto, se ne stavano lì zitti, muti, aspettando cure istituzionali che non avrebbero mai dato loro la forza di produrre un fiore.

Quel giorno, appunto, era persino brutto tempo. Laura si era scordata l’ombrello a casa, ma fortunatamente era riuscita ad entrare a scuola prima dell’acquazzone. Cosa successe di tanto brutto per definire brutta la giornata? Laura, piuttosto estranea al carattere dei lucchesi, non sopportava molto la sua classe. Lì dentro c’era chi se ne approfittava,  soprattutto per  ”le ripetizioni gratuite”. Siccome l’andamento generale della classe era, diciamo, scarso, soprattutto a matematica, Laura era ”costretta” a rispiegare pazientemente la lezione del giorno, magari anche cinque o sei volte di fila. ” Non ho capito Laura, spiegamelo!” diceva una sua compagna. Purtroppo, non sempre la pazienza è a nostra disposizione in quantità tali da sperperarla abbondantemente a destra e a manca e, visto e considerato che Laura, da buona piombinese, era molto schietta, a una richiesta del genere, quella mattina, rispose con un sonoro VAFFANCULO.

E’ strano come la gente, nel momento in cui l’accontenti, ti consideri addirittura il santo Gral, ma nello stesso istante in cui accenni solo un piccolo segno di disappunto, ti volti le spalle, facendoti sprofondare nelle sabbie mobili, gettandoti addirittura in fondo al pozzo, e mettendoti al pari di un granello di sabbia. E così è stato quel giorno. La pioggia, come se volesse ricalcare l’andamento della situazione, scendeva ancora più violentemente. Quando la campanella suonò, Laura uscì. Ed era nervosa. Nervosa a tal punto da infischiarsene della pioggia e pedalare di buona lena per andare a casa. A Piombino non sarebbe mai successa una cosa del genere, perlomeno si sarebbe risolta in dieci minuti con una bella chiacchierata. Cocente nostalgia di casa propria. Profondo senso di smarrimento. Dove mi trovo? Ma veramente io sto qui? Devo veramente stare qui? Come mai ho risposto male a questa maniera? Perché si devono approfittare di me?. A queste domande Laura non sapeva rispondere, ripiegata su se stessa con lo zaino che, appesantito e pregno d’acqua, le tirava le spalle, pedalò continuamente senza mai fermarsi. Si fermò cinque minuti, al riparo dalle frustate della pioggia che le trapassavano addirittura la spessa camicia a quadri che indossava. Sotto le mura l’atmosfera era più calma, sembrava quasi di essere in un altro mondo. I riccioli castani le si erano appiccicati al viso come lacrime; ma lei non stava piangendo, anzi, lei era forte. Non si scoraggiava davanti a nessuno – altra grande dote da piombinese, pensava lei – ma, sotto sotto, qualcosa le mordeva l’animo; era atterrita da aspri pensieri che quella mattina gli erano balzati in testa. Fra sé e sé pensava: com’è possibile, che un mondo bello come il nostro, che ha tanto da offrirci, possa essere pieno di ingiustizia, sopraffazione e inganno? Che non possa più darci quanto ha saputo dare in passato? Forse ho anch’io preteso troppo?

