Premio Racconti nella Rete 2012 “Loz” di Francesca Falchi (sezione racconti per bambini)
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Intorno si era fatto buio. La luna splendeva come una scheggia di vetro luminosa, rimandando i sogni ed i segreti, di cui era custode, indietro al mittente. Loz non aveva paura. Da lontano gli giungevano i lamenti di quel buddone , che da quando erano alle elementari non aveva fatto altro che picchiarlo e prenderlo in giro. L’avrebbe lasciato piangere ancora un po’. Poi sarebbe andato a prenderlo ed insieme sarebbero tornati a casa. Voleva però stare là ancora per qualche istante, a godersi quel silenzio perfetto, quel cielo e quella luna che avrebbero custodito il primo dei suoi segreti. Lo chiamavano Toro, perché era nero e grosso. Le sue braccia erano tre volte quelle di un ragazzino di tredici anni ed era alto, spaventosamente alto. Girava per la piazza insieme ai suoi due amici Biro e Ciulinga . Loz li conosceva tutti e tre dall’asilo, quando Toro si faceva la pipì nelle mutande e Biro e Ciulinga si mangiavano il moccio e pure le caccole. Non si può dire che lui e Toro fossero mai stati amici. Si ricordava però esattamente il momento in cui lui era diventato il suo bersaglio preferito. Avevano circa otto anni e Toro, che cominciava ad assumere le fattezze di un gigante sproporzionato per l’età che aveva, stava torturando un babballotti che faceva rotolare la sua palla di cacca. Toro ostacolava in ogni modo il suo cammino, costringendo il povero insetto a sudare (per quanto un babballotti potesse sudare) per raggiungere la sua tana. Ma Toro manifestò tutta la sua cattiveria quando schiacciò la palla che l’animaletto aveva costruito proprio in prossimità del buco che era la sua casa. Loz decise che quello era troppo. Quel babballotti aveva diritto alla sua palla di cacca. Loz si scagliò con tutte le sue forze su Toro ed accadde qualcosa che nessuno si aspettava. Lo buttò a terra: le leggi della fisica erano state infrante. Loz, stupito dal fatto di vedere Toro steso a terra, gli saltò sul petto e cominciò a picchiarlo. I suoi pugni erano pesanti come foglie d’autunno ma Toro diventò tutto rosso, mentre tentava di schermarsi la faccia con quelle manone irreali. Ma durò poco. L’urlo di Ciulinga risvegliò Toro dal torpore: “Toro ma che fai? Ammazzalo!”. E per poco non lo ammazzò. Lo salvò zia Vera, quella che vendeva quaderni e giocattoli di fronte alla Chiesa. Strappò Loz dalle mani di Toro e prese quest’ultimo per un orecchio trascinandolo per tutta la piazza. Tutti i bambini andavano dietro a zia Vera e a Toro, che piangeva ed urlava, un po’ per il dolore un po’ per la vergogna. I bambini cominciarono ad urlare pure loro, facendogli il verso, sapendo che quella sarebbe stata la prima e l’ultima occasione che avrebbero avuto per prendersi gioco di Toro. Come sentì le risate Toro urlò più forte: “Vi uccido! Vi uccido tutti!” “Cosa fai tu?” gli disse zia Vera tirandogli più forte l’orecchio. “Tutti! Li uccido tutti!” urlava Toro.“Aspetta che racconti a tua madre quello che hai combinato e ti brucerà talmente il sedere che ti passerà la voglia di ammazzare anche una formica!”. E così fu. Gli animali non li ammazzava più ma i cristiani sì, nel senso che divenne così cattivo che tutti i bambini del paese avrebbero preferito essere morti piuttosto che avere a che fare con Toro. Loz era diventato il suo preferito. E la cosa peggiore era che, quando vedeva un adulto nei paraggi, Toro abbracciava Loz come fossero grandi amici. Mentre lo abbracciava gli assestava dei piccoli pugni dolorosi e veloci alla bocca dello stomaco, costringendolo a sorridere e ricambiare quella stretta mortale. “Siamo amici, eh Loz?”