Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Teranga” di Patrizia Ginoble

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Il mio nome è Mamore Mamour, ma da quando sono in Italia tutti mi chiamano Mumù.

Sono nato il 1 Gennaio 1990 in un villaggio del Senegal, nella regione del Re di Enampor, a sud del fiume Casamance.

Appartengo alla comunità bandial dell’etnia Diola.

Nel mio villaggio, seguendo ancora le antiche tradizioni, si coltiva il riso, simbolo di ricchezza e necessario per le offerte agli spiriti.

Sono di religione animista e credo, o forse credevo, nell’esistenza di un’anima in ogni fenomeno naturale, nell’esistenza di un’energia che avvolge e pervade tutto l’esistente che sia esso visibile o invisibile.

La mia famiglia è il mio villaggio, ma sono nato da Daouda e Arama e ho cinque fratelli più grandi di me.

Ho passato la mia giovinezza girovagando per i bolongs e le numerose lagune frondose di mangrovie, nell’estuario salato del fiume, dove è possibile vedere i delfini risalire la corrente, farti divorare dalle zanzare e se sei fortunato scorgere il naso curioso di un lamantino.

Durante la bassa marea il letto del fiume si trasforma in un nastro fangoso e scivoloso, impossibile da percorrere con le piroghe, ma, che liberato dall’acqua, mostra il suo tesoro di molluschi indispensabili per preparare il thie-bou-dienne.

Avevo un sogno: il sogno di una vita migliore.

Fantasticavo su quella vita mentre, tenendomi orgogliosamente in disparte, osservavo i turisti, che, arrivati in una nuova ondata di colonizzazione, distribuivano caramelle e monete ai bambini, biscotti agli anziani e sorrisi affascinati per ogni dove.

Perfetti nel loro abbigliamento, volutamente trasandato per meglio affrontare l’avventura dell’esotico, con al collo le loro costosissime macchine fotografiche e i telefoni di ultima generazione dalle improbabili suonerie, che parevano così fuori luogo nella pace del fiume, echi violenti di un mondo che mostrava tutta la sua sfavillante esteriorità, nascondendo l’abisso in cui le anime si perdevano. Camminavano con occhi trasognati, lasciandosi dietro una scia di repellente per zanzare e profumo, strofinandosi di tanto in tanto le mani con salviettine usa e getta imbevute di antisettico.

Il sogno di una vita migliore aveva come orizzonte un mondo oltre le anse del fiume, oltre i rami intricati delle mangrovie sommerse dall’acqua salmastra, oltre le risaie; un mondo dove tutto pareva più facile, più a portata di mano e non sempre a dieci passi dal punto in cui ti trovavi.

A diciassette anni presi la decisone di andarmene.

Non fu facile, per via del forte legame con la mia famiglia e perché mi ero innamorato di Nogaye, bella come una regina d’ebano nel suo boubou colorato.

Durante le notti dell’hivernage, quando la pioggia cadeva e cadeva trasformando il terreno di fronte alle nostre case in un pantano, io e Nogaye ci trovavamo sotto la grande sporgenza del tetto, seduti sulle stuoie, di fronte ad una lanterna a seguire il labile filo delle promesse d’amore e ad immaginare il giorno in cui, dopo aver fatto fortuna, l’avrei chiamata a me nel mondo nuovo dove stavo andando.

Sono arrivato in quel mondo sognato dopo un viaggio durato tre mesi, durante il quale ho seminato via via tutte le mie speranze, raccogliendo canestri di disperazione e solitudine, perché i disperati sono soli e quando si è disperati e soli, disperati e soli per davvero la solidarietà è una pietosa illusione e anche quel gesto, di chi ti tende una mano per aiutarti a rialzarti, altro non è che una mano minacciosa che si avvicina, pronta, forse, a colpirti.

Nel mio viaggio ho perso tutto quello che avevo, depredato dai miliziani, scambiato per un pezzo di pane, un po’ d’acqua e la vaghezza dell’idea di arrivare dove ero diretto.

Ora lo so.

Ero diretto qui.

Qui in queste campagne piatte e uguali, dove in estate il sole brucia come in Africa e dove la disillusione brucia più che altrove.

