Premio Racconti nella Rete 2012 “L’Amicizia ha il numero Tre” di Elena Checcoli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012L’Amicizia ha il numero Tre
Appoggiò la schiena a quella parete umidiccia, trattenendo un tremolio al contatto con le pietre fredde ma non lo diede a vedere, tanto che si limitò ad infilare le mani nelle tasche della felpa, lasciando che lo sguardo vagasse nel vuoto davanti a lui e si perdesse nell’oscurità.
Una notte come tante, una notte scura, una notte senza stelle.
Una notte dove lui era sempre lo stesso, dove niente sembrava cambiare ma tutto continuava a scorrere inesorabilmente. In fondo, non gli interessava di cosa sarebbe successo il giorno seguente, aveva troppa paura per chiederselo e troppo menefreghismo per considerarlo tale.
Diede nervosamente un calcio ad una piccola pigna, caduta poco prima dai rami di un albero nel giardino dietro di lui: era già autunno, cavolo.
Con fare abitudinario prese un pacchetto bianco e rosso, di dimensioni modeste ed una scritta in nero piuttosto evidente: “il fumo uccide”. Si scrollò le spalle, nemmeno l’aveva davvero tenuto in considerazione quell’insieme di lettere stampate sul bianco: a cosa servivano, se tanto i fumatori continuavano per la loro strada?
La società era assurda, davvero.
Estrasse una sigaretta e se l’accese, portandosela alla bocca quasi con noncuranza mentre il suo sguardo restava sempre inespressivo, i suoi occhi scuri che si confondevano con l’oscurità di quella notte: già, la notte, chissà se anche quella volta sarebbe riuscita a illuderlo di una possibile soluzione a quella questione.
– Non dovresti fumare. –
Una voce limpida e sincera squarciò quel silenzio, donando all’aria quel poco di armonia che solitamente possedeva: era in piedi affianco a lui, lo guardava con occhi appena socchiusi e le braccia strette attorno al corpo nel vano tentativo di proteggersi da quel vento pungente.
Lui arrestò per qualche istante l’ascesa della sigaretta e alzò leggermente il capo per osservarla: i soliti capelli biondi illuminati dalla tenue luce della luna, il solito berretto bianco fuori moda e la solita sciarpa esagerata che le copriva parte del viso.
Ma gli occhi no, quelli non erano gli stessi, avevano perso per qualche istante la loro solita lucentezza, quel verde brillante si era spento col calare delle tenebre.
Inspirò una boccata di quel fumo omicida e si lasciò catturare da quella distesa bluastra che si ergeva su di lui, senza permettergli di vedere la luce, senza permettergli nemmeno di toccarla.
– E a te cosa importa… –
Non lo pensava davvero, ma era tutto ciò che sapesse dire in quel momento.
Un riflesso appena accennato, un piccolo diamante luccicante illuminò per qualche attimo il viso dolce della ragazza, delineandole le gote arrossate dal freddo mentre quella goccia si liberava dalla prigione di un cuore ancora insicuro.
Eppure erano ancora lì, loro due. Lui a fumare senza ripensamenti, lei a rattristarsi per i suoi ripensamenti.
– Smettila di comportarti così… –
Un suono flebile quanto perfettamente udibile. Una preghiera che si fingeva imposizione.
Strinse i pugni nel vederlo tanto assente, desiderosa di volerlo picchiare ed abbracciare allo stesso tempo: non sopportava vederlo così, non ce l’aveva mai fatta né ce l’avrebbe fatta adesso.
– Non c’è bisogno che mi fai la predica. –
Invece lui la voleva, quella predica.
Voleva sentirsi dire che era un idiota, uno stupido, un imbecille: chissà, forse se ne sarebbe convinto per davvero.
Voleva sentire la sua voce, quella serena ed amichevole che aveva quel ché di materno che sentiva così vicino al proprio cuore, così vicino al suo sentirsi solo…
Ma non era nella sua natura mettere da parte l’orgoglio, non certamente nei momenti in cui aveva combinato casini simili e non aveva alcuna intenzione di assumersi le proprie responsabilità.
Ma nonostante tutto, quella figura ormai ghiacciata dal freddo non si muoveva, restava immobile a fissarlo con occhi che si ostinavano a trattenere un dispiacere fin troppo profondo.
– Io ti voglio bene, dannazione… Possibile che tu non lo capisca?! –
Non era rabbia, la sua, né tantomeno un tentativo di provocarlo.
Era un semplice sfogo, puro come quelle dolci lacrime che le solcavano il viso, puro come la luna che li osservava, impassibile almeno quanto il tempo.
