Premio Racconti nella Rete 2012 “Pittori misconosciuti del Rinascimento” di Giorgio Diaz
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012I’ vorria sape ‘l loco, ‘l tempo e l’ora
pe’ contarti pezzi e sceverare lo tuo arrière pensée
Andrea Filippo Bracceschi, detto il “Pìgolo”, pittore (1428? – 1496) nacque forse a Lajatico, forse a Orciano, nelle campagne pisesi, da povera famiglia di contadini e pastori, e si recò a Volterra ad imparare l’arte: fu allievo del Maestro di Pomarance, Simonetto Bicocchi, che lo accompagnò a Firenze, ravvisando in lui doti non comuni.
Lì entrò per breve tempo nella bottega di Paolo Uccello, che lo introdusse alla prospettiva.
E’ impossibile una biografia di questo pittore, in quanto le notizie sulla sua vita sono scarsissime e rarefatte, e le opere rarissime e misconosciute: fra queste, forse l’unica nota, un ritratto di Guendalina Kornichowski, meglio conosciuto come “La dama sul ciuco”, nobildonna polacca fuggita in Italia dopo il ripudio da parte del marito conte di Kornichowski, e quindi nota prostituta d’alto bordo e mezzana a Roma. Con questo ritratto, la dama, ormai agiata e famosa nel suo ambiente, volle rievocare la sua fuga dalla Polonia, assai rocambolesca in quanto il marito, dopo aver scoperto i suoi ripetuti tradimenti e averla scacciata dal palazzo, aveva ingaggiato un sicario per ucciderla. Ma essa, sedotto un losco contrabbandiere con le sue raffinate arti amatorie, si fece trasportare a dorso di mulo attraverso le frontiere, sfuggendo al killer che la inseguiva, e che fu infine assassinato in un agguato dal suo accompagnatore, a sua volta da lei stessa avvelenato poco dopo il loro arrivo in Italia, dove la contessa poteva contare su influenti conoscenze in Vaticano.
Nel quadro la si vede, in abito da viaggio rosso fuoco, a cavalcioni della poco nobile cavalcatura, con le gambe accavallate e una caviglia maliziosamente scoperta, mentre il torvo tipaccio che la conduce la guata con un ghigno libidinoso. La scena si svolge in una radura traversata da un torrente, circondata da un paesaggio boscoso e collinare. Si vede, vicino al corso d’acqua, un rozzo capanno, dove si presume che la coppia così malassortita abbia trascorso la notte. La luce del mattino inonda la scena e si appoggia radiosa sulla fronte di Guendalina, che sorride ironica e sapiente, consapevole del proprio fascino e della propria intelligenza anche in una circostanza tanto casuale e imbarazzante per una dama. La sapienza della pittura si intuisce dalla raffigurazione della possente mole del ciuco, certo ritratto ispirandosi ai cavalli del suo grande maestro Paolo, alla cui bottega, sia pure per un tempo limitato, aveva avuto accesso. Ma il “Pìgolo” aveva una propria originalità, che traspare sia dalla maliziosa figura della nobildonna, sia, soprattutto, dal truce aspetto dell’uomo, vestito di nero e col volto devastato dal vaiolo: una potente caricatura del male.
Il “Pìgolo” era così soprannominato sia per il tono basso e ficcante della sua voce, che penetrava nell’orecchio sgradevole, ma più acuta delle altre (e quindi non si poteva fare a meno di ascoltarla), sia per l’abitudine di intrattenersi con cortigiane e di intavolare con esse lunghe conversazioni che avevano ad oggetto maldicenze e pettegolezzi, di cui il pittore era molto esperto per la frequentazione delle numerose nobildonne che era chiamato a ritrarre: la maggior parte di questi dipinti sono andati, ahinoi, perduti!
Aveva infatti la confidenza del bel mondo, grazie alla sua spiccata ruffianeria. Costui, per quanto se ne sappia, non tornò mai al paese di origine: per niente déraciné, si inserì assai bene negli ambienti disparati ove si trovò a operare, e in particolare nella Roma artisticamente eccelsa e moralmente depravata di quegli anni della seconda metà del quattrocento.
