Premio Racconti nella Rete 2012 “La scommessa” di Daniele Poto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Quando mi metto una cosa in testa cerco di condurla a termine nel migliore dei modi.
E’ più rischioso e difficile impicciarsi delle faccende degli altri. Accontentare se stessi è probabile, più difficile saziare il mondo. Ecco perché la questione riguardava esclusivamente me ed il mio corpo, interessava solo la mia capacità di venirne a capo, un fatto personale. E ora lì che ero alla partenza che avvertivo piena la coscienza di giocarmi e rischiare tutto più che in una finale di Coppa dei Campioni decisa all’ultimo rigore. Ero un dilettante che aveva investito zelo professionale nella mia missione con uno scrupolo che, quanto meno, definivo ammirevole,
Sentite un po’ l’elenco degli elementi che servono a ricordarmi dei miei sacrifici: due mesi di aspettativa dal lavoro senza percepire lo stipendio (e questo mi aveva portato ad una contrazione del mènage ed un tran tran familiare un po’ noioso, irto di discussioni delicate con Silvana, si mia moglie), ultimi venti giorni di completa astinenza sessuale, un isolamento consapevole dagli amici, una distanza messa qua e là. Già, perché diventa difficile frequentare qualcuno se non vai a letto più tardi delle 22.30, se non accetti alcolici, se sospetti tracce di fumo nell’ambiente più asettico.
Mi giudicavo anch’io un po’ noioso. Ma era una noia necessaria, che rasentava la richiesta di perfezione. La frase che mi ero messo in testa l’avevo letta in un libro di un autore francese. <Se il folle perseverasse nella sua follia, incontrerebbe la saggezza>. Le azioni migliori non nascono forse dall’assoluta imprevedibilità di fini e direzioni- aggiungerei io per completare il pensiero di quel saggista vattelapesca?
<Tre minuti alla partenza>- lo speaker assordava con il suo megafono, più esibizionista lui degli altri seimila iscritti alla maratona, gente che disprezzavo profondamente. Avevano cambiato solo panni rispetto ai soggetti che dieci anni prima per moda si presentavano al via accompagnati da cani stupidi più che fedeli oppure con i pattini a rotelle o, ancora peggio, con lo ski roll.
Io non cercavo denaro, bottiglie di vino, coppe, portachiavi, diplomi di partecipazione da quella gara. La prima e l’unica. Volevo vincerla per me stesso, per una soddisfazione profonda. Non avevo voluto neanche mia moglie alla partenza. A lei avevo detto che era solo un’esperienza, una scommessa con me stesso. Godevo al via di essere un assoluto sconosciuto per i routiniers della corsa.. Io fino ai ventiquattro anni avevo assaggiato solo il calcetto nelle furibonde sfide tra scapoli ed ammogliati nel quartiere oltre alle insulse ore di ginnastica saltando il cavallo e giocando a pallavolo.
Figurarsi, avevo anche saltato il servizio militare. Mi avevano detto che avevo il cuore d’atleta, la brachicardia. I miei battiti erano lentissimi, quasi impercettibili. Silvana aveva avuto buon gioco scherzando a dirmi che <ero un uomo senza cuore>, un serpente velenoso <ma un po’ anemico>.
Ecco, ora provvedo a sciogliermi le gambe, una specie di auto-massaggio che migliorerà la mia risposta muscolare nei primi chilometri di corsa.
Dunque la prima rivelazione l’avevo avuta assaggiando senza allenamento il percorso di Villa Ada. Quattro chilometri e trecento metri dove razzolavano ragionieri stanchi e bambini velleitari. D’accordo, mi ero mosso con calma. Il piacere che avevo era quello di essere spinto da una pulsione assolutamente autonoma. Nessuna storia di campione m’interessava né, ancor meno, la demagogia da <sport per tutti> (si, anche per me che non l’avevo mai praticato). Lì sulla Salaria, avendo tutto il tempo per dare un’occhiata a Villa Savoia, ero arrivato a due giri consecutivi arrestandomi più per un lieve indurimento muscolare che per un principio di debito di ossigeno. Il giorno dopo ero tornato con il cronometro e ci avevo dato dentro con maggiore convinzione schiacciando al secondo passaggio in 32’41’’. Per un ragguagliante confronto vi basti sapere che il record italiano dei 10.000 metri in pista batte sui 27’30’’ ed io avevo impiegato cinque minuti e spiccioli in più su una distanza leggermente inferiore.
