Premio Racconti nella Rete 2012 “Tokyo” di Fabio Carminati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012“Un cretino. Pensa se dovevo fidarmi di un cretino…”. Al di là del vetro, inquietante, troneggiava la testa di un drago: rossa e nera come tutto il gigantesco tetto del tempio di Asaksa. Hiroshi Kawashita da dieci minuti era lì, immobile davanti a quella finestra. Con gli occhi fissi nel vuoto. Oltre il drago, oltre il tetto, oltre il grigio della pioggia che confondeva le case basse e i palazzi di quell’angolo di Tokyo. Mordeva una sigaretta, stringeva i pugni in tasca e imprecava contro quel dio che neanche conosceva. Alle sue spalle Makoto Isokawa piangeva invece in silenzio. I gomiti piantati sul tavolo di metallo e i pugni chiusi che comprimevano le guance irrimediabilmente devastate dall’acne.
Trentatré anni e una vita inutile. Numero tra i numeri di una megalopoli. Per vivere consegnava i giornali. In motorino, all’alba, percorreva i lunghi viali grigi di Sanya: il quartiere invisibile, la città che non c’è. Neanche sulle mappe quel nome esiste. Come la gente che in quelle strade vive, dorme, mangia e muore. Una terra di diseredati: anonimi casermoni di operai e cubi di legno e tela tirati su sotto i ponti del Sumida oramai morto da anni, come le anime degli invisibili che tirano a campare sulle sue sponde. Makoto quella gente la odiava veramente. “Rifiuti” li chiamava, scalciando dalla sella dello scooter quei fagotti di vita ancora intorpiditi dal freddo della notte ormai finita. Gettava con rabbia i giornali incelofanati davanti alle porte di palazzi senza numero civico. Poi via, sgasando verso un letto sudicio e un pomeriggio di nulla. Trascinato tra un fast food e una sala giochi.
Quasi per scherzo aveva messo quell’annuncio. “Vorrei guadagnare in poco tempo un pacco di soldi”, aveva scritto con le sue dita tozze sulla tastiera del display del telefonino. L’aveva inviato a un numero trovato su uno dei giornali che consegnava. “Nella privacy più assoluta invia i tuoi messaggi sms: potresti conoscere la persona che cambierà la tua vita”, ammiccava la pubblicità. Il sito era stato aperto da poco e dopo poco sarebbe scomparso, come tante iniziative su Internet che duravano lo spazio di poche settimane. Una bacheca elettronica sulla quale si consumavano le turpitudini più estreme: ragazzine che si offrivano, pedofili a caccia di vittime e complici, mariti in cerca di amanti, casalinghe insoddisfatte. Una fauna umana che, vinta la diffidenza, si celava dietro finti nomi o numeri di telefono di schede telefoniche a esaurimento. La risposta era arrivata il giorno dopo. Aveva sentito il bip e schiacciato i tasti, convinto di trovare l’ennesimo annuncio del gestore telefonico. Invece no: era la sua occasione. Poche parole, chiare e semplici. Laconica, come ogni frase che ti cambia la vita.
“Ti offro 30 milioni di yen per uccidere una donna. Accetti?”.
Questo non l’aveva messo in conto. Aveva pensato ad ogni nefandezza e forse era anche pronto a compierla. Ma questo non rientrava nelle sue previsioni. Uccidere non lo spaventava, ciò che gli faceva paura era eventualmente essere scoperto e finire in carcere. Questo sì che lo terrorizzava. Perché in carcere c’era già stato. Non era proprio una prigione, ma di fatto per sei lunghi anni in quell’istituto c’era stato. Sua madre era morta sputando il sangue e l’anima e l’assistente sociale lo aveva subito denunciato. E così per lui si era aperto il cancello di una scuola “per ragazzi e ragazze sole”, come diceva eufemisticamente il cartello all’ingresso. Erano stati anni bui, difficili. Altro che il carcere. Lì per sopravvivere dovevi schiacciare gli altri. Come quei fagotti, ogni mattina. Ben presto era entrato nella banda che comandava: omologarsi era la strada più breve che separa la vittima dal carnefice. Era così per ogni nuovo arrivato: o stavi dalla parte giusta o si schiudeva davanti a te un futuro di torture fisiche e mentali.
