Premio Racconti nella Rete 2012 “Sottrazione quotidiana di parole” di Vito Digiorgio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012«Hai sentito il telegiornale oggi? Dicono che la disoccupazione ha raggiunto livelli notevoli. C’è da preoccuparsi, ma che futuro diamo ai giovani! Boh per conto mio sono senza parole. Tu come stai, stai cercando lavoro?»
«Purtroppo devo ancora finire la tesi; mi manca poco comunque. Sto valutando tutte le strade in vista di una futura occupazione, pur essendo consapevole che è difficile».
«Eh sì, hai ragione. Bravo, tieni duro e in bocca al lupo. Salutami la mamma».
Paolo riagganciò il telefono di casa, sentiva tutta la pesantezza di quei discorsi infarciti dalle solite frasi fatte e dalla mancanza di una sincera solidarietà verso chi sta di fronte. Pensava che gli altri facessero di tutto per mettere il dito nella piaga. Eppure si sa nella vita quotidiana bisogna sottostare all’invasione interrogativa di coloro che ti circondano, non fosse altro perché sei costretto a viverci, a condividere spazi e tempi. Si allacciò le scarpe e si preparò per uscire di casa. La pioggerellina primaverile non frenò il suo desiderio di prendersi una boccata d’aria. Era solito uscire di casa per una passeggiata quotidiana: sei, sette chilometri lo allontanavano da casa per poi stringerlo nuovamente nell’abbraccio protettivo della dimora familiare. Paolo sentiva che quelle mura rappresentavano una costrizione per il suo animo ribelle, desideroso di ampi orizzonti e di interfacciarsi con il mondo che scorre fuori dalla finestra. Alternava lunghe passeggiate a corse in bicicletta, quando le condizioni atmosferiche lo permettevano.
Rientrò a casa che erano all’incirca le sei. Accese il portatile per scaricare l’ultima posta arrivata. Michela non si era fatta sentire, in compenso Valeria aveva spedito un invito per la solita cena di classe. Ci sono persone che si fossilizzano su certi progetti, su certe idee, pensò, sarà la ventesima volta che propone una cena con i compagni del liceo. E non vuole capire che non si farà mai. Impossibile mettere insieme venti cervelli che ragionano autonomamente. Una luce improvvisa si accese nella sua mente, il ricordo degli amici e delle aule del liceo inondò il suo cuore. Martina chissà cosa starà facendo, sospirò, sono anni che non la sento. Nel suo cuore il sentimento di nostalgia si rimestava alla sensazione di vuoto lasciato da quei silenzi, da quelle apparizioni fisiche estemporanee. Ombre che incrociano la tua strada, per poi perdersi e prendere un’altra direzione inevitabilmente differente. In quella specie di limbo delle occasioni perdute, degli incontri fugaci scivolava l’esistenza. La vita non è altro che un’intersezione indefinita di destini, uno scacchiere su cui le pedine disegnano traiettorie determinate dal caso. In quella ragnatela di pensieri cercò di estrapolare qualche ricordo positivo di una cena di classe, ma risultò arduo questo compito. Quei momenti positivi erano davvero esistiti o il ricordo li aveva trasfigurati e resi piacevoli facendoli emergere modificati dalle pieghe della memoria? Il suo vagare incondizionato tra i campi della mente fu interrotto dallo squillo del cellulare. Matteo lo invitava a cena fuori per discutere della prossima escursione in montagna. Si ripromise di chiamarlo, non prima però di non aver telefonato a Michela.
«Com’è andata oggi, avete risolto quelle grane col capo?»
«Non me ne parlare. Abbiamo finito adesso di controllare la contabilità ordinaria delle banche. Ho appuntamento per le 8 dall’estetista, ci sarà un traffico pazzesco. Poi stasera viene a trovarmi mia nipote, quindi non riuscirò a fare la tesina per l’esame di Geografia politica»
«La farai con calma nel fine settimana, ti darò una mano, non ti preoccupare».
«L’appello è tra due settimane, mi spieghi quando mi metto a fare questa tesina. Domani sera sono in piscina e sabato dobbiamo andare a vedere Carlo che suona, ti ricordi vero?»
«Ah sì, certo, me ne ero quasi dimenticato».
«Come sempre non si può fare affidamento su di te».
«Vabbè, risparmiami la polemica per una volta».
«Che farai stasera?»
«Non so, dovrei incontrare Matteo».
«Ok, ci sentiamo più tardi. Ciao».
«Ciao».
