Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Gigino il meccanico” di Marina Indulgenza

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Gigino il meccanico, il primo giorno di primavera, si è alzato di buonora, si è fatto un caffè, ha guardato fuori dalla finestra e ha pensato che con un sole così bello era proprio la giornata ideale per mettersi in viaggio. Così ha tirato fuori dal garage l’Alfetta 1600 dagli interni in pelle marrone, mentre ad ogni giro del motore un sorriso bambino prendeva forma sul suo viso. Sono mesi che la moglie e i figli gli dicono di allentare un po’ con il lavoro, ma, che ci vuoi fare, Gigino non lo fa per i soldi, lo fa perché gli piace, perché i motori sono la sua vita e poco importa se è domenica e la pasta al forno è in tavola o siamo nel bel mezzo della controra: Gigino è sempre pronto ad aprire l’officina e a mettersi a disposizione. Fa parte della vecchia scuola, lui, quella per cui non si getta via niente perché “tutto quello che si rompe si può riparare”, mica come i giovani d’oggi che buttano l’occhio, subito fanno di no con la testa e dicono che non c’è più nulla da fare. È per questo che i clienti con il tempo sono diventati quasi di famiglia, addirittura a volte passano con una scusa qualsiasi giusto per fare due chiacchiere e prender un caffè, perché Gigino ha sempre una buona parola per tutti. Peccato che non ci sarà nessuno a cui dare in eredità quella vecchia tuta sporca di grasso e olio, nessuno a cui lasciare gli strumenti del mestiere, nessuno a cui insegnare come regolare le punterie ad orecchio. Il suo unico figlio maschio ha deciso di fare l’uomo di lettere e di questa cosa, Gigino, ne è follemente orgoglioso.

L’orologio in cucina segna le dieci in punto, è ora di partire.

È proprio una splendida mattina questa del 21 marzo 2009. Ogni tanto l’Alfetta 1600 incrocia qualche pullman di scolaresche in gita, dai finestrini braccia adolescenti si agitano per salutare e lui risponde sorridendo. Una sosta all’Autogrill per un caffè e una bottiglia d’acqua e poi si riparte. In fondo sessant’anni di attività sono davvero tanti e forse è davvero ora di riposarsi. Gigino pensa che al suo rientro, probabilmente, ci saranno decisioni da prendere, passaggi di consegna, chiavi da riporre in un cassetto. I chilometri si susseguono rapidamente l’uno all’altro, l’autostrada è libera, per certi versi monotona; Gigino è talmente assorbito dai suoi pensieri che si trova in uno stato come di trance e nemmeno si rende conto che l’Alfetta 1600 ha svoltato a destra: il cartello stradale segna l’uscita per un posto che si chiama 1945.

L’autostrada prende la forma di una strada sterrata di campagna, come quelle che si possono vedere ancora in alcune zone del Sud, arido come quel lontano deserto d’Africa che fu terra di conquista. “L’Etiopia è italiana” sentenziava il Duce dal balcone centrale di Palazzo Venezia, “l’Italia ha finalmente il suo Impero”. E Gigino, classe 1937, era diventato suddito di un regime che l’aveva fatto crescere tra la guerra, il contrabbando, le sirene e i rifugi anti bombe. L’Alfetta 1600 segue la strada fino a entrare in paese e fermarsi sul Corso, accanto alla Parrocchia di Santa Maria del Popolo. Gigino riprende coscienza proprio in quel momento e si rende conto che il posto in cui si trova ha un’aria terribilmente familiare. Intanto, da una strada laterale vede sbucare un gruppo di ragazzini urlanti a seguito di una Fiat 500 Topolino, l’unica automobile del paese di proprietà del sindaco, che fa il medico ed è assai ricco. Durante la settimana la macchina è custodita come una reliquia, ma tutte le domeniche mattine il sindaco la prende per spostarsi dalla sua villa sulla parte alta del paese, fino al Corso. Ogni santa domenica sempre la stessa scena: il sindaco parcheggia, scende dall’automobile, guarda intorno con un sorriso beffardo la solita folla di curiosi, apre lo sportello alla moglie che gli da’ il braccio e insieme si dirigono verso la chiesa. Solo dopo che hanno fatto il loro ingresso gli altri si decidono ad entrare, tranne i ragazzini che restano sul sagrato, con un occhio all’altare e l’altro alla macchina. Quando Gigino scende dall’ Alfetta 1600 non sa di avere otto anni. Uno dei ragazzi gli urla qualcosa e gli fa cenno di avvicinarsi, Gigino si dirige verso il gruppo e riconosce ad uno ad uno Tonino, Marcello, Salvatore e Mimì. Quasi per istinto, si guarda la faccia nello specchietto retrovisore della Fiat 500 Topolino e rivede un paio di occhi vispi che aveva dimenticato da un pezzo, così come si era dimenticato di quel sogno domenicale che durava il tempo della messa. Sul sagrato Gigino e gli amici parlano di motori, di carrozzerie, di quello che faranno da grandi. Gigino non ha dubbi: lui farà il meccanico. Poi la messa finisce, la gente esce dalla chiesa, anche gli amici vanno via e Gigino resta completamente solo. Allora si rimette in macchina, si aggiusta lo specchietto e ritrova il viso di sempre. Lascia il paese, riprende la strada sterrata e ritorna in autostrada. Si sta facendo notte, Gigino è molto stanco e, inevitabilmente, si addormenta.