Non si sposò, questo è certo, non ebbe figli, o piuttosto non li riconobbe: con ogni probabilità li lasciò alle povere madri. Lieve fuscello, fra i massimi pittori del Rinascimento, galleggiò, astuto e accorto, raccogliendo e sfruttando qua e là il succo dell’arte e del genio altrui. Del suo aspetto fisico molto poco si conosce: pare che fosse grasso, fatto non frequente all’epoca, ma conseguenza delle abbondanti libagioni cui si dedicava grazie alle cure delle sue protettrici, sempre pronte a coccolarlo con il cibo in cambio della sua esperta confidenza. Una corta barba rossiccia incorniciava il suo volto un po’ flaccido, e i capelli, almeno in età giovanile, si ornavano di riccioli della stessa coloratura.
Narrasi che il “Pìgolo” fosse avido di femmine quasi quanto di denari, ma non disdegnasse la compagnia maschile, specie di chierichetti adolescenti e imberbi, che avvicinava facilmente grazie alle sue frequentazioni ecclesiastiche e che compaiono ritratti anche nei suoi quadri di genere. Il continuo uggiolio della sua voce affascinava i giovincelli e li induceva a seguirlo come una guida, infida nella realtà, ma rassicurante nel suo mostrare conoscenza del mondo e degli uomini, fino a farsi maestro dei fanciulli nel periodo cruciale per la loro incertezza e per la loro ambigua vocazione religiosa.
Un altro dei quadri attribuiti al “Pìgolo” e giunti fino a noi, è infatti il “Ritratto di vescovo”, gelosamente custodito in una collezione privata, dove il soggetto fa sfoggio di una veste di uno splendido color violacciocca donde risalta un volto spiritato, col naso adunco e gli occhi luciferini, neri nell’iride iniettata di riverberi sanguigni. Ma ciò che contraddistingue il dipinto è il contorno di fanciulli giocosi che si affollano intorno al seggio severo, bambocci rosei, ma dallo sguardo penetrante e ammiccante. Si rivela nel quadro un sottobosco ecclesiastico che a malapena appare in altre più note pitture dell’epoca, e peraltro non riferito al disinvolto e mondano ambiente romano. Pare si tratti del vescovo di Pitigliano, Bonifazio de’ Caldaroli, uomo colto e appassionato di lettere e di arte, che pascolava un gregge di devoti, fra cui molti contadini, i cui figli sbarbatelli venivano prestati, anche per brevi periodi, alla chiesa. Il munifico collezionista proprietario del quadro, è affascinato dall’atmosfera giocosa che ne emana, e sostiene che, pur riconoscendone il limitato valore pittorico, se confrontato ai grandi di cui abbonda l’epoca, la fattura è assai raffinata e dona il senso dello spirito dei tempi e delle abitudini, dei traffici e dei rapporti umani che si praticavano in provincia. Il ricco sfondo luminoso e dorato rimanda al Beato Angelico, e si intuisce un eclettismo che consentiva al “Pìgolo” di stare a galla, a un livello mediocre ma comunque apprezzato, fra le grandi firme che lo sovrastavano per qualità. Purtroppo i trattati lo ignorano e lo stesso Vasari non ne fa cenno, considerandolo evidentemente un ininfluente minore.