Una volta fuori aveva cambiato mille lavori: in fabbrica aveva resistito per pochi mesi, poi si era arrangiato. Da sei anni aveva trovato impiego nella società di consegne dell’Asaki Shimbun. Poche migliaia di yen, un letto in una camera con altre quattro persone con le quali scambiava solo un mugugno la sera.
Non ci mise molto a decidere, anche perché era con le spalle al muro. “Uccidere in fondo è un modo per sopravvivere”, si ripeté componendo quel numero. “Accetto, dimmi cosa devo fare?”, scrisse. Deglutì, sentendo montargli dentro una strana sensazione: solo in quel momento, infatti, realizzò che l’ideogramma del verbo “accettare” era identico a quello di “inchinarsi”. Un presagio? Ma va… a quelle cose non aveva mai creduto anche se quel concetto continuava a martellargli in testa.
Quei secondi gli sembrarono un’eternità. Non lo ammetteva neanche a se stesso, ma in fondo sperava fosse uno scherzo. Chi ti offre una fortuna senza sapere neanche chi sei? Il bip lo sorprese mentre fantasticava su tutto quel denaro. “Vai alla stazione del metrò di Takebashi, sulla linea azzurra. Sulla banchina per Kiba c’è un chiosco…”. Era una preda ormai in trappola. Non riusciva a concentrarsi. Aveva però deciso di non pensare e di lasciarsi guidare da quel denaro. Solo da quel denaro e da null’altro. Nessuna remora, nessun ripensamento solo il tepore del pensiero di come tradurre tutti quei soldi in una nuova vita: finalmente la sua. Si ritrovò così nel caldo soffocante di quel vagone mentre contava le fermate che mancavano a Takebashi. Non poteva sbagliarsi il messaggio diceva che c’era solo un chiosco con le insegne pubblicitarie dell’aeroporto di Narita.
Oramai doveva ballare. Trovare quel cestino non fu difficile. Dentro c’era il sacchetto rosso con le insegne di un supermercato. Aprendolo venne subito attratto da quella striscia di cuoio: era un guinzaglio per gatti; molto più sottile di quello per cani, con all’estremità un’imbragatura che sembrava la tela di un ragno. Poi l’anticipo, quello che si aspettava: banconote da cento yen, arrotolate in un cilindro chiuso da un elastico. Un mazzo di chiavi e il biglietto. C’era il nome di una donna e una foto sbiadita, fatta poco più di due mesi prima come testimoniava la data che si confondeva con il vestito a fiori dell’immagine. E le indicazioni su come agire. Andava fatto alla svelta. Tutto facile, regolare.
“Nessun rischio” pensò, sapendo che di lì a poco sarebbe diventato un assassino. Chi ha preparato tutto questo ci sa fare, disse tra sé per darsi forza. Fuori, nella fitta pioggerellina di novembre sentì scattare una molla nel cervello. “Via!”, mormorò mentre con il pollice destro premeva il tasto dell’accensione del motorino. Cinque minuti e sarebbe entrato in azione. Tentò di sputare ma le labbra erano secche. Deglutì, era senza saliva e imprecò contro le auto in fila al semaforo. La casa era l’ultima di una serie infinita di villette. Anonima, identica a tutte le altre del sobborgo di Moriyama. L’illuminazione pubblica si fermava pochi metri prima di quello steccato di legno. Sollevò il cavalletto dello scooter e neanche lo chiuse.
Guardò l’orologio alla luce dell’ultimo lampione della via: erano le 7 e 15. Tutto come previsto: era in orario. Poi si incamminò nel buio. Sentiva le gocce di pioggia sul viso e questo lo rendeva vivo. Si sentiva reale, per un attimo riusciva a sfuggire a quel senso di essere strumento in una trama già scritta. Agiva come un automa, senza dar tempo al pensiero di farsi largo nell’azione. Sapeva che così doveva fare, senza ripensamenti. Quei soldi lo guidavano. Passò sul retro della palizzata. Una stradina che portava a un cancello, la via di accesso al garage. La mappa disegnata su quel biglietto che stringeva tra le mani era precisa. Pochi metri poi, con l’accendino, illuminò per un attimo la serratura del cancello. Infilò la chiave sbagliata, provò l’altra e sentì che girava. Non fece rumore e dopo essere entrato riaccostò il battente udendo lo scatto meccanico della serratura automatica.