Sono le prime luci dell’alba quando l’Alfetta 1600 mette di nuovo la freccia a destra. Questa volta sul cartello dell’uscita c’è scritto 1960.

Gigino si sveglia e l’Alfetta 1600 è parcheggiata nuovamente lungo il Corso. Sul lato opposto, la Parrocchia di Santa Maria del Popolo, addobbata per un matrimonio. Gigino vede entrare gli invitati un po’ alla volta, mentre le donne più giovani temporeggiano sul sagrato e fanno le smorfiose per farsi ammirare dai giovanotti. Gigino scende dall’auto e si sente chiamare, si volta e vede Tonino, che ad occhio croce adesso avrà poco più di vent’anni. “Ti stanno cercando tutti, non vorrai mica far aspettare tu la sposa? O te ne vuò fuje? Coraggio giovane!”. Gigino si fa condurre in chiesa dall’amico e gli tremano le gambe. La salivazione è azzerata quando Lei fa il suo ingresso in chiesa ed è bellissima nel vestito avorio con inserti in pizzo e maniche a tre quarti, guanti e velo corto. È Lei, lo sapeva da sempre, da quella volta che l’aveva vista passare davanti all’officina sottobraccio alla madre e lui, che all’epoca era il garzone di Don Pasquale il meccanico, per vederla meglio aveva sbattuto la testa sul cofano aperto di una macchina. Lei aveva notato la sua faccia pulita e le mani sporche. Avevano tutti e due diciassette anni e si amavano pazzamente. Gigino era diventato un bravo meccanico, si era aperto un’officina tutta sua e aveva chiesto in moglie la sua bella. Ed ora eccolo, nel giorno delle nozze, con le mani sudate e il cuore gonfio di gioia. Mentre esce dalla chiesa tenendo la moglie per mano, una luce bianchissima lo colpisce agli occhi e gli fa perdere l’equilibrio. Quando li riapre intorno non c’è più nulla, la piazza è vuota, ancora una volta e c’è solo l’Alfetta 1600 a ricordargli che è tempo di ripartire.

Questa volta Gigino ha solo voglia di tornare a casa, ha nostalgia  della moglie, dei figli, dell’officina, dei suoi clienti. L’Alfetta 1600, come se gli avesse letto il pensiero, mette ancora una volta la freccia a destra, l’uscita segna 21 marzo 2009. Gigino riconosce la strada, i negozi del quartiere, la signora del piano di sopra che contratta con il fruttivendolo, Marcellino che ha fatto filone a scuola con i compagni e se ne va sulla Circumvesuviana a fumare di nascosto. L’Alfetta 1600, ancora una volta, parcheggia sul Corso. La Parrocchia di Santa Maria del Popolo è piena zeppa di persone che lui conosce, chi più chi meno. Nessuno però sembra accorgersi della sua presenza. Nessuno lo chiama, lo saluta o gli fa cenno di avvicinarsi: sono tutti silenziosi, sembrano addirittura tristi, qualcuno piange. Gigino si fa spazio tra un gruppo più folto di persone e vede la moglie e i suoi cinque figli tutti vestiti di nero, raccolti in un dolore composto; le donne ringraziano con baci sulle guance, il maschio con una stretta di mano. Ha gli occhi gonfi il suo ragazzo, chissà quanto avrà pianto.

Per Gigino il viaggio è davvero finito. Quando entra in casa l’orologio in cucina segna le dieci in punto. Gigino fa il giro di tutte le stanze, ha necessità di fare il pieno di immagini, ricordi, odori, suggestioni. L’ultima cosa su cui si sofferma è una cornice all’ingresso con una foto di tutta la famiglia: sono al mare, verso la fine degli anni ’70, in uno dei pochi giorni di riposo che si è preso in tutta la sua vita. La moglie, ancora bellissima, tiene in braccio il bambino che regge tra le mani un secchiello, di quelli per fare i castelli di sabbia. Accanto a lei ci sono le quattro figlie adolescenti che si mettono in posa. Gigino nella foto non c’è, perché l’ha scattata lui. Stringe forte gli occhi come per imprimere meglio l’immagine nelle pupille, poi, lentamente, si chiude la porta alle spalle. L’Alfetta 1600 è in garage, coperta da un telo. È stato difficile dire addio anche a lei, perché ogni separazione costa fatica, ma per questo viaggio non ne ha bisogno.