Si sentiva responsabile in qualche maniera, della scomparsa di nuove occasioni, di nuove sensazioni, e di nuovi stimoli che il luogo, la terra, madre natura, e le persone potevano proporre. Probabilmente anche gli stimoli erano ”in numero limitato” e, come il petrolio, agli sgoccioli. Ma era tardi e l’aria era opaca e umida. Riprese la sua bicicletta, ma stavolta aveva cambiato idea. Cos’era successo? Forse doveva sfogarsi un po’. Prese il telefono, avvertì sua madre che non sarebbe tornata a casa, e imboccò una via diversa, verso i piedi delle colline, luogo in cui, perlomeno in quel momento, arrancava qualche fioco raggio di sole. La pioggia  non era ancora cessata, ma non scendeva pesantemente come prima. Rilasciava nell’aria un lieve e diffuso odore di cemento bagnato e corteccia marcia. Era quasi come se l’aria stessa avesse un odore molto pesante, ma delicato al contempo. Laura respirò a fondo questo odore… era da tanto che non sentiva qualcosa di simile a Lucca. Le venne in mente quella volta che era andata con sua madre in una serra per comprare delle piante – sua madre era patita di giardinaggio. Erano entrate in un vivaio nei pressi della città dove, si diceva, c’erano molte varietà di orchidee. Per conservarle, appunto, servivano parecchie serre riscaldate e, nell’entrare in una di queste, oltre a sentirsi oppressa dal caldo umido, Laura aveva sentito un forte odore di ”bagnato”, molto simile a quello di adesso. Nella serra l’aria era pervasa da una tiepida fragranza di legno e di sasso, quasi indescrivibile. L’umidità in quel momento era diventata una cosa così presente, da sembrare solida, un viaggio gratis all’equatore. Pervasa da quel ricordo, ci pensò un autobus a svegliarla, con il suo gracido rombo e il monotono clacson. La bicicletta si fermò di colpo, come se funzionasse da sola: istinto fulmineo. Bastarono pochi secondi per far capire a Laura dove veramente il sole puntava i raggi: a Valgiano.

Perchè proprio lì? Sarà un caso? Babbo vuoi dirmi qualcosa? Se sì, sii più esplicito, perché questi messaggi criptati non so proprio decifrarli, e tu lo sai bene.

Laura era arrivata nei pressi di un piccolo paesino di campagna, Valgiano, a pochi chilometri fuori Lucca. Pochi chilometri erano per lei perlomeno una decina, visto e considerato che Laura era abituata a fare grandi pedalate. E, senza accorgersene, guarda caso, ne aveva percorsi molti di più di quelli che si aspettava: almeno venti.

Pedalo forte – Pensò fra sé e sé. Il sudore sembrava non esistesse per lei. Aveva un grande bisogno di sfogarsi probabilmente: marciare per quel tratto in poco tempo non è da tutti gli adolescenti. L’umido nell’aria era sempre presente, ma le nuvole se ne stavano andando. La strada non era più larga e ben levigata dal continuo scorrere di macchine e non c’era più traccia di ”civiltà” (leggasi segnaletica orizzontale), bensì era diventata stretta, a tratti ricurva, e piena di buche…Laura era arrivata piedi delle colline. Salì per un po’, fino a che non si arrese, sfinita, alla stanchezza – finalmente. Lo zaino pesava sempre di più. La bici sembrava che schiantasse dall’affanno. Laura si fermò e si mise a sedere su una pietra, al margine della strada dove qualche irrequieto ciuffo d’erba, sempre bagnato dalle gocce lucenti della pioggia, spuntava vigoroso dal terreno, addirittura fino ad arrivare alle ginocchia.

