Premio Racconti nella Rete 2012 “Arrivederci, dottoressa” di Antonella Spinella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012– Vede, dottoressa? Il mio principale problema è questo: mi fido troppo delle persone.
– Davvero? La scorsa volta mi ha detto che il suo problema più grosso è che non si guarda mai attorno quando cammina e tiene sempre gli occhi bassi per non incontrare gli sguardi delle altre persone.
– Sì, è vero. Quello è il mio secondo principale problema.
– D’accordo. Ne parleremo più approfonditamente la prossima settimana.
– Venerdì, vero?
– Venerdì.
– Arrivederci, dottoressa.
– Arrivederci.
Il signor Orazio si alza dalla poltrona, si scuote via con le mani un po’ di polvere – immaginaria – dai pantaloni e fa per uscire dalla porta. In quel momento viene quasi travolto da un tipo smunto e male in arnese che entra piazzandosi immediatamente sulla poltrona, rimasta libera.
La dottoressa Amanda appoggia gli occhiali sulla scrivania, sistema un paio di libri su uno scaffale e sorride, conciliante, al nuovo arrivato.
Il venerdì seguente il signor Orazio entra dalla porta: alle ore 18, come sempre.
– Buon pomeriggio, signor Orazio.
– Buon pomeriggio, dottoressa. Come va?
– Be’, dovrei essere io a chiederglielo, no?
– Eh. È vero. Non sto bene, dottoressa, non sto niente bene.
– Ha parlato con la sua fidanzata?
– Sì. Le ho spiegato tutta la storia, sa, quella che ho raccontato a lei, che in ogni donna che amo rivedo Tania, la bambinaia russa, e tutto il resto…
– E lei?
– Niente: non la reputa una spiegazione sufficiente. Sa, per quella roba lì, le parrucche bionde, le donne e la vodka.
– Capisco. Cos’ha intenzione di fare, adesso?
– Cos’ho intenzione di fare? Non dovrebbe dirmelo lei, questo?
– No. Deve trovare la risposta da solo. Si guardi attorno. O si guardi dentro, magari.
– La fa facile, lei. Lei è la dottoressa, qui. Lei ha studiato. Com’è che ci si guarda dentro? Per quanto ne so, dentro di me c’è soltanto un cuore stanco e un fegato malfunzionante.
– Mi sembra assolutamente sufficiente, signor Orazio.
La dottoressa Amanda si concede un sorriso. Il signor Orazio aggrotta perplesso le sopracciglia.
– Le ho già parlato di mia madre, dottoressa?
– Venerdì prossimo, signor Orazio. Me ne parlerà venerdì prossimo.
– Va bene.
– Arrivederci, signor Orazio.
– Arrivederci.
Il signor Orazio prende il cappotto, si dirige verso la porta ed esce, non prima di aver rivolto un cenno di saluto all’uomo magro che varca, anche questo venerdì, puntuale, la soglia.
Il venerdì successivo il signor Orazio compare nella stanza alle 18.03, trafelato.
– Mi scusi, dottoressa, mi scusi. Sono in ritardo. Sa, ero uscito di casa e avevo già percorso un bel pezzo di strada quando m’è venuto il dubbio di non aver chiuso bene la porta. Sono tornato indietro per controllare: effettivamente era chiusa. Mi sono incamminato di nuovo, ma poi mi sono ricordato che forse non avevo accarezzato due volte sulla testa il gatto Timmy, come faccio sempre. Così sono tornato nuovamente, e l’ho fatto. Ma, come può immaginare, ho perso tempo.
– Non c’è problema, signor Orazio.
– Grazie, dottoressa. Allora. Oggi volevo parlarle di mio padre.
– Mi sembrava avesse intenzione di parlarmi di sua madre.
– Oh. Mio padre, mia madre, è lo stesso. È colpa di entrambi se sono così. Non hanno mai voluto lasciarmi tenere un cucciolo.
– Un cucciolo.
