Premio Racconti nella Rete 2012 “Il giorno in cui Simone salì sulla collina” di Antonella Spinella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Come quando si aspetta qualcosa che non si sa quando arriverà, se nel giro di un minuto o tra decine di anni, Simone guardava fuori dalla finestra. Non aspettava nulla, in realtà. Guardava. Osservava. Studiava.
Sapeva vivere soltanto così, Simone, guardando la vita. In piedi su uno sgabello, perché la finestra era troppo alta per lui, Simone guardava la vita, immaginava, sognava, viaggiava.
Come nelle fiabe, poteva scegliere chi essere: il venditore di palloncini, il gelataio, il cagnolino della signora di fronte. Ogni giorno una vita diversa, un personaggio diverso. A pensarci bene, poi, era anche meglio che nelle fiabe: quelle che gli raccontava la mamma duravano sempre troppo poco, e non lo facevano sognare, né sorridere. Neanche sua mamma sorrideva molto, in realtà. E neanche suo papà. In compenso, urlavano sempre: urlavano con lui, urlavano tra loro, urlavano molto più di quanto non sorridessero.
Simone non capiva perché. Una vita in cui si urla, come può essere felice? Simone pensava che ci fossero delle cose che andavano dette piano, lasciate cadere come cade la prima neve dell’anno, discreta, gentile. Ma i suoi genitori non le avrebbero mai dette.
In fondo, a Simone non importava molto se i suoi non capivano. Un po’, sì, gli dispiaceva, perché diciamolo, i grandi sono così bravi ed esperti e sicuri nelle cose loro, da grandi, che i bambini non capiscono, e si perdono invece in quelle più semplici. Non sanno cosa fare, non riescono a decidersi, e quando si decidono, alla fine, sbagliano.
Forse non erano proprio tutti così, ma questo, Simone, non poteva saperlo. Certo gli sarebbe piaciuto poterli aiutare, i suoi genitori, in qualche modo, ma gli avrebbero mai dato retta ? Simone pensava di no. E probabilmente aveva ragione. Doveva essere difficile, la vita, per mamma e papà. Ma la sua, pensava Simone, era bellissima. Dalla finestra vedeva una grande strada e il parco, e più oltre le colline, e una, in particolare, una collina che a Simone sembrava altissima, la più alta del mondo. Chissà se lo era davvero.
Vedeva tutte queste cose, e queste cose erano il mondo, per lui, o giù di lì. E le persone che attraversavano il mondo erano felici, pensava Simone, perché sorridevano, e non urlavano. Doveva proprio essere un problema dei suoi genitori. Forse erano malati.
Simone sperava che fosse una malattia breve e mansueta come un raffreddore, per cui sarebbe bastato un po’ di riposo e qualche pillola colorata e tutto sarebbe andato a posto. Non come la strana e brutta malattia della nonna che adesso non c’era più. Simone ci teneva, ai suoi genitori, anche se forse non erano proprio il meglio che ci fosse sul mercato.
Ad ogni modo, quella mattina Simone osservava il mondo dalla finestra in piedi sul suo sgabello. Le vetrine dei negozi, il viale, gli alberi, le colline. Il mondo.
E improvvisamente eccolo lì: sul marciapiede di fronte, un bambino piangeva. Urlava. Piantato sul marciapiede, fermo, immobile, urlava. Piangeva.
Sua madre cercava di trascinarselo appresso, ma lui non ne voleva sapere di muoversi. Urlava. E basta.
Chiuse di botto la finestra, Simone, e saltò giù dallo sgabello.
Non era vero che la gente, nel mondo, era felice. Non era vero che la vita era bellissima. Tutti piangevano. Tutti urlavano. Non erano solo i suoi genitori. Tutti erano malati. Ed era una malattia cattiva, anche se forse non si portava via le persone come era successo alla nonna.
Non si può essere felici quando si è malati, pensava Simone. Non si può vivere, se la vita fa male. Doveva esistere per forza qualcosa che riuscisse a guarire la gente che stava male di vita. Un rimedio miracoloso, qualcosa. Ma chi poteva conoscerlo? Lui, Simone, no di certo. Ci sarebbe voluto un dottore, pensava, ma un dottore bravo, bravo veramente. Un dottore che desse retta a un bambino, e soprattutto che non fosse malato anche lui.