In quel preciso momento, Laura alzò gli occhi di scatto. Aveva sentito qualcosa. Probabilmente niente di così importante, eppure sembrava che per lei lo fosse. Sembrava il rumore di un albero che si spezzava – un albero di dimensioni decisamente grandi, visto l’importanza del suono che aveva emesso. Laura andò dietro quel suono, cercandone, chissà dove, la provenienza. Si incamminò su una stradina sterrata, stretta come quella dalla quale era venuta. Sui poggi laterali sbucavano dei rovi appena cresciuti dalla precedente potatura: la primavera si prospettava produttiva quell’anno. Il sentiero saliva di curva in curva fino a che, misteriosamente, si infilava nel folto di un bosco, proprio come una lingua dentro la bocca – stavolta quella di un dragone, perché i rami stecchiti richiamavano un po’ dei denti aguzzi. Appresso alla sua bici, Laura camminava lentamente, quasi impaurita dalla penombra che i rami delle acacie proiettavano sul sentiero. Presto però capì che, in quel luogo, non c’erano solo alberi e rovi. Una qualche presenza umana emergeva in tutta quella natura, ma senza violenza. In fondo al sentiero c’era un cancello verde e una macchina, verde pure lei. Intorno delle pietre alzate a mò di muretto, giusto a mezza altezza. Nonostante ci fosse un cancello, la proprietà era accessibile lateralmente, da un’altra strada che la percorreva sulla destra. Scrock. Il rumore si ripresentò, stavolta con più fragore. Laura capì che l’albero che cercava era dentro la proprietà. Insospettita e attratta da questo rumore, non stette a riflettere: in fondo, se buona parte del giardino non era stata recintata, ma anzi, adornata di percorsi sterrati che quasi invitavano ad entrare, non vedeva motivi per non farsi avanti. Male che andasse sarebbe scappata via. Entrò. Si fermò immediatamente. Non era una proprietà qualsiasi: era un bosco, con piante bellissime e ben conservate. Di case, per il momento, non ne vedeva, gli alberi le ostacolavano la vista. Laura fu colpita subito dall’odore fortissimo di un arbusto accanto a lei: profumava di miele e il colorito viola chiaro dei suoi fiori richiamava molto quello della lavanda. Una bellissima farfalla, anch’essa richiamata dall’odore pastoso e intenso, si posò su uno stelo robusto. I fiori sembravano dei coni ricurvi e la farfalla, un fiocco legato ad essi. Uno spettacolo, pensò Laura – anche a Piombino c’erano tante farfalle. Nostalgia di casa. Proseguì incuriosita. Strofinò la mano lungo le foglie sinuose di una graminacea spuntata da poco. Una ruvidità quasi tagliente da far ritrarre la mano, compensata però dall’albero accanto, le cui gemme rosse, se strofinate, richiamavano il velluto. Laura assaporò sorpresa questo bombardamento di sensazioni. Una foglia secca si sgretolava lentamente sotto le sue scarpe, un’ape ronzava nei pressi vogliosa di nettare, l’odore forte dei grappoli del glicine lì accanto. Laura si scordò dello zaino e della bicicletta, li lasciò cadere per terra. Si sentì le spalle alleggerite e un lieve sorriso si aprì sul suo volto. Il sole sbucava felice anche lui dai rami degli alberi, e rifletteva il colore delle prime foglie sugli occhi di Laura. Sempre più curiosa si fermò ad osservare le mille varietà di piante che liberamente erano state posizionate lungo dei sentierini – d’erba stavolta – facilmente percorribili. Rose, ellebori e tulipani erano disseminati dappertutto. China ad odorare ogni fiore che le capitava per cercare di assaporarne il profumo, Laura percorse parecchi metri prima di imbattersi in una vecchia quercia. Laura si alzò, diede un occhiata in alto. Sembrava vecchia dalle dimensioni. Ma non aveva più la bellezza di una volta: il suo tronco si era spezzato a metà – ecco la causa del rumore – e ormai, stava per cadere. Mentre Laura stava guardando e toccando il tronco morto della quercia – ormai aveva preso il vizio in quel meraviglioso giardino –, una pacata voce femminile la colpì di sorpresa: ”Non puoi aiutarla.” – Laura si voltò di scatto, ”E’ morta da parecchio tempo.”

Laura comprensiva e pensosa rispose: ”Come avrei potuto aiutarla? E’ troppo grande per me.”

La signora, già di mezza età, rise leggermente: ”Lo è per tutti, anche per me che sono vecchia.”

Laura, più incuriosita che impaurita, domandò: ”Chi è lei?”

La signora aveva i capelli neri legati, e in quel momento indossava un vestito leggero di lino rosa, quasi tendente al rosso.

-”La domanda più giusta sarebbe chi sei tu? E perché sei venuta a trovarmi?”