Piegandosi in due (lo fece istintivamente anche se non c’era bisogno perché il buio lo proteggeva e soprattutto la casa da quel lato non aveva finestre), arrivò al lato opposto alla strada. La porta era lì: chiusa e senza finestre a lato, proprio come diceva la mappa del tesoro. Accostò l’orecchio al legno scrostato e non sentì rumori dall’interno. Piano, con entrambe le mani, girò la chiave che questa volta non poteva sbagliare e accompagnò lentamente lo scatto della chiusura. Entrò nella cucina. Era al buio. Tutta la casa gli parve incredibilmente buia. Il frigorifero ronzava, poi, man mano si avvicinava alla porta opposta a quella da cui era entrato, udì distintamente la sigla del telegiornale: erano le 19,30, non serviva guardare l’orologio per avere la conferma che tutto era come previsto e che la vittima l’avrebbe trovata seduta alla poltrona davanti alla tivù. Proprio a otto o dieci passi da dove si trovava ora.
Nel suo ufficio, Hiroshi Kawashita guardava nervosamente l’orario che compariva in basso a destra sullo schermo del suo computer. Non fidandosi, tirò indietro nervosamente la manica sinistra della giacca: erano proprio le 19,15. Doveva agire. “Stai calmo”, pensò. E compose il numero di casa. Tra uno squillo e l’altro immaginò sua moglie che si affacciava dalla cucina e si trascinava sulle ciabatte verso il telefono. Ora vedeva chiaramente quella statuetta. Lei l’aveva comprata nei primi giorni in cui erano andati a vivere nella nuova casa. Scartandola, una volta tornata dal negozio, aveva anche profetizzato: “Vedrai, ci porterà fortuna. Vedi?, ha la zampa destra sollevata: porterà prosperità e salute”. Quel maneki-neko era lì da dodici anni e aveva resistito a ogni tentativo di distruzione. Le aveva provate tutte ma non riusciva a sbarazzarsene. La odiava, come odiava la storia che si sentiva ripetere ad ogni occasione: “In ogni casa giapponese c’è un maneki…”.
Ancora pochi istanti… il telefono continuava a squillare. In quei pochi istanti Hiroshi cercò di trovare quella verità che da anni aveva tentato in ogni modo di allontanare da sé. Una risposta a una semplice domanda: perché l’aveva sposata? Forse perché il padre di lei gli aveva garantito l’assunzione in quella multinazionale? Forse perché in fondo a compensare il fatto che lei non fosse proprio ciò che si dice “una bella donna” aveva però contrapposto i soldi per comprare quella villetta a Moriyama? Non certo per amore. Quello era un lusso che Hiroshi aveva scoperto di non potersi concedere fin da quando era poco più che un ragazzino. E non era stata forse proprio lei, quella donna con cui si vedeva di nascosto ormai da otto mesi, a suggerirgli l’idea?
Era successo un pomeriggio, in quello squallido alberghetto dove si trovavano rubando un’ora all’ufficio e allungando la pausa per il pranzo. Dopo aver fatto l’amore, in fretta lei aveva cominciato a rivestirsi. Davanti allo specchio, mentre si allacciava il reggiseno, aveva alzato lo sguardo incrociando il suo che la scrutava: “Che ne sarà di noi?”. Un macigno lasciato cadere nel silenzio solito che calava tra di loro. Come perfetti sconosciuti dopo quel tradimento consumato con maniacale precisione, ogni martedì e giovedì. Bramosia e poco altro per lei; l’illusione, per lui, di avere scoperto anche se se tardi quel sentimento che non osava chiamare amore. “Possiamo continuare a vivere come clandestini?”, insisteva lei fissandolo dallo specchio. Lui, rannicchiato sul letto con le gambe strette tra le braccia, la osservava senza replicare. In fondo, a modo suo, lei gli voleva anche bene. Non era amore. Naturalmente. Era troppo cresciuta per crederlo. Forse era l’ultima strada rimasta per restare aggrappata al suo esser donna. Che sentiva scivolarle via, come il fiato dai polmoni. Quarant’anni sono il bivio di una vita. In un primo momento non aveva dato molto peso alla cosa. Il compleanno non aveva neanche voluto festeggiarlo. Lui era stato però anche carino, quel giorno le aveva portato un mazzo di rose. Un po’ troppo aperte, per la verità. Ma aveva dovuto comprarle il pomeriggio prima e nasconderle per tutta la notte e il mattino nell’armadio dell’ufficio. Il più difficile era stato infilarle sotto il cappotto e sfilare davanti ai colleghi alla pausa pranzo senza essere notato. Senza che il solito furbo chiedesse ad alta voce: “Per chi sono quei fiori? Conquiste eh?”.