– Sì. Da bambino avrei tanto voluto un cucciolo. Di cane, di gatto, di panda, non m’importava. Volevo qualcosa di piccolo e carino da crescere. Invece non l’ho mai avuto, e così adesso sono schivo, timido, fobico e incapace di portare avanti relazioni a lungo termine.
– E ora in che rapporti è con i suoi genitori?
– Oh, non li vedo e non li sento da una vita. Mio padre era un costruttore impelagato in cose poco pulite, sa, tangenti, roba così. Quando avevo dieci anni scappò all’estero, e mia madre passò i successivi dieci anni ripetendo ogni giorno che disgraziato fosse quell’uomo e che enorme errore fosse stato sposarlo. Poi diede di matto, ingoiò due scatole di pillole mandandole giù con una mezza bottiglietta di essenza di bergamotto che aveva scambiato per Martini, e la ricoverarono in una clinica.
– E non crede, signor Orazio, che anche questo possa aver influito sulle sue attuali condizioni?
– Nah. È più per la storia del cucciolo, secondo me.
– Capisco.
– Sa, dottoressa? Avrei tanto da dirle anche a proposito di mia nonna, e di mio zio, e dei cugini che avevano la casa vicino al fiume, col grande fienile, e…
– Certo. Venerdì prossimo, va bene?
– Sì.
– Arrivederci, signor Orazio.
– Arrivederci, dottoressa.
Il signor Orazio se ne va. Ancora pensoso, stavolta non lo nota neanche, l’uomo magro che arriva sempre dopo di lui.
Il venerdì successivo piove. Alle 18 in punto il signor Orazio entra dalla porta, gocciolando e scuotendo un ombrello grondante.
Qualche minuto dopo è sulla poltrona, confortato dal tepore della stanza.
– Le dicevo, dottoressa, che il mio più grande problema è questo: sono ossessionato dalla simmetria.
– La simmetria, signor Orazio?
– Sì, la simmetria. Insomma, tutto dev’essere simmetrico. Dritto. Equidistante. Oppure impazzisco.
– Mi faccia degli esempi pratici, se le va.
– Ecco, io bevo ogni mattina una tazza di caffellatte, no?
– Aha.
– E mangio anche dei biscotti. I biscotti hanno due forme: tondi e quadrati. Io ne mangio sempre in numero pari, uno tondo e uno quadrato, e così via. Altrimenti ho l’assoluta certezza che la giornata andrà male.
– Capisco.
– In ufficio, la prima mezz’ora la trascorro a raddrizzare penne e matite, a riordinare blocchi di fogli, a catalogare libri secondo metodi sempre diversi. È sfiancante. Mi guarisca, dottoressa.
– Vede, signor Orazio – la dottoressa Amanda sospira – devo dirle una cosa: io non posso guarirla.
– Sì, lo so, la risposta è dentro di me e bla bla bla, ma almeno mi aiuti! Faccia qualcosa, insomma!
– No, lei non ha capito. Io non posso fare proprio nulla.
– Non può fare nulla? Insomma, chi è qui lo psicanalista, lei o io?
– Be’, se lei lo è, non lo so: io, no di sicuro.
– Ecco! Lo sapevo che non dov… non lo è?
– No. Questa è una libreria. Vede? – la dottoressa Amanda indica lo spazio attorno a sé con un ampio gesto della mano – libri. Molti libri.
Il signor Orazio si guarda intorno, e, per la prima volta in due mesi, si rende conto che i volumi di cui finora aveva a malapena notato l’esistenza non sono tomi di psicologia e neuroscienze, ma opere dei generi più vari: romanzi gialli, rosa, neri, poesie, avventure e fiabe.
Forse è vero che il suo principale problema è quello di non guardarsi mai attorno quando cammina: la porta dello studio dell’analista dev’essere giusto accanto a quella della libreria, ma non alzando mai gli occhi a più di dieci centimetri dal suolo è facile sbagliare.
– Ma… ma… non c’è mai nessuno!
