Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Afrodite, Marzo” di Salvatore Sottile

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

 Alle dieci, al solito bar. Ti spiegherò ogni cosa. Afrodite.

 Il messaggio è arrivato come una saetta, in sincrono con uno squillo querulo che finisce come il risucchio di una pietra gettata nel fango, Plof! Poi più niente, nella stanza ancora buia; è una brutta giornata di marzo, ha piovuto per tutta la notte e  tira un vento cattivo. Niente di meglio che starsene a letto, ha pensato l’uomo che dorme di un sonno leggero; al Plof!, difatti, ha avuto un sussulto, ha esitato, forse un braccio avrebbe voluto stendersi fino al comò per raccogliere il telefono, poi ha ceduto al molle richiamo odoroso delle coltri ed è ripiombato giù.

Alle dieci l’uomo è al bar dove deve essere. Non ha fatto colazione, perciò chiede un cappuccino, un croissant e un caffè, raccoglie dal tavolo accanto il giornale e aspetta. Si guarda intorno, la strada oltre la vetrata, i clienti di quella strana mattina, i discorsi sul tempo, una radio accesa con la solita insopportabile musica. Non è tranquillo, l’incontro che l’aspetta, non sa perché, lo preoccupa, comincia a sfogliare nervosamente il giornale mentre gli servono la colazione. Sta guardando le pagine della cronaca, è quasi per lasciar perdere, nell’altra mano la tazza del caffè fumante, a mezz’aria, quando nei necrologi gli sembra di riconoscere una foto. La bocca, socchiusa per lo stupore, resta com’è, ci mancherebbe solo che fischiasse, e lo sguardo d’improvviso gli si offusca. Riesce a leggere poche parole, poi si fa buio.

La foto del giornale ha fatto finta di niente, beffarda, ma ha visto l’uomo che sbirciava, bevendo un caffè.  Gli è sembrato familiare, quel ghigno; leggero incresparsi delle labbra e occhi socchiudentesi, prima di poter pensare e, eventualmente, proferire parole; che in questo caso sarebbero improperi, tanto ogni cosa,  là, strillava un’intima disapprovazione, come ora manifesta platealmente quel diniego del capo, il pollice verso all’indirizzo del barista che ha chiamato, la brodaglia servita, caffè. Eccole il suo caffè, signore! Non che, per una foto stampigliata alla bell’è meglio su di un giornale, sia verosimile saper dire della qualità di un caffè; pure, il riconoscimento è avvenuto. Da una parte e dall’altra. Quanto vi è di non assimetrico, nel riconoscimento, riguarda un cuore che ha appena alterato le pulsazioni, mentre per il viso raffigurato, non v’è niente, non ne sappiamo niente, se non per dire, Io! Oh!

L’uomo, al tavolo appartato che ha scelto, è indispettito, Dico io, rovinarmi la giornata così!, e guarda di malanimo il barista, un omone pingue dagli occhi slavati; pure, non decidendosi sul da farsi, avrebbe potuto alzarsi di scatto, senza dimenticare la bella borsa di cuoio, andare al bancone e dire, La beva lei questa schifezza!, dapprima lancia lo sguardo oltre la vetrata, in strada, poi passa ai pochi avventori, per lo più al bancone a chiacchierare con colui che, non v’è dubbio su questo, non ha alcuna idea di che cosa sia un caffè. Non decidendosi, rimane al suo posto, addirittura beve la schifezza imbevibile, ripone  il giornale, capovolgendone la parte che sembra riguardarlo,  mette tempo in mezzo, alla scoperta, se scoperta v’è stata e, per non rischiare che qualcheduno arrivi lì a chiedergli, Posso?, riferendosi al giornale, vi mette le mani sopra, come a dire, innanzitutto a se stesso, Lasciatemi riflettere! Per la foto, così, e per quanto v’è raffigurato, s’è fatto buio, lo stesso buio di prima d’ogni nascita, di quando ancora non si era che semplice poltiglia calda che, piano, bolle, si raggruma, sgrana, prima d’irrompere alla luce; luce che, Luce!, solo a quel punto ritaglierebbe i bordi,  dapprima informi, creerebbe contrasti e farebbe comparire il mondo, dentro l’ovale di un viso; tutto affinché qualcuno, un giorno, da qualche parte, magari sbirciando distrattamente seduto al tavolo di un bar, possa dire, Guarda come m’assomiglia! È tutto sua madre! Ma è ancora buio; e al buio s’addice il silenzio e al silenzio il sonno.