“Tu devi lasciarla quella donna…” insisteva lei, mentre quello specchia sembrava si deformasse ad ogni parola che lei aggiungeva. Si gonfiava e sgonfiava a seconda del tono della voce, come in un surreale cartone animato. “Non posso più continuare così. E tu lo sai… certo che lo sai. Ma fingi che tutto vada bene, che tutto possa andare avanti in eterno…”.
“Ma come faccio, ragiona. In questo momento non posso lasciarla. Perderei il lavoro, la casa… perderei tutto”.
Tre squilli, tre interminabili squilli. Poi la moglie rispose.
“Sono io, come va amore?”
“Bene”, ma quasi insospettita: “Perché mi telefoni a quest’ora?”
“Nulla, nulla. Non c’è nulla… solo che farò un po’ tardi. Tu cena pure, io ho ancora del lavoro da sbrigare”.
“Ma…”.
“Ora devo lasciati ti prego… a dopo”.
Allontanando la cornetta dall’orecchio, dall’altro capo del filo percepì un saluto strozzato dallo scatto del ricevitore. Poi quel fruscio che ben presto esplose in mille pezzi. Vide la scena come al rallentatore. L’angolo della cartelletta grigia sulla scrivania cozzò contro il portapenne, che spinse il maneki fin sull’orlo del tavolo. Poi il volo e quell’istintivo “nooooooo” che gli esplodeva nel cervello. Anche quel maneki in ufficio gli era stato imposto a forza da sua moglie. Questo però aveva la zampa sinistra sollevata, in segno di fortuna e denaro. Ora però era in mille pezzi. Sussultò: un altro segnale? Un altro messaggio che lui fingeva di non percepire? Scaccio dalla mentre il pensiero, come fosse una mosca. Non raccolse neanche i frammenti bianchi sul pavimento. Guardò ancora l’orologio. Non restava altro da fare che aspettare. L’alibi era lì, pronto da sempre. Bastava aspettare le otto e mezza ed andarsene, come fosse un giorno qualsiasi. A quel punto avrebbe messo la ciliegina sulla torta come amava ripetersi ripassando mentalmente per la milionesima volta il suo piano. Avrebbe “dimenticato” di firmare il cartellino. Poi, una volta all’esterno, avrebbe suonato facendosi aprire nuovamente la porta vetrata. Scusandosi avrebbe confessato al portiere di essersi dimenticato il cartellino. Un orario preciso registrato meccanicamente, un testimone “risvegliato” da un episodio che in seguito avrebbe ricordato. Insomma: c’era tutto.
Al buio, Makoto Isokawa scrutò la sagoma che si stagliava davanti a lui. Lo schienale e una testa che sporgeva; la silouette disegnata dalla luce azzurra del televisore era immobile. Con un piede sul calcagno dell’altro sfilò una scarpa e poi l’altra. Sentì il freddo dell’acqua sotto le punte dei piedi che si bagnavano nella piccola pozzanghera che le scarpe avevano lasciato sul pavimento. Non si curò di lasciare tracce, quei segni sul pavimento si legno non avrebbero potuto identificarlo. Si alzò sulle punte, bilanciando il peso ed estrasse il guinzaglio dalla tasca del giubbino. Lo lasciò ciondolare dalla mano destra. Poi, sollevandolo come una lenza, strinse l’altra estremità con la mano sinistra. Tese il cuoio e quasi impercettibilmente lo schiocco ferì il silenzio. Si mosse. Sulle mezze punte avanzò nel buio senza mai perdere di vista il bersaglio. Era lì, immobile e lui trattenne il respiro. Pochi passi ancora e tutto sarebbe finito.