Risulta, dalle carte in possesso del nostro prezioso collezionista, che in occasione della dipintura del ritratto vescovile, il “Pìgolo” se ne venne in giro per i borghi della Maremma, in cerca di cibo genuino e di giovani femmine, tenendosi alla larga dalla costa, ove la morte, per mezzo delle febbri malariche e dei pirati saraceni, girovagava inquieta. Visitò, il pittore, anch’egli come la sua antica committente, a cavallo di un robusto mulo, che era in grado di sorreggere il suo peso e contenere il suo corpaccio, il castello di Montiano, già cinto di mura, e quindi la visita si può collocare all’inizio degli anni ottanta del secolo quando il nostro doveva avere poco più di cinquant’anni. Nonostante il suo aspetto ripugnante e l’età non più giovane, l’artista, adocchiata una bionda fanciulla di nome Dorotea, la convinse a seguirlo nel viaggio di ritorno e, fatto smontare il suo accompagnatore, servitore del vescovo che colà lo aveva inviato per studiare una raffigurazione del borgo, ve la fece salire e si presentò alla porta di sud-est, ove fu fermato dalle guardie del castello, che volevano impedirgli di proseguire con la ragazza. Ma egli, verbosamente ruffiano e imbonitore, li convinse con l’astuzia che il vescovo l’aveva richiesta per i suoi servigi, e che l’avrebbe lui steso ricondotta in una settimana, così persuadendoli. Fu così che la femminuccia quindicenne divenne l’amante e la governante di quel depravato, che l’aveva strappata a una povera famiglia contadina, e vi convisse fino alla di lui morte, quando, ancora giovane, ma ormai dissoluta, fu accolta nel bordello della contessa Guendalina, e lì esercitò le sue arti per il resto della sua misera esistenza.
Dorotea fu dipinta numerose volte dal suo ruffiano Andrea, ma di questi quadri non è rimasta purtroppo traccia alcuna, tranne una breve testimonianza di un altro pittore contemporaneo, amico e compagno di dissolutezze e nefandezze del nostro, e di cui si conosce ancor meno della vita e delle opere, ma che ha lasciato alcune pagine di diario: il francese Bertrand de Pathuis, detto il “Cardello”. Costui, del quale si sa che era zoppo e storpio, racconta che nella bottega del “Pìgolo” erano presenti vari ritratti di una giovane bionda che si può identificare con Dorotea: di uno, in particolare, narra che la donna era raffigurata nuda e piangente, una lunga treccia bionda che le ricopriva il seno e il pube, in una posa che ricorda vagamente la “Cacciata dal Paradiso” di Masaccio, mentre un arcangelo dalle ali nere la spinge verso una grotta oscura. Di questa figura il Cardello rammenta il viso ovale e le labbra piene, e gli occhi sporgenti e lacrimosi, nonché una rosea natica e la coscia ben tornita, segno di quanto costoro fossero interessati al carnale mercimonio piuttosto che all’arte e alla sua rappresentazione.
In questo brano di diario, il “Pìgolo” appare come un vecchio sporco, obeso e sdentato che mostra al suo sodale i quadri che non può barattare e, sghignazzando, gli offre di confrontare dal vivo le grazie della sua modella con quelle raffigurate nel quadro, in cambio di una modesta somma, che gli servirà per cibo e bevande, onde festeggiare l’incontro con il collega.
Triste e infame epilogo di un pittore sgangherato e depravato.
Ahi, Bartolo, la vita. Sembra ieri, vent’anni. E, oggi, è già finita.
Un altro pittore che ha traversato di sbieco il Rinascimento: Thierry Péguiret, detto il Pìspolo, francese di Lione, venne in Italia a cercar fortune, attratto dai grandi nomi di risonanza internazionale, verso il 1430, e sembra fosse giovanissimo, per quanto se ne ignori la data di nascita. Scelse Firenze, dunque erano passati almeno dieci anni dalla venuta in città di Masaccio e Gentile da Fabriano, nonché di Masolino da Panicale. Fece in tempo a lavorare da garzone nel bottegone di Bicci di Lorenzo e a vedere all’opera Filippo Brunelleschi. Trovò alloggio, secondo alcuni documenti in possesso di un altro prezioso collezionista, in una casa in affitto nel quartiere di Santo Spirito, in via del Campuccio, di proprietà di un membro della famiglia Quaratesi, e si integrò molto bene nell’ambiente