Imbarazzata Laura rispose: ”Oh, mi scusi. Sono Laura ed ero a Valgiano, a quando ho sentito la sua quercia spezzarsi. Complimenti per il giardino, se è suo. ? molto colorato e profumato.”

-”Grazie infinite” rispose la signora ”Io sono Barbara e questa è la mia casa. Sono felice che ti sia piaciuto il giardino: l’ho progettato e realizzato io. Se hai piacere te lo mostro volentieri. Hai voglia di fare due passi?”

Continuarono a chiacchierare del il giardino per un bel po’, facendosi strada in mezzo alle piante, fra luce ed ombra, fra rami e foglie, fra profumi più o meno intensi. Laura rimase molto colpita. Non colpita dal giardino, no – chiunque lo sarebbe stato – quanto dai mille stimoli visivi, uditivi, tattili che esso le proponeva. Ogni pianta era una scoperta: un fresco odore di menta, una foglia rugosa, un fiore abbandonato che non aspettava altro che essere dondolato, un frutto da assaggiare o un fruscio da sentire. Era da tanto che  i suoi sensi non erano colpiti da qualcosa di così splendido e stimolante. Non avrebbe mai pensato che proprio le piante le potessero ridare forza: le venne in mente casa sua, Piombino. Mare, scogli e sabbia. Abbandonata alla natura, perfetta, potente, energizzante. Proprio come in quel momento, nel giardino di Barbara.

-”Ehi, guarda!” esclamò la saggia signora.

Laura si girò e vide una siepe, immersa in altrettanto verde, quasi rotonda: ” Cosa?”

-”Come cosa? Guarda!”

-”Non vedo niente.”

-”Guarda meglio. Hai visto?”

Avvicinandosi alla siepe, Laura vide una cosa che, ad occhio nudo, non aveva notato prima. C’era una ragnatela e, al centro, l’artista che l’aveva creata.

Laura scosse la testa: ”Certo, un ragno. Cos’ha di particolare?”

Barbara le fece notare: ”Lo vedi? Ha appena catturato un malcapitato grillo.”

Laura: ”Povero Grillo!”

Barbara: ”No! ? stato fortunato, invece. Nel giardino non esistono solo le piante: c’è di più! Molto di più! Il giardino è un mondo: c’è vita sotto le foglie, senti il rumore del vento, anche gli uccellini cantano. E se porgi l’orecchio all’aria sentirai le api che ronzano. Il giardino è composto da tre elementi: le piante, gli ospiti e il giardino stesso, insieme dei due precedenti. Un buon giardino, è quel delicato equilibrio fra le piante e i loro ospiti, insetti, rettili o mammiferi che siano.”

Laura perplessa disse: ”Sì, fin qui c’ero, ma non ho ancora capito.”

Barbara alzò un rametto della siepe e scoprì meglio la ragnatela: il ragno aveva i piccoli. I ragnettini zampillavano rapidamente sugli invisibili fili di seta. Il grillo non era cibo per la madre, bensì per i piccoli.

Barbara concluse: ”Gli ospiti si aiutano gli uni con gli altri, come il grillo che, magari se fosse morto di vecchiaia, avrebbe arricchito il terreno. Saltando nella rete del ragno ha potuto contribuire alla crescita di decine e decine di piccoli ragnetti. Quando poi i ragnetti saranno grandi e moriranno, saranno a loro volta cibo per qualche animale più grosso di loro. ? così che funziona il giardino, è così che funziona la natura, ed è così che dovrebbe funzionare il mondo, a mio avviso.”

Laura ingenuamente domandò: ”Un mondo in cui i più forti sottomettono i più deboli?”

Barbara, sempre molto paziente, fece una risatina: ”No no, nel giardino non c’è imposizione. Il giardino è democratico: c’è cibo per tutti, vegetale e animale, e nessuno si approfitta delle risorse che ci sono.

Laura quasi si commosse: ”Perché anche gli uomini non sono così?”