Ma forse non esisteva, un dottore così. Serviva qualcosa di meglio. Ci pensò su a lungo, Simone, e alla fine si accorse che gli restava un’unica soluzione. Doveva parlare con il dottore più bravo che ci fosse. Non sapeva ancora come, ma doveva riuscirci. Ed era davvero un progetto ambizioso, per un bambino di otto anni, voler incontrare Dio.
Ci pensò su un po’, Simone. Da quello che aveva sempre saputo Dio stava in cielo, e lui non aveva proprio idea di come riuscire ad arrivarci.
Non avrebbe mai potuto saltare così in alto, pensò, e non voleva neanche arrivare in cielo come aveva fatto la nonna, perché poi non si poteva tornare indietro: e come avrebbe fatto, a quel punto, a rivelare a tutti la cura miracolosa? E poi vivere gli piaceva, gli piaceva il mondo. Anche se non era proprio perfetto, anche se a volte qualcuno piangeva, non gli sembrava il caso di piantarlo in asso per sempre, povero, piccolo pianeta.
No, bisognava trovare un altro modo, per parlare con Dio. Forse avrebbero potuto incontrarsi a metà strada. A Simone sarebbe bastato arrivare il più possibile vicino al cielo, e Dio sarebbe stato lì ad aspettarlo.
Salì di nuovo sul suo sgabello, riaprì la finestra.
Il posto più vicino al cielo era lì: era la collina che Simone vedeva ogni giorno dalla sua finestra, la più alta del mondo. Lì Simone avrebbe incontrato Dio, e lui gli avrebbe rivelato il Grande Segreto e nessuno avrebbe più pianto né urlato e tutti sarebbero stati felici.
Uscì di casa, Simone, per la prima volta da solo. I suoi genitori non si accorsero di nulla.
Ci mise molte ore ad arrivare fin sulla collina. E, quando arrivò, sulla collina c’era un vecchio appoggiato a un albero, un albero altissimo, che arrivava fino al cielo. Tutt’intorno, pecore. Decine di pecore.
Simone si fermò, incerto: non era cosa di tutti giorni vedere Dio. Alla fine, esitante, si avvicinò a quel vecchio bianco e senza età. Il vecchio aprì gli occhi, ma non si mosse. Simone era a pochi passi da Dio, adesso. Doveva solo parlare. Fare quella domanda.
– Io… io volevo… volevo sapere se esiste una vita che non fa male. Che non fa piangere mai.
Sorrise, quel vecchio. Le grinze della sua faccia si stirarono come se non sorridesse da anni.
– Mi credi se ti dico che la sto ancora cercando anch’io ?
E richiuse gli occhi.
Simone tornò indietro. Cos’altro avrebbe potuto fare? Non aveva avuto la sua risposta, non esisteva nessuna cura. Però, quel vecchio… Dio, insomma, sembrava un po’ felice, lui. Sembrava che ci credesse, che la felicità da qualche parte c’era. Aveva fiducia.
Simone tornò a casa, e i suoi genitori non urlarono. Sorrisero. Lo abbracciarono, non lo sgridarono. Non urlarono.
Simone pensò che in realtà Dio la conosceva, la cura per il male di vita, anche se non aveva voluto dirgliela. Forse, se gliel’avesse svelata, lui, Simone, non avrebbe capito. E poi non poteva mica credere che Dio rivelasse i suoi segreti a tutti, no?
Si era fatta sera ormai, e il vecchio Ernesto pensò che era l’ora di tornare a casa. Cominciava a sentire il peso degli anni, il vecchio Ernesto: sempre più spesso gli capitava di addormentarsi appoggiato all’albero sulla collina.
Quel giorno, poi, aveva perfino sognato… Cosa avesse sognato esattamente non se lo ricordava, ma doveva essere stato un bel sogno.
Il vecchio Ernesto radunò le sue pecore, le contò, e scese giù dalla collina.
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