. Mentre lo picchiava silenziosamente, rideva, accarezzandogli la testa con quella mano che aveva il peso di una mazza da fabbro, sfoderando i denti grandi e affilati come lame di una leppa . Loz sapeva che un giorno anche lui sarebbe diventato grande e grosso come Toro e che gliela avrebbe fatta pagare. Aspettava quel giorno con ansia. Ma quel giorno sembrava non arrivare mai. Loz non cresceva. Per quanto tutte le notti pregasse con forza di risvegliarsi la mattina seguente alto, grosso e forte, con uno sguardo di fuoco e le braccia muscolose come quelle di un supereroe, rimaneva basso, magro e debole. Fino a quel pomeriggio estivo, dove tutto andò per il verso sbagliato. O giusto. La scuola stava per finire: erano gli ultimi giorni di lezione prima dell’esame di terza media. Toro, Ciulinga e Biro aspettavano l’arrivo di Loz per prendere un gelato. Ciulinga masticava come al solito le sue Big Bubble alla fragola e Biro aveva le mani e le braccia piene d’inchiostro. C’era molto caldo e la piazzetta di fronte alla scuola, con i suoi alberi fitti le cui radici erano a stento trattenute dal cemento, le panchine d’acciaio scuro e la fontanella di marmo, erano il luogo ideale per prendere il fresco. Loz arrivò. Come vide Toro, capì che quel giorno non gli sarebbe bastato saccheggiargli le tasche per offrire a tutta la cricca (Loz compreso, perché Toro era “generoso”) il solito gelato. “Sparticulo!” gridò. Loz rimase immobile, atterrito più dal grido che da quello che aveva detto. Per Toro fu facile acchiappargli le mutande dai jeans e tirare fino a farle arrivare a metà petto. Il dolore fu lancinante. Ciulinga e Biro erano impietriti: “sparticulo” era troppo. Anche per loro. Quando Toro ebbe finito, Loz rimase sdraiato a terra per qualche minuto, stringendosi l’inguine tra le mani. Toro lo sollevò di peso e sorridendo lo abbracciò. “Non è stato divertente? Dai, andiamo a prenderci un gelato.” Poi guardò Ciulinga e Biro, che quasi non respiravano, e sussurrò: “Se voi due dite a qualcuno quello che ho fatto vi spacco la faccia. Tutto bene Loz?”. Gli cinse le spalle con un braccio e fischiettando lo trascinò al bar. Ma non andava bene. Per niente. Era giunto il momento di farla finita con Toro. Loz aveva un piano. Toro era fissato con i conigli selvatici. Una volta, mentre era in campagna con il padre, ne aveva trovato uno mezzo morto e lo aveva portato a casa. Lo aveva curato e rimesso in salute con amore e dedizione. Se si fosse saputo in giro che Toro allevava conigli come una femminuccia nessuno avrebbe più avuto paura di lui. Ma Loz lo aveva saputo origliando una conversazione tra sua madre e zia Vera, quella della cartoleria. Mentre raccontava la storia di Toro e del coniglio, zia Vera si era commossa fino alle lacrime mentre lui aveva quasi vomitato. Toro salvava i conigli ma torturava i cristiani e in questo non c’era niente di commovente. E lui poteva confermarlo. Il coniglio era poi morto a causa di un banale incidente provocato dallo stesso Toro: in un impeto d’affetto lo aveva stretto troppo forte al petto ed il coniglio era morto soffocato. Ed anche in questo non c’era niente di commovente. Di terribile e di inquietante certo, ma di commovente proprio no. Mentre mangiavano il gelato, Loz disse piano a Toro. “So del coniglio”. Toro si girò di scatto, lasciò cadere il gelato e lo afferrò per le spalle. “Cosa..” sibilò tra i denti, con gli occhi sbarrati per la furia ed il terrore. “So del coniglio” ripetè Loz tranquillo “e so dove trovarne un altro”. Toro sembrò placarsi, ma l’espressione dei suoi occhi rimase la stessa: furia omicida e terrore nero. “Dove?” chiese Toro. “Nel bosco di Sa Funtana Rubia”. Come disse quel nome, il terrore negli occhi di Toro superò la furia e più tardi Loz avrebbe capito il perché. “Andiamo” disse Toro. “Adesso”. Come Toro si alzò, Ciulinga e Biro fecero lo stesso. “Restate qui ed aspettateci. Stiamo