Barbara alzò le spalle e continuò a passeggiare: ”L’uomo fa parte della natura ma ha sempre voluto prevaricare il suo simile. Anche gli animali lo fanno sai? Ma gli animali accettano il loro equilibrio, mentre gli uomini cercano sempre qualcosa di meglio, di più ”furbo”. L’uomo è furbo. Il giardino è corretto. Anzi, è addirittura generoso. Come la quercia che già da tanto era morta, guarda caso non è crollata prima della primavera. Ha salvato gli iris che abitano sotto di lei, che temono il freddo e le piogge invernali. Questa è generosità. E nel frattempo io ho tutta l’estate per trapiantare gli iris in un altro posto.

Laura cominciò a sentire un profondo rispetto per quella donna, così saggia e così comprensiva.

-”Barbara, promettimi che ci rivedremo.”

-”Senz’altro cara, senz’altro.”

Laura era contenta, contenta di aver trovato, finalmente, un mondo a cui appartenere. Un giardino. Che vive, respira, cambia con le stagioni, ma che accetta sempre le sue condizioni. Che sa ascoltare, che sa parlare, che ti sa colpire con le sue qualità, e che mai si approfitta di niente e di nessuno, ma che offre il massimo del suo potenziale, per il bene di tutti quelli che umilmente allungano la mano.

-”Tieni” Barbara strappò un iris lì vicino e lo porse alla ragazza – ”Prendi questo Iris: se lo pianti ora, fra poco attecchirà, e l’anno prossimo i tuoi sforzi saranno premiati con un bellissimo fiore viola.”

-”E il suo giardino?” si preoccupò Laura

-”Oh, io ne ho tanti di iris, credimi, sono quasi invasa. Prendilo, ti offro un vaso io, se vuoi. Una o due innaffiate subito dopo il trapianto, poi siccità estrema: gli iris temono l’umido.”

-”Laura con un cenno del capo ringraziò Barbara che, felice, gli donò l’iris.

Laura tornò a casa, salutando Barbara con una calda promessa di ritornare. La sua bici e il suo zaino erano sempre lì, all’ingresso del giardino. Erano più leggeri entrambi: forse con il sole l’acqua si era asciugata? O forse Laura era tornata a Piombino? Pedalò di buona lena verso casa – tutto in discesa – con l’iris ciondolante dal manubrio della bici.

 

Era passato quasi un anno da quell’incontro con Barbara. Si erano riviste per tutta l’estate. Laura era sul suo terrazzo indaffarata a annaffiare le sue piante: ora aveva una vasta collezione. Da quel giorno aveva cominciato a comprare piante di ogni genere e, grazie anche all’aiuto di Barbara, la sua terrazza quasi sembrava una giungla. Aveva imparato tanto da quel giorno, e aveva deciso di creare un mondo tutto suo, a disposizione di tutti quelli che avrebbero voluto visitarlo.

Non sarebbe mai stato come quello di Barbara, ma sempre un piccolo mondo era: qualche farfalla viaggiatrice si posava sulle sue margherite; delle formiche avevano fatto il nido ai piedi dell’albero sulla circonvallazione, quello la cui chioma raggiungeva proprio la terrazza di Laura, un nido i cui abitanti erano spesso attratti dalle fragole di Laura. Ogni tanto le formiche prendevano mezza fragola, lasciando l’altra metà alle lumache autunnali, affamate e voraci. Erano le quattro, Laura stava annaffiando le sue orchidee, l’annaffiatoio puntò il becco su un vaso. Non un vaso qualunque, il primo, quello con l’iris. Il bulbo si era dato da fare per tutta l’estate, producendo ben sei iris figli. Con gioia Laura vide le foglie piatte e rigogliose accarezzate dal delicato vento primaverile. Ma non solo le foglie incuriosirono la ragazza: dal primo iris stava nascendo un nuovo fiore.

Laura sorrise fiera e vittoriosa e aspettò pazientemente l’arrivo del nuovo ospite.

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