Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Fine” di Antonella Spinella

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Quel documento aperto da quasi un’ora sul suo computer stava cominciando ad assomigliare a un lenzuolo bianco steso ad asciugare e dimenticato lì, al filo, sotto il sole estivo. Dritto, fermo e immacolato.

Non è che non avesse voglia di lavorare, o fretta di terminare, Jen. È che non sapeva come. La storia era tutta lì, dispiegata e svolta sotto ai suoi occhi. La conosceva a memoria: l’aveva scritta lei, del resto.

Si accese una sigaretta: secondo i suoi calcoli, poteva fumarne altre quattro entro la mezzanotte e rimanere comodamente all’interno del regime giornaliero che si era prefissata per mantenersi in salute. La sua scrivania, che lei lo volesse o no, col tempo aveva assunto le sembianze del luogo di lavoro tipico dello scrittore: legno scuro invecchiato, portasigarette di metallo intarsiato, fiaschetta che ormai riempiva solo di Wild Turkey perché era diventata abitudinaria. A volte, la sera, accendeva le candele, così, per fare atmosfera. Purtroppo non aveva un camino, ma la vecchissima poltrona rivestita di velluto verde sulla quale era seduta bastava a dare un tono da vecchia Inghilterra a tutto l’ambiente.

La sigaretta finì. Jen odiava quando le sigarette finivano, soprattutto se fumare era l’unico modo per procrastinare una decisione che non aveva voglia di prendere. I minuti in cui fumava non erano rubati al mondo esterno, no: era come spostarsi in un universo fuori dallo spazio-tempo, dove il flusso degli eventi si fermava e il tempo si dilatava a sufficienza per consentirle di fare la scelta giusta.

La sigaretta, a ogni modo, finì. Jen la spense schiacciandola energicamente in uno spesso posacenere di vetro che aveva l’urgente necessità di essere svuotato.

–          Lo faccio dopo – pensò Jen – lo faccio dopo. Tanto devo dar da mangiare al cane. Faccio tutto assieme, dopo.

Era diventata pigra, Jen, con l’età. Quando aveva vent’anni le sembrava che il tempo le sfuggisse da tutte le parti, proprio allora che, di tempo, ne aveva da vendere. Forse era perché voleva fare tante, troppe cose, Jen. Forse voleva farle tutte, anche se non si poteva. Però aveva la speranza di riuscirci, un giorno: la speranza, e anche la paura. Perché se speri tanto in qualcosa, poi hai anche paura di non ottenerla. E più bella è quella cosa, più grande è la paura.

Dunque Jen aveva passato gran parte della sua vita a correre dietro al tempo, e adesso s’era stancata. Adesso andava lenta, non le interessava più. Qualcosa l’aveva avuta, qualcosa l’aveva persa, ma ormai non aveva nemmeno la forza, per vivere così tanto. Quindi scriveva.

Quella sceneggiatura non l’aveva impegnata molto. Era una storia ordinaria, senza grandi picchi: una storia d’amore come se ne vedono tante. Lei ama lui, lui ama lei, complicazione, peripezie, conclusione. Uno schema che avrebbe fatto felice qualsiasi studente di scrittura creativa. Del resto, nessuno di noi sta qui a chiedere originalità alla vita.

Il problema di Jen, adesso, era uno e uno soltanto: doveva concludere. Doveva mettere un punto, scrivere la parola fine e spedire tutto: e doveva farlo quel giorno stesso. Le scadenze sono scadenze.

A dire la verità, lei ce l’aveva già bello pronto, il finale. Lo aveva scritto nei giorni scorsi, ed era proprio un ottimo finale: originale, spiritoso ma con sentimento, consapevole e pieno di poesia. E non era un lieto fine.

–          Sai, Jen – le dicevano – oggi il pubblico ha delle esigenze diverse. Passi il romanticismo, passino le storie d’amore, ma al lieto fine non ci crede più nessuno. Non puoi far passare una cosa alla Frank Capra e sperare che la gente la prenda per buona. Dai, quelle cose non succedono. Va bene la storia d’amore, ma il finale fammelo diverso. Non so, fa’ che lui debba partire per non so dove, o che lei s’ammali, o che per qualche assurda ragione la loro storia non possa continuare. Non so, inventa. Oh, comunque – le dicevano – lei, la protagonista, intendo, t’assomiglia un sacco, lo sai?

Jen era soddisfattissima del suo finale non lieto. E non c’aveva messo nemmeno troppo a scriverlo: le era venuto, come dire, naturale. L’aveva iniziato una notte, con una scorta di bourbon e un posacenere vuoto accanto, e il mattino dopo era lì, nero su bianco.

Ma quella sera, l’ultima prima della consegna, quando l’unica cosa da fare sarebbe stata mettere un punto, spegnere il computer e andare a dormire, Jen si fermò. Si fermò, e rimase lì, a fissare la pagina bianca, fumando la quintultima sigaretta prima della mezzanotte.

Spense la sigaretta. Osservò il posacenere colmo. Guardò di nuovo lo schermo del computer. Bevve un sorso. Si asciugò le labbra col dorso della mano.

–          Sapete cosa? Vi faccio vedere io, vi faccio.

Selezionò la cartella “Finale”. Cestino. Svuota cestino. Certo, un bel falò avrebbe fatto più effetto, ma, ehi, è la modernità.

–          Ecco. Anche volendo, adesso non potrei più riscriverlo.

Si accese un’altra sigaretta. Decise che non avrebbe badato a quante ne fumava, quella sera. Era una cosa piuttosto importante, quella che stava facendo.

Scrisse un altro finale. Le venne fuori banalissimo, melenso e sdolcinato. Era un tripudio di frasi zuccherose, di “ti amo” gridati dai finestrini dei treni e di tramonti osservati mano nella mano. Era quello a cui nessuno spettatore avrebbe pagato per assistere, ma che forse più di qualcuno avrebbe voluto vivere, almeno una volta nella vita.

Lo scrisse e lo spedì. Ovviamente gliel’avrebbero rimandato indietro, le avrebbero chiesto se era impazzita e avrebbero archiviato il caso come il primo sintomo di un’incipiente demenza senile. Forse lo avrebbero fatto riscrivere a lei, o magari lo avrebbero passato a qualcun altro. Non importava.

Spense il computer, soddisfatta. Si accese l’ultima sigaretta prima di andare a letto. Si alzò, si sgranchì un po’ le gambe e fece un breve giro per l’ampia stanza. Si avvicinò a una mensola. C’era la foto di una coppia, una coppia giovane, appoggiata sul ripiano di marmo. La prese in mano.

–          Robaccia, eh? – sorrise Jen. – La più banale e stupida storia che abbia mai scritto. Ma era quella che mi meritavo.

Rimise a posto la foto, spense la sigaretta, e andò a dormire.

Loading

2 commenti »

  1. Brava Antonella! ”Del resto, nessuno di noi sta qui a chiedere originalità alla vita”
    Complimenti!

  2. Grazie, Franca! Contenta ti sia piaciuta la mia “pillola di saggezza” 🙂

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.