tornando”. Prese il braccio di Loz e lo strinse talmente forte da fargli cadere il gelato. Lo guardò dritto negli occhi: “Se lo dici a qualcuno ti ammazzo”. “Non ti preoccupare” rispose Loz con uno strano sorriso “non dirò niente a nessuno”. Loz conosceva il bosco alla perfezione. Era un bosco gigantesco che si estendeva per chilometri, fitto ed oscuro. Il suo sottobosco, attraversato da un piccolo fiume d’acqua ghiacciata, sulle cui sponde crescevano ciclamini selvatici era uno dei posti più belli che Loz avesse mai visto. Suo nonno, appassionato di caccia, lo aveva portato spesso con sé e gli aveva insegnato ad orientarsi in quel labirinto selvatico ed irreale in maniera tale che, qualunque cosa fosse successa, lui sarebbe sempre e comunque riuscito a tornare a casa. Con la luce e con il buio. “Manca molto alla tana del coniglio?” chiese Toro, rosso in viso. “Ci siamo quasi”. Erano le sei del pomeriggio e non avrebbe fatto buio fino alle otto e mezza. Camminavano da un’ora circa. Il sole cocente era attutito dai rami degli alberi. Cominciarono a scendere verso il sottobosco, e lì la temperatura si fece più mite, l’aria divenne più fresca e buia. Toro cominciò ad innervosirsi “Quanto manca?” chiese rabbioso. Loz capì che era venuto il momento: Toro stava perdendo la pazienza. “Eccola!” disse indicando un buco sotto un albero contorto e ricoperto di muschio “La vedi?”. “Si, la vedo. Ma sei sicuro che ci siano conigli là dentro?”domandò Toro perplesso, come se avesse capito che c’era qualcosa che non andava. “Sicurissimo..Io non mi avvicino perché.. “Perché?” gli chiese Toro di scatto, con la certezza matematica che tutta quella storia puzzasse, e molto anche. “Perché..perché ecco..io ho paura dei conigli..”. Toro rise forte e cominciò a prenderlo in giro, dandogli dei colpetti dolorosi con l’indice ed il medio uniti su tutto il corpo, imitando i denti del coniglio. “Cacasotto! Andiamo a vedere questi conigli”. Non appena gli voltò le spalle, Loz cominciò a correre e si fermò solo quando rimase senza fiato. Erano le nove e trenta. Da quando lo aveva lasciato solo di fronte a quel buco sotto l’albero che non conteneva nient’altro che foglie secche, erano passate tre ore circa. Toro prima aveva urlato ed imprecato, poi aveva tentato di uscire dal bosco ma non aveva fatto altro che girare intorno. Ad un certo punto si era fermato ed aveva cominciato a piangere. Aveva pianto talmente tanto che ora non giungeva altro che un lamento sommesso: si era rassegnato. Pensò che fosse giunto il momento di andare a recuperare quel grosso elefante stupido e piagnucoloso. Quando Loz lo vide rimase impressionato: il viso era graffiato, la maglietta strappata. I pantaloni erano bagnati in prossimità dell’inguine: se l’era fatta addosso. Quando Toro lo vide si alzò e non disse niente. Continuava a singhiozzare. Lo fissava immobile con gli occhi pieni di paura. Toro aveva paura, ma non del bosco. Loz si avvicinò e Toro fece un passo indietro. Gli prese la mano con dolcezza e Toro si lasciò condurre docilmente. Loz non raccontò a nessuno quello che era accaduto. E Toro fece lo stesso. Ogni volta che lo incontrava, Loz gli sorrideva e Toro faceva un cenno con la mano, ma niente di più. Da quel giorno smise di torturare Loz e non solo lui. Lo si vedeva poco in giro. Toro era cambiato ma nessuno sapeva il perché. Certo, ogni tanto ricadeva nelle sue vecchie abitudini, ma si curava di farlo quando Loz non era in giro. Loz continuava a non crescere. Ma non pregava più di risvegliarsi la mattina alto, grosso e forte. Si piaceva così, basso, magro e debole. Perché aveva capito che essere forti non è una questione di fisico ma di cervello. E di quello, lui, ne aveva più di tutti i Toro del mondo messi insieme.
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