Premio Racconti nella Rete 2012 “Berlino (Pas d’adieux)” di Fabio Carminati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Quella spinta alle spalle quasi la fece inciampare. Fu come svegliarsi da un sogno e fu di nuovo in scena, per l’ultima volta. La luce fredda dell’occhio di bue puntato solo su di lei e sulla solitudine dell’atto finale. Sublime e lento, come un veleno che scende nelle vene e arriva dritto al cuore. Come quella musica del dolore di un’anima che muore. Passo dopo passo, come l’esistenza dell’uomo che l’aveva composta strappandola al suo dramma. E come sempre fu perfetta. Pianse, rise e morì dando un senso a quella fine. Il silenzio anticipò di un impercettibile attimo gli applausi. Raccolse quelle rose bianche che qualcuno le aveva gettato e lieve, come un fruscio, lasciò il palco mentre il sipario si chiudeva.
Scese veloce la scaletta facendo attenzione a non inciampare sul tappeto rosso. Accennò un sorriso all’inchino che le ragazzine del corpo di ballo fecero al suo passaggio e imboccò il corridoio che portava al suo camerino. Fece tutto meccanicamente, come ogni sera. Anche se quella era l’ultima. Gli altri non lo sapevano ancora, ma su quel palcoscenico il cigno era morto per l’ultima volta. L’avrebbe annunciato il giorno dopo, a sorpresa. Come aveva fatto per ogni evento della sua carriera. Grande, anche nel sorprendere gli altri. Avrebbe detto basta in un’assonnata mattina di ottobre, con i giornalisti già pronti a fare le solite domande sul senso “della danza classica al giorno d’oggi” o sul “significato profondo di una morte che si rinnova”. Aveva danzato il suo passo d’addio solo per se stessa, mentre fuori il freddo cominciava ormai a mordere le acque della Sprea e il pubblico del quarto turno B aveva lasciato in fretta il teatro borbottando qualche banalità.
Quell’uomo appoggiato al muro quasi non lo vide. Venne però attratta dal profumo. Dolce di cipolla e aspro come il bergamotto. Un odore che non sentiva da anni, ma che subito le aveva riportato alla mente Mosca, la neve marcia delle strade, il tram affollato delle sei di sera e quella sacca di tela in cui custodiva come una reliquia le prime scarpette da punta che sua madre le aveva comprato di nascosto. Senza farlo sapere a un padre che non poteva capire e a lei che le sognava e le indossava mille volte con gli occhi quando passava davanti a quella vetrina nella grande via Tverskaja. Le aveva trovate al mattino, ai piedi del letto e si era messa a piangere. Arrivavano da Leningrado e portavano il marchio del Kirov. Le punte erano già scavate: la corda e il gesso già deformati da chissà quale piede. Ma a lei non importava, erano il sogno. E se anche non era nuovo, per lei non aveva importanza.
Su quelle scarpette imparò il dolore, la dolcezza di sopportarlo e la forza interiore di trasformarlo in levità. Le fece durare per più di due anni e ogni tanto si sorprendeva a sorridere, pensando che ora non le bastavano quasi per un solo spettacolo. La costringevano a cambiarle, anche se lei non l’avrebbe mai fatto per nulla al mondo. Forse solo questo le era rimasto della povertà, del mondo contadino trapiantato dalla Russia Bianca nella fredda soluzione senza continuità dei casermoni della periferia di Mosca. Tutti uguali, tranne il numero dipinto sulla facciata. L’Est non esisteva più, ma dal suo cuore quelle luci fioche e il freddo non se n’erano mai andati. Come la solitudine di una vita mai stata bambina e cresciuta solo su quel palcoscenico.
Alzò lo sguardo e vide il viso dolce di quell’uomo. Poteva avere cinquant’anni come settanta. I capelli erano fittissimi e bianchi. La fronte segnata da rughe profonde, ma quel sorriso era giovane, quasi bambino. Rise, quasi senza volerlo, e appoggiò la mano sulla maniglia della porta. Un gesto e quella porta l’avrebbe salvata, evitando probabilmente l’ennesimo complimento da un uomo che non sapeva neppure chi fosse. La infastidivano i complimenti, come i fiori che le riempivano il camerino di biglietti banali. Di complimenti di plastica.