– Appunto: è una libreria.
– Ma… lei ha lasciato che per tutto questo tempo la chiamassi “dottoressa”!
– Lo sono: dottoressa in Lettere, per la precisione.
– E perché non mi ha avvertito dell’errore?
– Che potevo saperne, io? Credevo avesse semplicemente voglia di chiacchierare un po’, di confidarsi o che so io. La gente oggi non ti presta più molta attenzione, quindi ho pensato “oh, ecco un tipo che non ha nessuno con cui parlare, e, be’, viene sempre alla stessa ora del venerdì perché è un abitudinario”.
– Ma, allora… quel signore, quello che arriva sempre dopo di me… chi è? A me sembra un tipo strano, uno che ha davvero bisogno di un analista, insomma.
– Oh, quello? È Jack il Vagabondo. Viene sempre qui, la sera, finché non chiudo. Si siede sulla poltrona e legge La Recherche. Non credo sia un uomo di lettere, ma Proust sembra piacergli molto. Ormai lo so, e lascio sempre il volume sulla scrivania, apposta per lui. Sa, è piuttosto pesante.
– Santo cielo.
– Su, sono cose che capitano.
– Mi scusi: come fa a sapere tutte queste cose sugli uomini, sui sentimenti, sull’anima? Sull’amore?
La dottoressa Amanda sorride e alza le spalle.
– Leggo libri.
– Oh. Certo. I libri.
Il signor Orazio solleva il mento più che può e guarda in su, verso la cima degli scaffali che coprono tutte e quattro le pareti. Forse è la prima volta che guarda tanto in alto, il signor Orazio.
– Ce ne sono molti, qui, di libri – continua – vero, dottoressa?
– Sì, signor Orazio. Ce ne sono molti.
– Magari un giorno o l’altro ne compro qualcuno. Così, per leggerlo.
– È una bella idea.
– Allora adesso… visto che lei non è la mia… cioè, visto che questa è solo… adesso vado, eh?
– Certo. Arrivederci, signor Orazio.
– Arrivederci, dottoressa.
La dottoressa Amanda appoggia gli occhiali sulla scrivania, sistema un paio di libri sullo scaffale e sospira. Poi improvvisamente si illumina.
– Signor Orazio!
Il signor Orazio sta già per uscire in strada. Torna indietro.
– Sì?
– Non le sembrava strano che… insomma, lei veniva qui e parlava sempre per un’ora e poi… non le sembrava strano che non le chiedessi nulla? Soldi, o cose del genere?
– Ma, dottoressa, veramente… io avevo… già pattuito tutto con l’analista, cioè, quella vera, al telefono… quindi le lasciavo sempre quanto stabilito sulla scrivania, prima di andar via, vicino a quel grosso libro… oh.
– Oh.
I due si guardano per un ultimo, lungo momento.
Da qualche parte, fuori, Jack il Vagabondo beve champagne.
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Personaggi un tantino surreali che sembrano usciti dal film “Il favoloso mondo di Amelie” e poi finale a sorpresa. Racconto molto carino.
Grazie, Silvia! In effetti trovo molto tenera Amelie, e la tenerezza è una delle cose più importanti in una persona 🙂
mi piace tanto questo racconto. Lo trovo tenero, ben scritto e adatto anche per un simpatico “corto”. Complimenti davvero!
Grazie, Mirta! La cosa che mi fa più piacere è che lo trovi tenero. Adoro suscitare tenerezza 🙂
Ma che brava!Mi sono divertita a leggere, dialoghi brillanti e naturali, finale a sorpresa. E un brindisi a Jack! 😉
Grazie, Francesca! Sono contenta che ti siano piaciuti i dialoghi, sono una delle cose in cui cerco di mettere più attenzione affinché non risultino finti. Cin cin!
Complimenti! E’ una storia che cattura con un finale inaspettato, mi sono divertita.
Grazie Patrizia! Sono contenta di averti divertito 🙂