Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Il perché di un nome” di Giandomenico Scarpelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

L’anziano professore si scosse al suono del campanello. Quando aprì la porta si trovò di fronte un uomo di circa trenta anni, che sorrise timidamente e gli disse:

<<Buongiorno professore…>>

<<Buongiorno…cosa posso fare per lei? >>

<<Si ricorda? Sono Giulio ***, un suo alunno…di qualche anno fa.

Come sta?>>

<<Si, certo, Giulio! Che piacere, un mio alunno che si ricorda di me!…ma entra, accomodati…o forse dovrei darti del “lei” adesso? >>

<<Ma si figuri, professore…mi dia pure del “tu”.>>

 

Giulio sedette, e dopo altri convenevoli e qualche ricordo di scuola, spiegò il motivo della sua visita: voleva che il professore scrivesse una lettera in tedesco, cosa che la sua elementare conoscenza di quella lingua gli impediva.

<<E cosa dovrei scrivere? E a chi?”.>>

<<Professore, deve sapere che…>>

 

…e Giulio raccontò che in un giorno nel 1944 stava andando a trovare un amico malato quando una pattuglia tedesca gli si fece incontro. Un soldato più grosso degli altri accelerò il passo, gli arrivò molto vicino quasi lo volesse sbranare, e gli gridò in faccia qualcosa con voce strafottente. Poi si girò verso gli altri, attendendo una risata che puntualmente arrivò, grassa e sguaiata.

<<Rimasi impietrito, poi cominciai a tremare, ma i tedeschi continuarono il cammino senza più curarsi di me; tranne uno, che rimase un po’ indietro e, guardandomi negli occhi, in un italiano stentato, mormorò:

<<Non preoccuparti ragazzo, solo uno scherzo>>

Giulio raccontò al professore che dopo qualche giorno, uscendo di casa, si trovò davanti quel soldato, di guardia al palazzo di fronte.

<<Mi riconobbe, abbozzò un sorriso e mi chiese se vivevo lì e quale fosse il mio nome. Disse di chiamarsi Hans e di essere originario di un paese della Baviera, R***.  Quel nome mi rimase impresso nella memoria, forse perché, nonostante l’atteggiamento amichevole, quello era pur sempre un soldato tedesco, e mi faceva paura. >>

 

Passò un mese, e l’occupazione si fece più oppressiva; in città si diceva fossero iniziati rastrellamenti di uomini e ragazzi, anche molto giovani come Giulio, che venivano portati in Germania ai lavori forzati. Perciò, quando a casa di Giulio suonò il campanello ed i genitori si trovarono davanti un soldato tedesco, per poco non creparono di paura, paura che si tramutò subito in meraviglia quando quello si precipitò dentro, e disse con foga, ma a voce bassa:

<<Julius nascondere, nascondere, capito?  Se no nascondere kaputt! >>

E se ne andò subito, trafelato. A volte nella vita ci vuole fortuna, ed altre volte ci vuole prontezza; in quel caso ci volevano ambedue le cose: fortuna volle che in quella casa ci fosse uno stambugio, nel quale Giulio venne nascosto in men che non si dica. La porticina di quello stanzino venne occultata da un grosso mobile di legno, che venne spostato a fatica da tutta la famiglia.

Dopo un quarto d’ora i tedeschi vennero, per fortuna senza cani, e non trovarono nessuno da portar via. Giulio sentì, attutite dal muro e dal mobile, le voci gutturali dei soldati e quelle tremanti dei suoi genitori, ed ebbe una paura che non provò più in vita sua. Rimase nascosto per tre o quattro mesi, con un vaso da notte, qualche provvista e un po’ di luce che filtrava da una sorta di oblò che dava sulle scale del fabbricato. Usciva di tanto in tanto, ma mai di notte, perché lo spostamento del mobile faceva rumore, e solo dopo che sua madre – affacciandosi alla finestra e scambiati fuggevoli sguardi di intesa con le donne di vedetta sulla strada – aveva dato il via libera.