La voce dell’uomo-bambino la trafisse come una lama:
“Ne sdelaj eto, Babicka… non farlo. Non avere paura perché il tuo cuore non potrebbe sopportarlo”.
Fu come una sferzata. Alzò lentamente gli occhi da terra. Scivolò sulle scarpe di coppale, seguì la striscia lucida di seta dei pantaloni dello smoking e si fermò sulla catenella d’oro che chiudeva quel mantello nero. Lo guardò dritta in quegli occhi profondi e neri e inghiottendo saliva gli si rivolse in russo:
“Babicka, kto eto, Babicka?”.
Poi, ravvedendosi, continuò in tedesco: “Ich bin Irina”. La voce le tremava.
“Non aver paura”, ripetè lui forzando l’accento cantilenante russo.
“Sono qui per te Babicka, perché tu volevi fossi qui”
“Io?”, azzardò lei ritrovando la sua forza: “Ma se non ti ho mai visto? E poi smettila di chiamarmi Babicka, non so chi sia”.
Si senti quasi proterva, come sempre sapeva essere con chi si permetteva di importunare lei, la grande Irina Smirnova: “Lasciami in pace, non ti conosco. Vattene, vuoi capirlo o no che per me non sei nessuno? Sei solo uno che ha pagato il biglietto. Quello che volevi l’hai avuto. Ora vattene”.
Appoggiò di nuovo la mano sulla maniglia ma non riuscì a girarla.
“Non morire”, ripeté lui quasi sussurrando il vuoto intorno alla sua ira.
“Non lasciare che gli altri lo facciano per te. Vivi fino in fondo”.
“Ma che cosa sta dicendo? Lei è completamente pazzo”.
“E’ forse folle chi vive cercando l’amore? E’ forse folle chi lo dimentica fin che è giovane e poi si accorge di essere troppo vecchio per cercarlo ancora? E’ forse folle chi l’ha vissuto fino in fondo senza averlo mai chiamato per nome? Tu stasera Babicka hai vissuto l’amore. L’hai vissuto per l’intera vita. Stasera ho visto l’alba tra le tue braccia, ho sentito fremere al vento le canne mentre il tuo cigno moriva, mi hai fatto percepire il dolore del cosmo che perdeva una vita. Questo non è amare? Puoi ancora dire di non avere amato”.
Lei tremava e non poteva farci nulla. Voleva aprire quella porta, ma il tempo era fermo. Immobile, come l’attimo in cui cercava di catturare l’aria, di fermarla in un movimento. In cui anche il battito di un ciglio esprimeva l’amore per la vita di un corpo che muore. Quelle parole le arrivavano dritte al cervello e smuovevano mille passi che mai aveva saputo compiere. Mille scelte che aveva rinviato. Mille volti che aveva incantato.
“Il mio era solo mestiere”, tentò di controbattere. “Solo tecnica. Solo studio. Io sono morta mille volte allo stesso modo, nello stesso punto, su quello stesso palco. L’amore è altro, non l’ho mai cercato su quelle quattro assi. E non l’ho mai trovato nella vita”. Lo disse e sentì una lacrima solcargli il viso.
“Lo ripeti, solo per te stessa. Ma sai che non è così, dolce Babicka. Tu hai cominciato ad amare fin da quando hai sentito il tuo corpo esprimersi. Parlare. L’amore è vigliacco. Prende e non dà. Assorbe tutta la tua anima e la fa a pezzi in ogni istante. E quando credi di poterla riavere ti accorgi che è solo sabbia”.
“No non è così”, si ritrovò a dire lei. Ormai era senza difese, prigioniera di quella trappola. Si accorgeva di aver visto crollare la certezza che l’aveva fatta sopravvivere, ma non poteva far nulla per scacciare quelle parole.