Non era sicuro che avrebbe incontrato Matteo, forse non gli avrebbe neppure risposto fingendo di non aver ricevuto il messaggio. Cenò infatti con i suoi genitori: tra pasta scotta, bistecca di pollo e tg5 in sottofondo si consumò l’ennesima sera. Il padre masticava silenzioso come immerso in un oceano di pensieri, la madre era indaffarata a giostrarsi fra le varie pietanze. Trovò che le notizie non fossero di particolare appeal: tra crisi economiche, scene di violenza e recriminazioni arbitrali faticò a concentrarsi su qualcosa di interessante. Sprofondò nella poltrona per sfogliare il giornale, soffermandosi con attenzione quasi maniacale su notizie del tutto secondarie, cronaca dalla provincia, ordini del giorno di consigli comunali e performance al teatro. In quel compulsare le parole che componevano gli articoli provava un sollievo alla quotidiana sottrazione di parole. Un mondo nuovo si apriva nella sua mente, permettendolo di vagare tra spazi immaginativi e sospensioni nei terreni della cultura, quella che aveva sempre perseguito, cercato, agognato. Era come se le parole stampate acquistassero quel peso, quella consistenza che i dialoghi interpersonali suscitano, si librassero dal foglio per costruire un mondo di relazioni, un mondo vivido e concreto.
Fu interrotto dallo squillo del telefono. Michela lo avvertiva che era di ritorno a casa. Rispose meccanicamente, senza distaccare la sua attenzione dal giornale. Non ebbe la forza di riprendere in mano il saggio che gli serviva per la sua tesi sulla Sociologia della comunicazione. In tv la solita messinscena di veline, donne patinate, avvocati che snocciolano verità inconcusse, moralisti e tuttologi benpensanti. Lo squallido spettacolo del tubo catodico non riusciva a destare la benché minima attenzione simpatica nei suoi neuroni.
«Sono stanca, vado a letto, domani si prospetta una giornata intensa. Alle 9 devo passare in tribunale, poi di nuovo in ufficio. Tu che hai fatto, non dovevi uscire?»
«Non avevo voglia, ho cenato a casa».
«Senti io sono stanca, preferisco andare a letto. Notte».
«Notte».
Non riusciva a liberarsi dalla morsa dell’insonnia tanto che si svegliò, aprì il frigo e trangugiò una lattina di birra. Si sentiva stranamente carico quella notte. L’euforia era solo un moto di ribellione allo stato di strenua inerzia che lo tormentava. Riuscì ad assopirsi unicamente dopo avere imbracciato il manuale per la preparazione della tesi.
Sua madre preparò un’abbondante colazione. Per Paolo si profilava una giornata intensa, scandita da appuntamenti importanti.
Le auto serpeggiavano in una lunga colonna, automobilisti infuriati si affiancavano per strappare un sorpasso all’ultimo secondo. Trovò davvero assurdo che la gente sfrecciasse per andare a lavorare, per sorbirsi la quotidiana dose di ordini imposti come robot radiocomandati. Input esterni talmente potenti e invasivi da modificare l’impostazione intima di essere umani programmati per ben altri scopi. I parcheggi in città erano letteralmente assediati da auto incastrate in tutte le combinazioni possibili. Al bar di fronte all’università ordinò caffè e brioche; lesse scrupolosamente il giornale sedendosi accanto ad un ragazzo dall’inconfondibile aspetto di studente universitario. Lo sguardo del giovane si barcamenava tra una fitta serie di formule matematiche; nelle linee corrugate di quel volto Paolo riconosceva i passaggi logici della mente che si increspava, superando intoppi e pianificando soluzioni. Fu catturato solo per un istante dal fascio di protoni che irradiava la sua iride, poi tornò alla sua quotidiana dose di lettura, di parole scritte. Entrò in biblioteca per prendere in prestito un libro, ma misteriosamente era sparito: forse qualcuno non lo aveva reso dal prestito, forse era finito sul tavolo disordinato di qualche docente o semplicemente un’addetta ai lavori poco solerte lo aveva assegnato nella casella sbagliata. Alle undici aveva appuntamento con il relatore per discutere l’andamento della tesi.
«Come procede allora?» esordì il docente.
«Bene. Mi sono concentrato sulla parte centrale dell’elaborato, anche se ho delle difficoltà a seguire la traccia che mi ha proposto».
«Le invio una bibliografia via mail così lei potrà approfondire tutti gli aspetti che sono lacunosi. Ci aggiorniamo. Quando ha sistemato l’elaborato, me lo invia e le farò sapere se è rispondente alla traccia e agli obiettivi prefissati».
I suoi passi risuonavano sui pavimenti levigati del palazzo. Corridoi vuoti, pareti bianche, nessun elemento ornamentale e un vago senso di smarrimento, di solitudine. Questo lo scenario in cui si era consumato l’incontro chiarificatore sulla tesi. Lo aveva colpito più di tutto, però, il fare spiccio del relatore, il suo atteggiamento distaccato. Non era certamente un principe del foro, ma nemmeno un campione di humanitas. Paolo pensò che quell’incontro non avesse avuto altro esito che quello di confondere le sue idee già annebbiate. Ritenne che fosse quasi un paradosso logico che nell’era della comunicazione non si riuscisse a comunicare. La mail suadente del professore lo aveva tratto inganno: a conti fatti nessun chiarimento, nessun confronto risolutore. Pensò che la cultura, quella intesa nel senso profondo di relazioni umane, di dialogo e confronto, si perdesse in anonime targhette apposte sulle porte degli uffici. I dubbi agitavano la sua mente ancor più. All’uscita dell’università incontrò Francesca che immancabilmente era di fretta, perché l’attendeva il turno pomeridiano nel call center.