L’uomo, svegliatosi di soprassalto mentre fuori è ancora buio, dapprima s’erge a mezzo sul letto, ha il cuore in gola, teme d’essere in ritardo, il metrò, l’ufficio; poi, un dubbio, il soave sospetto che non sia così, È domenica!, così si gira sull’altro fianco e, beatamente, si rimette a dormire. È, perciò, nuovamente catapultato dinnanzi ad un caffè imbevibile e ad una foto di un giornale che gli assomiglia. Sopra la foto c’era un titolo, e sotto di quella un articolo, poche righe, così l’uomo capovolge il giornale e, Afrodite, il viso raffigurato dalla foto che l’attendeva, nasce di nuovo.

 Stanza da letto. Notte. Con un sorriso che sembra un ghigno, Angelo si sveglia. È la terza volta che quest’uomo si sveglia, avrà il sonno leggero o un’ansia, come un mare, lo bagna. È tutto sudato. Trema. Si mette a sedere sul letto. Si guarda intorno. Fuori è buio. Nella stanza è buio. Poi allunga una mano e accende l’abat-jour. Ben svegliato, Angelo! (Sorpreso e spaventato) Tu?… Io!

 Camera da pranzo. Notte. L’uomo e la donna, siedono uno davanti all’altra e si guardano. Vedo che nonostante il tempo passato mi riconosci, suadente Afrodite. Come potrei averti dimenticata, da ragazzo tenevo tue immagini dappertutto, in camera, tra i libri, ho passato  un’estate in Grecia per cercarti, dice Angelo. Lo so, lo so, nemmeno io ti ho mai perso di vista, mi piacciono questi amori impossibili che non finiscono mai. Impossibili?…, fa Angelo. Oh, sì,  impossibili, anche se veri. Più ti sembravo a portata di mano più mi facevo irraggiungibile, risponde la dea. Uhm.., fa Angelo. Non ti convince?, di rincalzo, Afrodite. Non so, risponde l’uomo e, cambiando registro, Cosa dovevi dirmi?, Cosa c’è da spiegare? Non mi offri un caffè?, risponde Afrodite. Vuoi un caffè?, fa Angelo, incredulo. Te l’ho appena chiesto, sardonica, l’altra. Così altro tempo in mezzo, nell’imbarazzo crescente, mentre la giornata, ma non è ancora notte?, non promette nulla di buono. Piove ancora e il buio resiste. Devo dirti che si muore, fa poi Afrodite, cogliendo Angelo, come un agnello alla gola, alle spalle. Peggio di una coltellata. Devo spiegarti perché, conclude. Angelo, la moka ancora da avvitare nelle mani, non crede a quello che ha sentito. Si gira, istintivamente mette le spalle al sicuro, s’appoggia al bordo del lavello e poi, cercando di essere sarcastico, Che si muore, lo sapevo già e sul perché…, s’interrompe, Sul perché…, credo che nemmeno tu lo sai. Finisce con la moka e accende il fuoco. Torna a sedersi. Afrodite aspetta che gli sia ben davanti e che la guardi, poi spara, Davvero?, Lo sai?…

 Angelo, incredulo, non sa più quello che dice e che tono prendere, che razza di discussione sia insomma quella, chi sia questa donna che si fa chiamare Afrodite, che gli è seduta davanti, e che gli assomiglia, potrebbe essere la sorella che non ha mai avuto,  Certo che lo so, si sente dopo un’eternità, È il mio lavoro. Tu?, Io. Ma tu sei Afrodite, il nome, almeno, è della dea dell’amore… Ah, di nomi ne ho davvero tanti, e anche d’occupazioni, se così si può dire. Non sapevi che si muore anche d’amore? Ma che dici, perdio?, fa Angelo. Non c’è bisogno di chiamare in causa dio, ci sono già io. Non ti basta?, risponde Afrodite mentre fatica a trattenersi dal ridere.  Ma Angelo ha di tutto voglia tranne che di ridere, così approfitta del gorgoglio del caffè per alzarsi. Versa il caffè in una tazza e l’offre alla sua ospite. Tu non ne prendi?, fa premurosa Afrodite. Non ne ho voglia, grazie per il pensiero. E continua, Perciò la notizia è… Che sei morto, conclude Afrodite. Sì. Oggi, alle dieci in punto, eri seduto a bere un caffè in un bar… Vedi, hai ancora le macchie sulla camicia, te lo sei versato addosso, mentre cadevi. Poi, e amorevolmente lo guarda, Poi io ti ho raccolto.

