Premio Racconti nella Rete 2012 “Madre” di Manola Pieruccioni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Stamattina si sente bella. E lo dice allo specchio che non è poi così d’accordo e le rimanda il suo caschetto biondo stinto con la frangetta troppo corta. Lei si aggiusta vivace un fiocchetto di velluto nero, ripiegato, come una piccola farfalla stanca che riposa sulla ciocca più ribelle. Un velo di mascara, steso a grumi piccoli, appallottolati dal tempo e un rossetto rosa pallido che le sbianca ancor di più la pelle intorno, rugosa e morbida che le raggrinza i lineamenti ed è difficile anche per lei ricordare com’era. E’ frettolosa e accesa. Si pettina guardando la spazzola nella superficie opaca e non vuole incontrarsi, le basta sbirciarsi le mani da vecchia che giura di non riconoscere perché non sono sue. Quando cammina, le tiene sempre incrociate sotto il petto, affondate e contratte per non dimenticarle in nessun posto, perché le servono ancora. Sono le stesse mani che prendono la bottiglia di plastica fuori il cancello, che la riempiono d’acqua, che la portano fino alla tomba e inondano il vaso di fiori finti che tanto piacevano a sua figlia.
Stamattina lascia la casa un po’ in disordine e dimentica il giornale infilato nella siepe: non vuole far tardi. Saluta tutti, anche gli sconosciuti, con quel sorriso luminoso e dolce che non ha nulla a che fare con l’andatura rigida e supponente che si porta dietro dai tempi del collegio, come un’abitudine imposta e ormai cristallizzata. Sbatte così spesso quegli occhi liquidi, come se qualcuno le soffiasse granelli di sabbia sul viso. Arriva sempre per prima, prende lo strapuntino che tiene nascosto dentro un forno non ancora utilizzato, chiedendo scusa al futuro proprietario, si accomoda il più vicino possibile alla foto del suo angelo, cerca nella borsa il taccuino e la penna e si concentra. Il custode del cimitero conosce questa abitudine e la guarda di sottecchi mentre rastrella il ghiaino sforzandosi di immaginare il suo dolore. A lui non è toccato in sorte un destino tanto crudele da sovvertire l’ordine naturale dell’universo, lui non è stato sconvolto dal moto retrogrado del tempo, lui ha seppellito solo le figlie degli altri.
La prima volta che la vide maneggiare freneticamente la penna si avvicinò incuriosito e mentre stava per chiederle cosa stesse scrivendo lei spostò la mano per guardarlo sorpresa. File di scarabocchi e ghirigori riempivano diversi fogli sparsi intorno. Lui s’irrigidì, impacciato e la informò, balbettando, che forse quel pomeriggio il cimitero avrebbe chiuso un po’ prima per dei lavori urgenti. Lei annuì, comprensiva, e lo guardò ancora un attimo allontanarsi prima di rimettersi a scrivere. Quando lo raccontò alla moglie la donna commentò con una frase per lui incomprensibile: ”A volte la gente si concede di impazzire per non diventare pazza.” Oggi la signora è lì. A pochi passi da quel caschetto biondo chino sopra quei fogli scarabocchiati e non si decide a superare l’impaccio di quella breve distanza. Forse lei la percepisce alle sue spalle. Si volta e sorridendo, accenna con la mano a un panchettino lì accanto. “Sposti la mia borsa e si sieda”. “Che cosa scrive di bello? – domanda senza i preamboli che si era ripromessa – Posso dare un’occhiata?” “Conosce la stenografia?” Chiede lei a sua volta, stupita. Ecco svelato il mistero. L’informazione fondamentale che da sola scardina ogni incasellamento arbitrario, la tessera mancante che da’ un senso al puzzle. “In collegio la odiavo! – continua divertita – Quando si è giovani nessuno ci può convincere che qualcosa imparato da altri ci potrà essere utile, non trova?” La signora annuisce rilassata e incrocia per un attimo lo sguardo del marito che transita poco distante con la pala sulla spalla. “Ho qui una cosa che vorrei leggerle!” Fruga tra le decine di fogli la vecchia ragazzina, soffiando a fior di labbra sillabe incomprensibili. Poi raggiante, comincia a lisciare una piccola pagina fitta, con quelle sue mani sempre strette, avvezze a manipolare pensieri e ricordi. Si fa più seria e comincia a leggere lenta, come una goccia di pioggia che non si decide a scendere lungo il vetro di una finestra appannata:
Madre, per me, di tutte le madri./Ora /che sei per sempre mia madre/ora /che non sarò mai più tua figlia./Ascoltami./Ripeti con me/la nenia infinita/cullami./Ora sei sovrana del tempo/dipenderanno da te le mie risa/befferemo il mondo così/solo io e te madre/solo io e te……
“Bella!” La signora è sinceramente ammirata. Lei sorride e precisa: “E’ una delle prime cose che mi ha dettato”. Lo dice abbassando gli occhi, accarezzando con dolcezza il foglio. “Dettato?” Ripete la signora allungando il collo in cerca dello sguardo del marito perso tra le tombe più lontane. “Mia figlia. – ammette con un moto d’orgoglio che non riesce a trattenere – E’ mia figlia che mi detta tutte le meravigliose cose che ho scritto su questi fogli. Mi vuole qui ogni giorno e ha sempre tanto da raccontarmi e vuole che lo scriva per non dimenticare.” “Capisco.” Azzarda la signora irrigidita sul panchetto. Ancora una volta l’imponderabile sorprende e inspiegabilmente cresce l’imbarazzo di sentirsi nel giusto, nel consueto, nell’accettato. Quando tutto è comprensibile, l’inaspettato sgambetto dello “strano” fa barcollare. Forse il segreto è lasciarsi andare in una sorta di comprensione complice. “Questa è una lettera che mi ha dettato per un suo amore. Un amore che non ha mai avuto e che non avrà mai: sarebbe diventata una donna così romantica! Le donne romantiche hanno una vita grama. Io lo so.” Canzona se stessa ora, e il suo sguardo si fa soave e disincantato insieme, come di chi ha gustato ogni singolo istante di sofferenza che la passione pretende. Non si è mai arresa e se avesse adesso impeto, possibilità e tempo, accetterebbe ancora con entusiasmo le batoste inflitte ai creduloni per ogni nuovo innamoramento.