Dopo quella telefonata alla moglie, Hiroshi Kawashita cercava in ogni modo di far passare quell’ora che lo separava dalla libertà. Come per un carcerato, le ultime ore prima della liberazione erano eterne… pian piano pensò, con il trascorrere dei giorni, dei mesi degli anni dietro le sbarre riesci forse a neutralizzare il tempo, perché il senza termine di un ergastolano non ha alcun punto di riferimento. Ma basta una data precisa, un’ora stabilita e il tempo torna a vincere e riprende la sua ineluttabile dittatura. Anche per lui era un po’ così: per tutta la vita la normalità lo aveva anestetizzato. Ora però voleva vivere. Sessanta, interminabili, minuti. Un giro d’orologio prima della vita. Tornò in sé e scaccio subito l’idea del carcere. Quel pensiero lo spaventava, e poi portava anche male. Cliccò sull’icona di Internet e sul video del computer che gli stava davanti comparve la pagina d’ingresso di un sito di viaggi. Aprì l’immagine di una spiaggia bianchissima… Poi sussultò allo squillo del telefono. Chi era? No, non poteva essere lei… qualcosa era andato storto? Sollevò il ricevitore in preda al panico. Poi sentì il cuore che ricominciava a pulsare: era la sua amante.
“Perché mi chiami a quest’ora? Ti avevo detto di non farlo…”
“Non potevo resistere, non ce la facevo… sai qualcosa?
“Ma no, nooo cosa vuoi che sappia… chiudi ti prego, mi farò vivo io.. ti prego chiudi… potrebbero risalire a te…”. Non riuscì nemmeno a completare la frase che sentì il suono metallico e continuo della chiamata interrotta. “Che stupida”, pensò. Ma poi tese i muscoli del viso in quello che doveva sembrare un sorriso… “poverina, mi vuole veramente bene”. A lei non aveva voluto rivelare tutti i particolari del “diabolico piano”. “Meno sai e meglio è per tutti” le aveva ripetuto la sera prima al telefonino davanti alla sua insistenza. “Sappi soltanto che da domani sarò un uomo libero, come mai lo sono stato in tutta la mia vita”. “Libero finalmente di pensare solo a me stesso” aveva ripetuto. “E a me?” aveva replicato lei. “E per che cosa credi stia facendo tutto questo?” l’aveva subito tranquillizzata.
E pensare che l’idea dell’assicurazione sulla vita era venuta proprio a sua moglie… Era stato il regalo di matrimonio che avevano chiesto al padre di lei. Un fondo che nel tempo si sarebbe rivalutato progressivamente. Lei non aveva un lavoro e, probabilmente, non ne avrebbe mai avuto uno; così questi soldi le sarebbero serviti come pensione o per studiare i figli che sarebbero arrivati e che mai arrivarono allontanandoli sempre di più uno dall’altra.
Hiroshi se n’era ricordato solo qualche mese prima di quell’assicurazione. Sì, arrivavano i rendiconto ogni sei mesi, ma con la stessa regolarità finivano tra le altre scartoffie sopra il forno a microonde. Era andato a cercare il contratto stipulato poco prima delle nozze. Cinque pagine fitte di clausole e postille, “fatto salvo”, “in ragione” e altre formule astruse. Le aveva rilette più volte poi aveva trovato la falla, il varco nel quale fare breccia e incamminarsi lungo il diabolico piano… Da nessuna parte vi era un esplicito riferimento all’esclusione del beneficiario per “causa di morte violenta del contraente”. Questo significava che lui avrebbe intascato cento milioni di yen tondi, tondi. Certo ci sarebbero state le indagini, ma il piano era inattaccabile e alla fine si sarebbero arresi. Un episodio, come tanti altri che inzeppano le pagine dei giornali. E alla fine avrebbero pagato.
Guardò di nuovo l’orologio. Erano passati solo cinque minuti ma gli sembrò un’eternità. Abbassò lo sguardo sui cocci del maneki… ma scrollò le spalle… “ormai tutto era avviato. E la trappola in quel momento stava per scattare.
Al buio, Makoto si sentiva scoppiare i polmoni. Tratteneva il fiato in punta di piedi. E tutto il peso del suo corpo sembrava dovesse spezzargli da un secondo all’altro le dita dei piedi. Posò i talloni a terra per un attimo. Poi riprese a camminare sulle punte. Davanti a lui la sagoma era immobile. Stagliata contro l’azzurro elettrico che emanava dal televisore. Quella testa era immobile eppure lui la vedeva girarsi, urlare e… Respirò profondo dal naso. Poi cominciò a sollevare le braccia, come se dovesse assestare un colpo d’ascia a quel capo di donna. Teneva il guinzaglio teso, davanti a sé. Come una lama. Alzò ancora un po’ le braccia e sentì il maglione tirargli sotto le ascelle. Sollevò ancora le mani parallele e successe.