Questo però non le faceva più male. Non si sentiva più sola. Quel ponte, quella notte di tanto tempo prima e quelle acque nere sotto i suoi piedi sulla balaustra sembravano lontane. Inutili. Chiuse gli occhi e pianse. Leggera e libera come quando era bambina. Riaprì gli occhi e non lo vide più. Si sentì quasi una stupida a percorrere correndo il corridoio fino all’angolo. Non vide nessuno, forse perché non c’era mai stato nessuno. Tornò sui suoi passi e finalmente aprì quella porta. Nel camerino, l’odore forte delle rose e delle calle le faceva quasi mancare il respiro. Aprì la finestra e si sedette davanti allo specchio.
“Stupida”, si disse. “Ancora una volta hai parlato con i fantasmi”. “Non ti basta farlo di notte”. Si picchiò un pugno sulla fronte e spruzzò il latte detergente sul dischetto di cotone. Le lacrime avevano sciolto il trucco e sorrise per l’immagine buffa del suo viso che lo specchio le restituiva. “Babicka”, pensò: “Solo la mamma mi chiamava così. Lei il tedesco non l’ha mai voluto imparare e quel nomignolo era un nostro segreto. Nessuno poteva saperlo”. Pian piano la logica le fece ritrovare la sua forza di sempre. Scacciò quell’ennesimo fantasma e continuò a struccarsi.
Chissà perché il suo sguardo andò dritto all’armadio? Non lo apriva da mesi. Ma sentì di doverlo fare. Si fece forza, si alzo dalla sedia e tirò l’anta verso di sé. Erano lì, dove sapeva di trovarle. Slegò la cordicella del sacchetto di tela e sentì la voglia istintiva di stringerle al cuore. Non le aveva mai buttate. Erano scolorite, la seta lisa all’altezza dei mignoli. Ma non aveva mai avuto il coraggio di privarsene, erano tutto ciò che le restava del suo essere bambina. Erano l’inizio di un sogno che l’aveva portata in tutto il mondo. Che l’aveva resa grande e sola. Il prezzo del successo, si era detta più volte. Ma un prezzo che ora, a cinquantadue anni, le pesava tantissimo. Sì, amori ne aveva avuti. Ma erano passati e spesso per colpa sua.
Sentì il bisogno bambino di indossarle. Il piede entrò facilmente. La punta ormai era frantumata, ma allacciò i nastri di seta e salì sulle punte. Alzò le braccia in un port de bras. Poi, chiudendo le mani sopra il capo, si vide nello specchio. Tutto tornò in un istante.
Infilò la porta del camerino quasi senza rendersene conto. La maniglia dell’uscita di sicurezza si arrese alla pressione. Si ritrovò in strada. Si mise a correre.
Risalì il Kudam mentre la gente la guardava e rideva del suo costume di scena e del suo incedere da papera. Non sentiva i piedi bagnati e il freddo pungente della notte. Non sentiva nulla, solo la voglia incontrollabile di correre. Fermò tre, quattro uomini che gli somigliavano. Sorrisero e rivolgendosi alle persone che li accompagnavano portarono l’indice alla tempia strabuzzando gli occhi. Qualcuno la riconobbe e tentò di chiederle qualcosa.
In fondo al viale, la luce gialla della stazione. La vide e sperò che non vi fosse ancora giunto. Poi lo vide e solo allora sentì che il cuore le batteva forte in gola. Lui l’aspettava.
Gli gettò le braccia al collo e sollevò la gamba destra, come in un arabesque perfetto, ripetuto per migliaia di volte. Si sentì sollevare. Suo padre batté un colpo d’ali e Berlino scomparve intorno a loro, mentre cadevano i primi fiocchi di neve.
Dicono avesse un sorriso dolce sulle labbra quando la trovarono su quel marciapiede. Il freddo, scrissero, aveva avuto facile preda su quel fascio di ossa, muscoli e nervi a cui l’aveva ridotta l’anoressia. Un cronista azzardò perfino una spiegazione scientifica, argomentando che quel freddo le aveva teso i muscoli facciali disegnandole quella beffarda maschera di morte. Ah, quante cose sanno i giornalisti…
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Bella l’idea del racconto, scritto bene e che tratta una condizione sociale spesso trascurata.
Davvero bellissimo. Complimenti!