Le chiavi dell’officina, però, se le è lasciate in tasca, che non si sa mai.

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18 commenti »

  1. Complimenti! Davvero bellissimo.

  2. Grazie mille!! 🙂

  3. Forse sono di parte 😀 ma questo è uno dei racconti più belli che tu abbia mai scritto!!!!!!!

  4. commovente e un pò triste, ma sicuramente bella. in poche parole hai descritto i punti salienti di una vita. molto brava

  5. Marina complimenti…sei davvero brava. Mi piace moltissimo 🙂

  6. Un racconto scritto benissimo, che evoca sentimenti veri e vari, a volte piacevoli e a volte tristi e malinconici, ma ineluttabili, proprio come la vita

  7. Lo trovo un pochino freddo, sai? Forse è il tempo che hai usato. Oppure la terza persona. Perché la storia di Gigino è interessante, ma descritta in modo così discorsivo secondo me perde un po’. Ma è solo un mio piccolissimo parere! 🙂 Ciao!

  8. riesci sempre ad emozionarmi. sei bravissima!

  9. Che bello, finalmente un poco di poesia.
    Un viaggio nel passato dove la memoria è consolazione. Brava

  10. Complimenti, veramente un gran bel racconto. C’è dentro l’aria del mio paese, quella che non vedo da una vita. C’è la passione, tanta passione e malinconia. Carpe diem mi verrebbe da dire ma Gigino non c’è più, mi vien voglia di riaprire quella officina che sa di sudore e passione in un giorno di primavera che stenta ad arrivare. brava!

  11. rispondo a declesc: capisco cosa vuoi dire con freddo ma secondo me il tempo presente connota al racconto una immediatezza che nessun tempo avrebbe potuto dare, è come se la stessa autrica stesse dicendo : “io vi racconto ciò che succede, nè più nè meno, neanche io so come va a finire”. Questo rende il racconto fresco e immediato, lo spoglia dalla tristezza e lo veste di una sobria malinconia. Tutti comprendiamo, più o meno a metà del racconto che Gigino è morto, ma sorridiamo ripercorrendo i momenti importanti della sua vita che sono uno strano flashback, scorre veloce senza che l’autrice si impicci, si limita a raccontare, resta discreta anche se risalta la sua sincera tenerezza di un uomo all’antica come solo la classe del dopoguerra ha saputo essere. Il racconto breve deve scorrere veloce e condensare un momento di una vita piombando in media res, non sappiamo nè come nè quando sia morto, termina una vita ma ci da modo di pensare che, per tutti quelli che lascia, ci sarà un “giardino dei sentieri che si biforcano”, tranne forse per la donna che ama!

  12. Forse, Lorettina75, abbinando al presente la prima persona, si otterrebbe un’immediatezza ancora maggiore e si entrerebbe di più nel personaggio. Così, a tratti, mi sembra di leggere un riassunto (quasi un soggetto) più che il racconto di ció che sta succedendo. È la persona, secondo me, che raffredda troppo. Poi, ho trovato un buco: quando finisce la Messa e Gigino torna in autostrada diventa subito notte.

  13. Ciao delesc, ti ringrazio per i commenti e per le tue osservazioni. Solo una cosa, ho riletto attentamente il periodo in cui affermi che c’è un “buco”, ma, francamente non lo vedo. Nel senso che lui si rimette in autostrada e a un certo punto cala la notte. Tutto qui. Inoltre volevo precisare che ho cercato di sottolineare l’assoluta atemporalità del viaggio proprio perchè volevo rendere in qualche modo l’istante degli ultimi secondi prima della fine, quando, dicono, vedi scorrere in pochi secondi tutta la tua vita.

  14. Ciao Marina, mi ripeto, l’idea mi è piaciuta e forse per il buco effettivamente non è così evidente (perché è comunque un passaggio da una scena all’altra e, per come hai organizzato la sequenza dei fatti, ci può stare che scenda la notte e si apra una nuova scena senza il bisogno di raccontare se nel frattempo accadono altri fatti). Ma torno a dire che secondo me il racconto perde molto in intensità usando un narratore onnisciente. Prova, per curiosità, a riscriverlo cambiando la persona. Secondo me l’effetto immedesimazione – e quindi anche il pathos – aumenta 😉 Buona fortuna!

  15. Grazie declesc 🙂

  16. un bel viaggio nei ricordi brava complimenti

  17. Bello. Davvero bello. Il tempo della narrazione scorre in modo coinvolgente ed emozionante. Sembra che il vento che ti scompigli i capelli come durante un viaggio a tutta velocità su una Alfetta 1600!!! Sei troppo brava e ogni volta ti superi. Voglio già leggere il prossimo….

  18. Bello complimenti

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