Sentì solo per un stante il freddo liscio della terracotta sul dorso della mano destra… solo una percezione. Poi quegli istanti divennero ore. Sentì un fremito e lo schianto, come una bomba che esplose prima nella sua testa e poi sul pavimento. Non fece in tempo a rendersi conto. La testa della donna si girò. Proprio come lui aveva immaginato nel buio. Lei spinse indietro la poltrona con le gambe e iniziò ad urlare. Come un’ossessa. Makoto sentì una fitta al fegato, un pugno assestato al bersaglio dallo schienale della poltrona che arretrava. Si sentì mancare il fiato. E bastò per liberare la preda dal suo assedio. Lei corse in cucina… Ora al buio e in casa propria era passata in una posizione di vantaggio. Urlava e Makoto vide accendersi la luce nella piccola cucina. Istintivamente si mosse in quella direzione. Emise un urlo, quasi un latrato. Sotto i suoi piedi scalzi i cocci sembravano lame. La sua vittima era ormai quasi all’esterno. Voleva zittirla, fermare il tempo, arrestare il mondo che gli stava crollando addosso. Ma non riuscì a fare nulla. Si sentì come immobilizzato. In un attimo rivide l’istituto, sua madre… la tastiera del telefonino. Non sapeva quanto fosse rimasto in questo limbo. Doveva agire. E puntò di nuovo verso la cucina. Pochi passi e anche lui si ritrovò all’esterno. Troppo tardi. Fuori c’era un esercito. I vicini di casa armati di ogni cosa. Chi una mazza da baseball, chi un rastrello. Un uomo impugnava anche una satana rituale con tanto di bandana in fronte. Makoto urlò sentendosi spacciato. Poi cominciò a correre verso lo steccato, ma un colpo lo stordì. Sentì mancargli le gambe, come un toro atterrato nell’arena. Era a terra ansimante con un ginocchio che sanguinava. Pochi minuti dopo arrivò anche la polizia e per Makoto il rumore delle sirene fu quasi una liberazione.
Tutta quella gente intorno a casa, le luci, i lampeggianti furono il primo segnale. Poi facendosi largo tra la folla del quartiere cominciò a capire, ma non realizzò fino in fondo come potevano esser andate le cose. “Sono il marito, sono il marito”, ripetè all’agente che non voleva farlo passare. Sulla soglia le venne incontro lei. Hiroshi cercava di ragionare, Ma erano gli eventi a trascinarlo, ormai ne era schiavo. “Stai tranquilla” ripetè automaticamente. “stai tranquilla, ora è tutto finito”. E di seguito: “Chissà che paura hai avuto, cos’è successo?”. Ora stava riguadagnando il controllo… “Mi ha aggredita… in casa… il buio… ho urlato… ma ora lo hanno già portato via…”.
Hiroshi sentì un “click”, un interruttore che si spegneva nel suo cervello. Quello che in cuor suo, anche davanti alla più candida evidenza, aveva sperato fino all’ultimo momento, ora crollava. Come un castello di carte.
Makoto al commissariato sbatteva la testa sul tavolo di metallo. L’agente seduto al suo fianco faticava a tenerlo dritto sullo schienale della sedia. Nella stanza entrò un ispettore, poco dopo un altro. Bastarono dieci minuti per farlo confessare. Raccontò quel poco che sapeva: del messaggio sul telefono, dei biglietti, dei soldi… nulla però sul mandante. Sembrava che il muro alzato da Hiroshi funzionasse. Ben presto però la polizia puntò dritto su Hiroshi dal telefono di Makoto, risalirono alla scheda anonima usata da Hiroshi per inviare i messaggi. Anonima sì, ma con tanto di numero di serie e negozio e data di vendita. Un rapido controllo alle registrazioni delle tv a circuito chiuso del grande magazzino fugarono poi ogni dubbio Hiroshi appariva nitidamente nelle immagini, mentre si avvicinava alla casa e pagava la scheda telefonica “anonima”.
Sorrideva quasi spezzante Hiroshi Kawashita quando venne fatto scendere dall’auto della polizia e con le mani ammanettate sulla schiena salì i gradini del commissariato di Asaksa. C’era la testa del drago, ma il suo sguardo andava oltre. Sorrideva di nuovo perché ora ne era certo: amava veramente quella donna e sapeva che sarebbe stata salva. In fondo alla polizia lui bastava, il movente c’era, la porta della galera era ormai spalancata e lui si sentiva, forse per la prima volta nella sua vita, libero.
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