Il primo piano di allenamento lo avevo copiato da una rivista. Ma mi riusciva talmente facile svolgere quella <settimana del dilettante> che, dopo aver aggiunto un buon venti per cento di quantità alla dose consigliata, avevo fatto per conto mio aggiungendo ulteriori elementi di velocità.
Ci voleva un’esagerata dose di tempo a disposizione per coltivare questa facilità di corsa ed alla fine al mio cantiere edile avevo chiesto due mesi di aspettativa.
Ai confidenti spediti dal geometra suggerivo risposte vaghe. <Sa, ho un’altra offerta di lavoro. Devo provare ma pensarci bene. Non ho più l’età per buttarmi a capofitto in un’altra avventura> Per il lavoro non avrei mai cambiato. Ma la mia pigrissima inclinazione aveva trovato una valvola di sfogo che mi aveva preso la mano.
<I concorrenti sono pregati di non spingere. I primi cento numeri devono disporsi nelle prime due file. Solo quando avremo raggiunto l’ordine di partenza potremo dare il via>- suggeriva lo speaker. Ormai c’eravamo, inutile farsela sotto con gli esami di coscienza. Mi ripetevo che arrivavo alla gara in condizioni ideali. E che nessuno degli altri atleti-amatori- metteteci chi volete dei soggetti in gara- aveva il carico di motivazioni che sentivo dentro. L’unico dubbio semmai era il tema fondamentale che assilla ogni neofita che prova la maratona. Resisterai a 42 chilometri consecutivi, alla tensione spazio-temporale, al contatto con gli altri agonisti? Forse quest’ultimo quesito era il più insinuante. Ero un solitario nella vita e nell’allenamento. Una settimana prima della gara avevo rifinito il lavoro con quindici chilometri a media velocità ed otto ripetute sui seicento metri svolgendo poi un lavoro differenziato ma leggero nei giorni di vigilia proprio per arrivare a divertirmi e scoprirmi solo in gara, possibile e piacevole sorpresa soprattutto per me stesso.
C’erano tre o quattro realizzazioni che contavano nella mia vita e io volevo mettere la maratona tra queste. Era una faccenda sbrigare al massimo in due ore e venti. .Due giorni dopo sarei tornato alle otto ore quotidiane in cantiere e forse mi sarei riavvicinato a Silvana, questo era sottinteso.
Eccolo il mitico via. Me la presi con molta calma. Anzi, quasi costretto a camminarmi addosso mentre i concorrenti in pole position, i più accreditati, sfilavano a ritmo folle, pervasi da una leggera euforia. Dedicai i primi trecento metri a scoprire la posizione di corsa più razionale ed economica. Ma la vera gara cominciò dopo il terzo chilometro. Inerpicandomi per Villa Glori potevo rimontare decine di posizioni, viaggiando ad altra velocità, mulinando le gambe, compiacendomi per quell’ebbrezza di velocità che provocava l’applauso del pubblico.
Più il percorso si rivelava duro più mi congratulavo con me stesso per quella ferocia meticolosa nella preparazione che quasi era arrivata agli eccessi di Zatopek (carico di pesi per sentirsi più leggero dopo, in gara). Non mi preoccupavo né dell’orologio né dei chilometri che scorrevano. Avrei voluto solo soddisfare la curiosità di scoprire il mio limite. Mi sarebbe solo piaciuto sapere quanti concorrenti avevo davanti. Non avevo riserve particolari da bruciare. Sulla fronte mi si affacciava solo una leggera strisciolina di sudore che poi era l’unico riconoscimento alla fatica, sospinto da un’incredibile voglia di correre. Transitando davanti a quello che veniva indicato come il sesto chilometro rintracciai lì davanti la macchina dello speaker che mi collocava al quarto posto provvisorio definendomi <in grande rimonta>.
Si, ora li vedevo quelli davanti e, a parte il primo, tutt’altro che in buon arnese.