La mia casa è una baracca di lamiera e cartone, da cui entro ed esco come un animale ferito e nella quale custodisco quello che rimane della mia vita: vecchi stracci recuperati qua e la, taniche per l’acqua, pentole annerite, coperte infeltrite in cui mi avvolgo la notte in questa trincea dove la guerra non finisce mai.

Guerra per ogni cosa.

Si combatte per tutto in questo covile che condivido con altri come me, in una lotta rumorosa e maleodorante senza un briciolo di intimità dove raccogliere, seppure soltanto in un sogno notturno, quel che resta della mia umanità.

Alle tre del mattino sto sul ciglio della statale 18, nero nel buio, ad aspettare il camion che mi porterà al lavoro.

Cinquanta chilometri ogni giorno dentro al cassone, una merce senza valore tra le casse vuote che andranno riempite; un vuoto a perdere, perché sento che arriverà presto il giorno che la forza di andare avanti mi abbandonerà: la strada verso il paradiso si è persa in questo limbo che è l’anticamera verso l’inferno in cui mi sento sprofondare.

Mentre con ogni tempo aspetto, mi risuona nella mente una parola che scava dentro al cuore un amarezza senza confini: teranga, ospitalità, accoglienza allo straniero.

Teranga teranga teranga mentre vengo caricato come carne da macello e portato nelle terre coltivate, novello Kunta Kinte, a spaccarmi la schiena 12 ore ogni giorno per pochi euro. Teranga teranga teranga quando al tramonto faccio ritorno nella mia baracca di lamiera e cartoni e mi butto sfatto, con i muscoli indolenziti, su un materasso, lercio ricovero per ogni specie di parassiti.

Teranga teranga teranga mentre sento su di me l’indifferenza della gente che troppo spesso mi pare peggio dell’odio.

Rivado col pensiero alla mia bella regina Nogaye e al fiume placido, che ritorna spesso nei miei sogni, come un nastro che si avvolge trascinando un futuro che non ho verso un passato di fame libera, perché ho fame anche ora, anche ora che però sono schiavo.

Vorrei ritornare a casa mia, ma mi mancano i soldi e soprattutto mi manca il coraggio, strozzato dall’orgoglio, di mostrare il mio fallimento e così, giorno dopo giorno conduco questa esistenza strisciante, perché senza sogni si smette di volare e persino di camminare.

Chissà sela bella Nogayemi aspetta ancora fiduciosa, mentre va a prendere l’acqua cantando o mentre cucina, seduta accanto al focolare con le gambe accoccolate sotto al vestito,  sollevando di tanto in tanto il capo come per vedere se sto arrivando per cena.

Chissà se il suo bel sorriso si è spento nell’amarezza di chi pensa di essere stato abbandonato e così, pressata dalla famiglia, ha dovuto accettare di sposare un altro uomo, al quale appartiene il frutto che sta crescendo dentro di lei.

Spesso, troppo spesso, urlo nel sonno il suo nome, forse sperando che il mio amore doloroso le arrivi e la consoli, sussurrandole che Mamore la ama e l’ha sempre amata, ma che si è perso in una vita non vita lastricata di pietre sulle quali è difficile ritrovare la via.

Prego che l’anima del fiume e del grande albero, che si trova al limitare del nostro villaggio, vegli sulla mia principessa d’ebano perché ormai il re è morto e con lui è morta Teranga.

 

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5 commenti »

  1. mi è piaciuto molto. complimenti|

  2. Bel racconto. Una realtà vicino a noi che anche un racconto può farci ricordare. Complimenti.

  3. Ciao, volevo farti i complimenti.
    è davvero tutto molto intenso, la speranza e l’amarezza della disillusione.

  4. L’autrice, molto informata, ci spiega l’esistenza di senegalese, l’etnia più gentile che si arrivata in Italia. Purtroppo l’Italia dei turisti è diversa dalla vera Italia dove anche i giovani italiani fanno fatica a sopravvivere se non aiutati dalle loro famiglie. L’impiego della narrazione per esporre un problema è risolto brillantemente.

  5. Ringrazio tutti per i gentili commenti.
    Sono innamorata dell’ Africa e il Sengal mi ha lasciato un ricordo indelebile di accoglienza e tolleranza. Le persone che ho incontrato laggiù mi hanno insegnato molto.
    Patrizia

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