fiorentino, impadronendosi della lingua e dell’accento. Egli si manteneva anche dando lezioni di francese ai componenti della famiglia Quaratesi, che lo aveva preso in benevolenza e volentieri sostituiva il pagamento dell’affitto con quelle ore trascorse ad imparare la lingua, di cui il giovane era assai abile maestro. Thierry fu nominato il “Pìspolo” per il suo aspetto esile e per la sua voce cinguettante e melodiosa: era di media statura e di capelli rossicci, una rada barbetta della stessa tonalità gli incorniciava l’ovale del volto, gli occhi scuri saettavano curiosi e indagatori. La sua magrezza non era sintomo di malattia, ma anzi appariva nel fisico scattante, vigoroso e resistente a ogni fatica. Delicato e di bell’aspetto, di lui si incapricciò la fascinosa Albiera di Alessandro dei Bardi, quarta e giovane moglie di Francesco di Andrea di Castello, che Thierry dipinse in un malizioso quadro, uno dei pochissimi a noi giunti e attribuitogli con certezza, “La jeune fille plantureuse”, dove lo sguardo altezzoso e maliardo di Albiera tocca i sensi ed induce stuzzicanti pensieri. La donna indossa una tunica azzurrina, sotto la quale si nota un seno prosperoso, quasi prorompente; il suo volto obliquo emana un ambiguo sorriso e gli occhi saettano in tralice uno sguardo concupiscente e ammaliatore. Dipinto segreto, che certo il “Pìspolo” nascondeva in casa e che ha preso poi la strada della Francia, per sottrarsi ai pettegolezzi e alle inevitabili ritorsioni.
Ma si consumò l’amore nascosto di Albiera per Thierry?
Bisogna tener conto del fatto che il marito di Albiera era un maturo cinquantenne, ben portante e aduso alle donne, avendo già sperimentato tre mogli, ma non in grado di competere con il giovine francese, per giunta animato da spirito artistico e sprizzante energia e vitalità dal suo smilzo ma lesto fisico.
Dunque, da un frammento di lettera di Péguiret, che si presuppone indirizzato alla bella signora, si arguisce una passione che aveva bruciato tutti i freni e le resistenze, e non si placava neanche dopo un ardente pomeriggio d’amore.
“… mia sirochia, moglie, amatissima, hieri il cielo si aperse su li sensi miei e vidi la figura tua immacolata ne la luce, nitida e sine velo alcuno… affondai ne lo corpo tuo e la lengua lambiva li tuoi seni e la sacra peluria del tuo ventre … e l’estasi ci venne e vinse ne l’abbraccio co’ lo membro puntuto ne lo grembo tuo …”
Probabile quindi che Thierry ricevesse nella sua modesta dimora la superba Albiera e ne godesse i favori. Così, per quanto riguarda la sua produzione artistica, scarne testimonianze ci dicono come i suoi soggetti sacri, dai “Ritratti di Santi Padri” a “Santa Maria Maddalena”, alla “Madonna col bambino (Madonna dal velo rosso)” grondassero ardore e sensualità, sotto la spinta di quell’amore profano che si mescolava con l’impulso religioso.
Ad un certo punto Francesco deve essersi accorto di qualcosa riguardo alla tresca ai suoi danni, perché improvvisamente Péguiret fu sfrattato e perse quasi del tutto il lavoro, perché pare che nessuno gli commissionasse più opere. Le sue tracce quasi si perdono, sembra che egli abbia trovato ospitalità per un certo tempo nella casa di un discepolo di Paolo Uccello e che sia stato protetto dalla vendetta del marito tradito dai fratelli Salimbeni, per conto dei quali dipinse alcuni quadri di cui però non si è trovata traccia alcuna.
Ma ormai Firenze era divenuta per lui inospitale, Roma troppo importante per un pittorello qual’era (anche se si ha testimonianza di un suo soggiorno nella capitale, dove visitò alcuni pittori suoi connazionali), e non gli rimase che tornare al suo paesello vicino Lione, ove, grazie alla fama acquisita per il suo soggiorno italiano, gli furono commissionate varie opere, fra le quali resta conservata una discreta “Adorazione dei Magi” per la chiesa di Givors.
Sposatosi con la figlia di un mercante danaroso del luogo ebbe cinque figli e, sembra, una lunga ed agiata vita.
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Una pagina inedita ed accattivante di storia dell’arte rinascimentale… Veramente geniale! Bravo Giorgio!