Di nuovo il silenzio riempì gli spazi che li separavano, divenendo protagonista di qualcosa che non gli apparteneva quando si udì l’avvicinarsi di una bicicletta, probabilmente malmessa ma ancora in grado di compiere il suo dovere.
Non si mosse, non alzò il viso, non accennò a smettere di fumare. Continuò imperterrito il proprio gesto mentre un ragazzo dagli occhi color del mare appoggiava la propria bicicletta alla parete e, sbuffando per il freddo, lanciò un’occhiata rapida alla ragazza che restava in piedi dinnanzi all’amico: bastò uno sguardo, fugace e rapido, uno scambio di intese che per troppo tempo avevano continuato ad assomigliarsi.
Non disse nulla e andò a sedersi accanto all’amico, cercando di ignorare quell’odore di fumo che non sopportava ma che, almeno quella volta, avrebbe tollerato.
Osservò il vuoto assieme a lui, fin quando non appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si abbandonò ad una altro sbuffo sonoro.
– Sempre la stessa storia, non è vero? –
Non ebbe risposta, tutto ciò che riempì l’aria fu una piccola nuvoletta di gas tossico e grigiastro che sapeva soltanto rendere opaco il blu della notte. Si sfregò le mani nel tentativo di scaldarle, mentre la ragazza ancora in piedi li osservava da dietro la sciarpa bianca: erano lì, quei due. Erano sempre loro, nonostante gli anni non sembravano cambiati, se non per qualche pelo sul mento ed una voce più grossa, assieme ad una stazza notevole.
Per qualche attimo i suoi occhi verdi e puri incontrarono quelli neri del compagno, il quale aveva immediatamente ritratto lo sguardo da lei: si vergognava, come un cane, anche se non lo avrebbe mai ammesso.
Sembrava inespressivo, come se non gli importasse che i suoi due migliori amici fossero ancora lì, nonostante tutto.
Inspirò, ancora e ancora: voleva convincersi che non gliene fregasse nulla, né dell’ennesimo casino che aveva combinato né di quei due che ad ogni problema correvano da lui.
Tutte cavolate.
– Alla fine siamo sempre qui… Noi tre.-
Spense la sigaretta sul cemento affianco a sé, gettando il mozzicone poco più lontano e fissò il ragazzo davanti a lui, tanto che con un piccolo sforzo si allontanò dal muro e si sedette, ritrovandosi proprio affianco a lui: sorrideva, quel ragazzo, di una consapevolezza amara ma in fondo consolatoria.
Guardò avanti anche lui, anche se in realtà non vedevano nulla eppure in quel gesto sembrava avessero trovato il mondo.
– Già. –
Fu tutto ciò che riuscì a dire, mentre le sue corde vocali si muovevano a fatica a causa delle troppe sigarette: non parlava mai molto, ma quando lo faceva non poteva che esprimere realmente se stesso.
Qualche goccia si posò sui loro abiti, fin quando la strada davanti a loro non cominciò a colorarsi di macchie particolarmente scure e di diverse dimensioni, benché modeste.
La ragazza osservò il cielo ed aprì la propria borsetta, estraendone un piccolo ombrellino tascabile che avrebbe a malapena riparato lei stessa, mentre i due ragazzi continuavano a restare immobili, quasi non badassero alla pioggia che aveva cominciato a cadere sempre più fitta, tanto erano assorti nei loro pensieri più disparati.
Si sedette accanto a lui, a quello che puntualmente combinava dei casini e non chiedeva mai scusa, a quello che fumava e a cui non importava nulla delle conseguenze.
Strinse i denti al tocco col marciapiede gelato, ma nonostante questo si avvicinò a lui, quasi come se volesse sentirsi protetta, come volesse dimostrargli che, nonostante tutto, lei era lì vicino a lui.
Loro erano lì, vicini a lui.
Cercò di mettere l’ombrellino nel mezzo, sopra la testa del ragazzo dagli occhi neri in modo tale da coprire almeno in parte tutti e tre dalla pioggia che stava inevitabilmente cadendo, come se anche il tempo stesse infierendo su quella situazione.
Eppure nessuno dei tre accennava a muoversi: si limitarono ad avvicinarsi l’uno all’altro, come quando erano bambini, alla ricerca di un contatto, di un calore, di un’amicizia che non volevano perdere.
E mentre stavano lì, gelati dal freddo e bagnati dalla pioggia, le sue labbra si mossero: sì, era quasi impercettibile, ma era un sorriso d’amicizia.
(Elena Checcoli)
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Che bel racconto sull’ amicizia, delicato e soave.