Perché tu?, chiede Angelo. Dico, perché proprio tu, ora… Ho capito benissimo, caro, perché io invece del signore incappucciato con la falce, o della signora… Non avete le idee chiare, su questo. Vi sbagliate sempre, voi umani… Non volevo dire questo, ribatte Angelo, combattuto dalla voglia di domandare a proposito dell’errore degli umani, come ha detto lei, ma poi cerca di tenersi stretto al punto che  l’attanaglia, è già difficile così, la testa sembra che gli scoppi, o s’espande?, non è il mio solito mal di testa, pensa fra sé, Comunque sì, il senso era quello. Perché tu mi hai amata, risponde Afrodite, Ricordi? Angelo, sempre più sbalordito, è nella situazione, che sarebbe burlesca in un’altra situazione, di dover dare risposte a un personaggio mitologico che sa, di lui, meglio di lui stesso, e per quanto una parte di sé tenti di puntare i piedi, le parole che dice gli sgorgano da sole dalla bocca, e gli sgorgano quiete, assennate, senza ombra di quell’ansia in cui,  in qualche fondaco misterioso di sé,  lui ha l’idea di bollire. Sì, ti ho amata, mi sei sempre piaciuta quando ti studiavo, ho anche scritto delle cose su di te… Lo so, fa Afrodite, Per questo sono qui. Mi è piaciuto quel che scrivesti di me, c’era qualcosa che hai perso, cogli anni… Cosa ho perso?, domanda Angelo. Il riso, l’allegria, hai perso, la poesia… Ero giovane, l’interrompe l’uomo. Eri innamorato, ribatte la dea. Ero innamorato, conferma Angelo, Avrei voluto essere come te… Lo so, per questo ti ho fatto somigliante… Somigliante a te?, dice Angelo. E a chi, se no? Eri innamorato dell’amore, quindi non potevi che somigliare a me, Afrodite.  Poi, cambiando argomento e tono, Ci tenevo, sai?… Ci tenevi a cosa?, sbotta Angelo, sempre più prostrato da quello sdoppiamento multiplo. Ci tenevo ad accompagnarti nell’ultimo tratto, a cosa se no? Afrodite d’improvviso si fa seria, come volesse, solo per quella mimica, dare peso alle parole che dice, pietre al posto dei fiori di prima, pece invece dell’oro dei riccioli che le fanno ombra sugli occhi, Non so se hai capito chi sono, Angelo, e cosa sono venuta a fare, e strizza gli occhi come non ci vedesse, a sollecitare un’intesa. Sì, sì, fa Angelo, L’ultimo tratto. Sì. E si rabbuia, mentre l’altra riacquista i suoi lineamenti che potrebbero dirsi marmorei, tanto abbagliano. Non rammaricarti, fa Afrodite, Non è poi gran cosa morire. Per te, forse, ribatte l’uomo, Ma per me… Per te è come per me, non c’è differenza fra noi, non ti sei accorto quanto mi assomigli? Cosa vuoi dire? Quello che ho detto. Nient’altro che quello che ho detto.

Il vento, fuori, non cessa d’accanirsi contro le persiane che, senza il padrone in casa a calare il fermo nell’incavo, sbattono, mentre l’orologio della cucina segna sempre la medesima ora.  È ora, dice Afrodite, Andiamo. Angelo la guarda, Mi hai detto che si muore, resta da spiegare perché…, ma sembra più sereno di quando s’è svegliato nel cuore della notte tutto in subbuglio. È ora, ripete Afrodite, Vieni, non avere paura. E gli offre le mani, cerca le mani, gliele prende e invita l’uomo a un abbraccio. Angelo, sempre meno se stesso, si lascia abbracciare, ed è come se una nuvola l’avvolgesse, una nuvola tiepida che odora di mare. Piange. Cantiamo, sente dire,   sbalordendo un’altra volta, ancora, Cantiamo?…, fa Angelo. Sì, cantiamo insieme, ricordi quel che scrivevi di me? Oh!, fa l’uomo. Oh! Esita. Sì. Nasce dall’onda…, e si ferma, gli occhi lucidi persi dentro la nuvola bianca che sempre più odora di salso. E Afrodite, Schiuma… E poi, insieme, Afrodite che ride… Nasce dall’onda, schiuma, Afrodite che ride…

 

 

 

 

 

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2 commenti »

  1. Interessante l’utilizzo dello sdoppiamento come strumento narrativo. L’alternanza di sogno e realtà trasmette al lettore la sensazione di incredulità del protagonista e, risvegliandone la curiosità, gli permette di lasciarsi coinvolgere dal racconto. Complimenti.

  2. E’ la polifonia che mi interessa. Tu lo chiami sdoppiamento e va bene, ma sono le voci, le molteplici voci che ci abitano che mi preme portare alla luce. Così che, come hai notato, non si è mai del tutto sicuri se si è desti, vivi, dèi o mortali. Ti ringrazio della lettura e ti saluto.

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