Amore mio, incontriamoci sul mare, lì dove quel gabbiano camminava sulle onde e tu hai riso così forte da spaventarlo. Mi hai stretto mentre gridavi GUARDA! Ed io accecata dal sole chiudevo gli occhi e adoperavo i tuoi perché erano più puri e vedevano più lontano e più a fondo. Incontriamoci davvero, ti prego. Come se fosse basilare per le nostre vite avere l’uno dall’altra il permesso di esistere. Io ti aspetto amore mio. Ora ho tutto il tempo dell’universo e sarò paziente nel disegnare questo sentiero orlato di papaveri lucenti e tu saprai da sempre che sono i miei fiori preferiti e così capirò che mi ami, perché non c’è desiderio al mondo che non soddisferai, non c’è parola di conforto che non conoscerai, non c’è scopo che non m’includerà. Ti prego, non desistere amore mio. Io credo solo in te…..
Smette di leggere e alza lo sguardo che affoga un po’. “Ha avuto veramente poco tempo vero? – lo domanda per l’ennesima volta a se stessa e non si aspetta conforto. – La sto annoiando?” E’ sinceramente preoccupata. “Assolutamente!” Quasi grida la signora e d’istinto avvicina il panchetto a quella creatura densa che ne contiene un’altra, per la seconda volta nella sua vita e ora, forse, per sempre. “E’ anche spiritosa mia figlia, sa? Lo è sempre stata. Questa me l’ha dettata il giorno in cui presi una multa, ingiusta sia chiaro! – lo ribadisce più volte, compresa in quell’alterco così terreno, effimero e importantissimo nella sua concretezza. “Ero così arrabbiata! Ma lei sa come calmarmi.”
Mamma, ti ricordi quello che non è mai avvenuto? Portavamo i miei figli al parco e il più grande ti prendeva in giro perché avevi ai piedi due scarpe diverse e tu spacciasti quell’errore assurdo per una qualche moda giovane vista in TV. Ti succedeva qualche volta perché ti vestivi al buio. Ti piaceva scegliere i vestiti per la consistenza dei tessuti e riconoscevi i vari capi e li assemblavi, forte di un certo ricordo, indifferente al buon gusto. Sei sempre stata così confusamente bella mamma! Io avrei voluto raggiungere con te questa perfetta imperfezione……….
“Qui ha smesso di dettare senza dirmi il perché. A volte s’indispettisce perché i suoi pensieri sono così fulminei e i miei così faticosamente lenti….”
Cerca ancora, fruga, legge, s’asciuga una lacrima, la stessa che la signora lascia scivolare fin sotto le labbra. Lei legge instancabile, come nel racconto imperituro di una vita vissuta in eterno e racconta buffi aneddoti e ridono le tre donne e a nessuna importa se il passato si mischia a un futuro impossibile. E’ lì, in quelle parole, tutto il bello della vita. E’ lì, su quei fogli dipinti la verità e il senso di tutto quello per cui vale la pena. Un terzetto completo e appagato che il custode scruta da lontano senza capire.
Si è fatto tardi e la signora lascia a malincuore quel panchetto e quell’amore. Si avvicina al marito che ansioso, domanda: “Allora, è matta?” “Almeno quanto noi!” Risponde la moglie dandogli un pizzicotto sul ventre sporgente. Lui crolla il capo rassegnato e si volta. Lei è ancora lì seduta che si liscia la frangetta e increspa le labbra in un sorriso di scusa. E’ veramente bella ora. Anche lo specchio lo riconoscerebbe. E’ vera, come chiunque dovrebbe essere per rendere la vita degli altri migliore.
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decisamente commovente, hai saputo trasformare l’inaccettabile in poesia . complimenti
Grazie Luigi! “L’inaccattabile in poesia” è il massimo!