Anzi, il terzo dopo un paio di minuti si fermò con un ansare poco tranquillizzante e mentre lo lasciavo indietro potevo ascoltare al microfono le sue giustificazione. <Lo sapevo già, ero partito per correre solo dieci chilometri>. Lo speaker, solerte, perlomeno a qualcosa serviva. Ci disse che noi battistrada eravamo passati al decimo chilometro in 32’10’’. Dai dieci ai venti chilometri successe poco o nulla. Ero per la conservazione. Il tempo doveva lavorare per me e per quella base di fondo che avevo accumulato. Così Urbani e Terzer erano davanti, io ad una ventina di secondi, dietro, mentre con la coda dell’occhio controllavo, a seguire, una muta di sette-otto inseguitori piuttosto in disarmo. Non era di loro che mi dovevo preoccupare.
Sembravano voler sopravvivere a se stessi più che intenti a rimontare.
Invece rimanere a fare l’elastico in posizione di attesa mi gratificava enormemente. Non mi ponevo neanche il dubbio sul piazzamento ma solo quello sulla distanza. Si, il ritmo era leggermente calato ma forse ce l’avrei fatta a scendere sotto le 2H20’.
E da solo aggiungo. Via il pensiero dell’ufficio e di Silvana. Dovevo giocare al gatto ed al topo con Urbani e Terzer. Contava solo questo nella maratona e nella mia vita, perlomeno in quel momento. Rimasero molto male i due -mi ero portato ormai a cinque metri-quando al chilometro n. 25, al momento dello spugnaggio, non persi neanche un istante per afferrare quanto c’era sul tavolo ed invece partii all’attacco con un chilometro sparato a tutta. Fu l’unica volta che guardai l’orologio. E non alle spalle. Il percorso mi favoriva. Il Lungotevere piegava in una grandissima curva e poi s’inoltrava nel quartiere Flaminio con un paio di secchissimi angoli retti che nascondevano alla vista distacchi anche minimi. Il mio attacco duro due chilometri che il cronometro riassunse in un lusinghiero parziale di 6’20’’. Feci un gesto esplicativo alla macchina che trasportava lo speaker come a dirgli: <Beh, è proprio il momento che parli!>. Ma lui mi sembrò più afflitto che sorpreso quando annunciò: <Un corridore rivelazione è in testa, da solo. Urbani lo segue a 20’’ mentre Terzer in crisi si è fermato e tutti gli altri concorrenti seguono a più di due minuti>.
Mi sciolsi nel miele di questa citazione. Ora le gambe andavano al di là di quanto potessi pensare e prevedere. Dire che giravano da sole può sembrare un’esagerazione. Era la gente stessa che mi trasportava su un tappeto di leggerezza. Incapace di controllarmi riconoscevo di essere il soggetto passivo di una grande affermazione che non vivevo più in prima persona.
Ma ora la dimostrazione era finita, i mesi di allenamento avevano detto che da un uomo deluso poteva nascere un campione. E tanto mi bastava. Passavo quasi mentalmente a fare il tifo per <quel povero Urbani>. Al trentesimo chilometro la mia gara era finita anche se passai ancora prima in 1H36’30’’ e quel tempo lusinghiero poteva darmi ancora qualche brivido o illusione. Avevo vinto ed era bello scivolare nell’anonimato, essere ingoiato da concorrenti mortalmente stanchi che però avevano ancora una grossa molla dentro mentre la mia si era maledettamente spezzata. Cominciai a trovare stupida la maratona e banale il percorso. Rovinai anche Urbani, stroncato dai miei ritmi. Non fu lui il vincitore ed io non figurai nell’ordine d’arrivo. Ma il quotidiano sportivo romano mi citò <come l’unica nota lieta di una prova tutt’altro che esaltante. Ma si ripeterà?>.
![]()
Un po’ amaro, un po’ ironico. Ci ho visto le illusioni che a volte perseguiamo, in modo da alleviare quella strana inquietudine di cui non troviamo le ragioni, o, più spesso, evitiamo di cercarle. Ma mi è piaciuto, forse perchè sono anche io una podista dilettante (con tempi decisamente più alti e con obiettivi meno ambiziosi).
Da ex maratoneta dilettante non credo che uno, alla prima maratona, arrivi dietro ai primi due e tenti di staccarli, comunque il racconto è scritto bene e, come sempre, dispiace vedere l’Eroe che si deve arrendere alla dura realtà. Certo scrivere è meno faticoso che correre…