 

<<Quando i tedeschi andarono via>>, continuò Giulio sorseggiando il caffè che il professore aveva fatto preparare per l’ospite, <<questa fu la “storia di guerra” della mia famiglia; ogni famiglia ne aveva qualcuna, e per un po’ di anni queste storie vennero raccontate mille volte. >>

<<Eh si, è proprio così>> mormorò quasi tra sé il professore, <<ma, certo, è incredibile: quel  soldato rischiò la vita per salvarti, senza praticamente conoscerti. Se la sua azione fosse stata scoperta sarebbe stato considerato traditore e fucilato su due piedi. >>

<<Professore, io sono qui per questo: devo sapere cosa accadde in seguito a quel gesto, anche se sono passati quindici anni. Devo sapere se Hans venne scoperto, e lei può aiutarmi. >>

 

Così si misero all’opera: Giulio dettava e il professore ripeteva la frase ad alta voce in tedesco e la scriveva. Ogni tanto chiedeva qualche precisazione sul senso delle parole, per meglio tradurle nella lingua straniera. Quando finirono, chiuse la lettera in una busta e la inserì in un’altra busta più grande, indirizzata al parroco di R***, insieme ad un biglietto – pure scritto in tedesco dal professore – nel quale si pregava di recapitare la lettera “ad un certo Hans”, militare tedesco durante la guerra mondiale (del quale si sapeva solo che era stato in Italia Centrale nel 1944) oppure ad un suo familiare. Era quasi come affidare all’oceano un messaggio in una bottiglia.

*          *          *

Trascorsero quattro mesi, e Giulio tornò dal professore per farsi tradurre una lettera arrivata dalla Germania, da R***. Era la moglie di Hans, che, in poche righe, si diceva sorpresa e commossa per la vicenda narrata nella lettera di Giulio e precisava che il marito era stato dichiarato disperso nel febbraio del 1945 nel corso di combattimenti con gli Alleati avvenuti sulle Alpi.

 

Quando Giulio, salutato e ringraziato ancora il vecchio professore, uscì in strada con quella lettera in tasca, si sentiva liberato da quell’oppressione oscura che lo aveva a volte tormentato in quegli anni.  Dunque quell’uomo, quel tedesco, Hans, non era stato scoperto, non era morto per causa sua con il marchio del traditore, ma aveva partecipato alla ritirata della Wermacht verso il Nord. Certo, aveva fatto comunque una brutta fine, e questo faceva soffrire Giulio, dato che a quella persona doveva forse la propria vita (e forse anche quella di sua madre). Ma ora più che questo nei suoi pensieri e nel profondo della sua anima era la voce del professore che leggeva la parte finale della lettera della moglie di Hans:

Ricevetti da mio marito l’ultima lettera verso la fine del 1944, ricordo che era quasi Natale. Mi pregò di imporre a nostro figlio che stava per nascere, e che lui non conobbe mai, il nome di Julius. Aggiunse che, se fosse riuscito a tornare a casa alla fine della guerra, ogni volta che avrebbe chiamato il figlio gli sarebbe sembrato di alleggerire le proprie responsabilità, si sarebbe sentito un po’ meno colpevole per le sofferenze che il nostro popolo aveva inflitto al genere umano. Ma non spiegò il perché, ed io allora non potevo capirlo.

Il bimbo nacque, ora è un ragazzo, e solo oggi so perché porta quel nome che io stessa gli ho dato.

 

Camminando in quella bella giornata di primavera, Giulio pensò ad Hans e lo immaginò riverso nel fango, coperto di polvere e sangue. Da quell’immagine terribile fu distolto da una giovane con la lunga gonna a fiori, che sorrideva ad un  gatto che si stiracchiava al sole.  Giulio si fermò per un attimo a osservare la scena, sentì in lui la speranza che quella primavera potesse durare a lungo, e continuò la sua strada.

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