«Purtroppo ho poco tempo; senti, se vuoi ci prendiamo un caffè assieme la prossima volta» e aggiunse speditamente «Come va con la tesi?»
«Oggi ho incontrato il prof. E mi ha dato una bibliografia». Non ebbe tempo di finire la frase, che Paola sparò a raffica una sequenza di parole preconfezionata, suggellata da un sorriso magniloquente. «Sono felice per te che tutto stia andando bene. Ci sentiamo via messaggio, scappo al lavoro. Buona giornata».
Era sicuro che non le avrebbe scritto e che non lei avrebbe adottato lo stesso comportamento difensivo, o meglio improntato all’indifferenza. Era sempre più infastidito dall’atteggiamento di quelle persone che si accorgevano di lui solo quando ci sbattevano il naso addosso, per poi sciorinare quelle fatidiche promesse di incontro.
Aveva appuntamento nel primo pomeriggio in ospedale per una visita di controllo. Sulla strada di ritorno si fermò al centro commerciale per un rapido pranzo. Non c’era definizione più appropriata per chi aveva definito i centri commerciali come dei non luoghi: un flusso continuo di soggetti anonimi, con carrelli pencolanti, espressioni tristi, la stanchezza disegnata in volto, si apprestava a varcare le porte che danno il benvenuto nel mondo dell’acquisto facile. Pareti colorate, hostess in minigonna vestite da cono gelato e vetrine tappezzate di saldi. Un sottosfondo di felicità che a stento si riconosceva in qualche espressione, quasi un involucro del tutto privo di significato e relazione con il contesto carico di infelicità e tristezza. Badanti, impiegati in pausa pranzo, amici la cui unica occasione di incontro era uno spritz al bancone del bar, anziane solitarie a godere dell’unica boccata d’aria della giornata. Gli si strinse un nodo alla gola nell’osservare il variegato spettacolo della spersonalizzazione umana. Percepiva come la vita fosse un continuo venir meno di contatto umano, di affezione fisica tra le persone. Era sempre più convinto che in quella differenza, frutto della sottrazione e della mancanza di rapporti, si scavasse un solco incolmabile. La sfera delle relazioni non è data dalla somma dei rapporti, bensì dalla sottrazione di essi; tutti viviamo la differenza, ciascuno a modo suo, pensò. Capiva come anche un gesto semplice, come lo scambiarsi una parola, fosse spesso ostacolato, intralciato, rinviato da mille giustificazioni, impedendo di fatto per la persona possibilità uniche di accrescimento interiore, arricchimento della personalità, costruzione dell’identità. In quel non riconoscersi reciproco, ogni individuo diveniva un estraneo a se stesso prima di tutto.
Arrivò puntuale in ospedale. L’infermiera lo fece accomodare, in attesa della visita. Lo sguardo di Paolo si posò su un gruppo di pazienti che attendeva un responso o un riscontro a qualche esame clinico.
«La situazione» commentò il primario «non è preoccupante, bisogna solo tenerla sotto controllo. Ci possiamo rivedere fra un anno, per un ulteriore controllo».
«Lei mi sta dicendo che è tutto sotto controllo, non devo effettuare altri esami?».
«Non c’è bisogno, lei torni fra un anno e vediamo come si è evoluta la situazione».
Uscì piuttosto amareggiato dall’ospedale. Le parole asettiche del medico non avevano spiegato nulla, ma solamente rimandato la questione. Tutto ciò che costruiamo nella vita, tutta la nostra esistenza si riduce ad una sequenza di valori, di parametri corretti necessari a far funzionare un ingranaggio complesso, che periodicamente deve essere sottoposto a controllo, pensò. La burocrazia dell’informazione non era riuscita a fare breccia nel suo animo; capì che solo la parola, la risultante dell’essenza delle relazioni umane e della compenetrazione dei mondi individuali, avrebbe potuto dispiegare a pieno la sua potenza salvifica. Era dallo scambio quotidiano di parole che la vita traeva sostentamento, ed era la parola “sociale” l’unica chiave per penetrare a fondo il segreto dell’esistenza e capirne l’intimo significato.
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Uno sguardo addolorato sul presente che ci circonda. La sensibilità di chi scrive si percepisce in ogni parola. Bel racconto.
Un buon inizio per un lungo romanzo…