Premio Racconti nella Rete 2012 “Qualcuno con cui parlare di calcio” di Anna Siccardi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Di padri, io, ne ho avuti diversi.
Il primo, dopo quello naturale, fu Franco “il Barone” Causio. Salito a Torino da Lecce nel glorioso ’70, si era passato il testimone con mio padre, che proprio quell’anno era partito per dedicarsi a grandi imprese in Brasile. Stessi baffi, stesso destro naturale di papà.
Causio trionfava sul muro della stireria, bianco e nero e lanciato in corsa a braccia alzate, preda della domestica vicentina, la Milena, che ogni tanto si baciava il dito indice e glielo passava sulla faccia.
Si dice che fosse chiamato “il Barone” a causa della sua alterigia, ma sono solo maldicenze. La verità è che il Barone era un bel pezzo di meridionale e aveva classe da vendere.
Io no, a calcio ero una pippa, troppo garbato e sempre a terra, ma avrei fatto carte false per piacere alla Milena anche la metà di così, e quei baffi lì erano una cosa che già a nove anni sentivo mia. Poi il vapore della stirella l’aveva tutto sbiadito, il Barone, e riempito di bolle, e la Milena s’era rassegnata a portarlo nel cuore.
Mia madre invece teneva duro e archiviava con cura le cartoline di papà. Le riponeva nel cassetto del suo comodino, il luogo dei cimeli.
Ogni tanto, con la cautela di un ladro, ne pescavo una e la leggevo: Qui molto freddo. Mi mancate! Con affetto. Oppure Qui un caldo incredibile, vi penso con amore.
Curiosamente, le condizioni meteo denunciate dalle cartoline non erano mai le nostre: caldo a febbraio, freddo in luglio. Questo alimentava in me il sospetto che il Brasile, patria di Pelè e del calcio fantasmagorico, fosse un pianeta a sé.
Il 1973 fu l’anno in cui il Barone fece da matti. Indimenticabile il cross per la testa di Altafini che portò la Juve in pareggio all’Olimpico, espugnato poi con un gol di Cuccureddu all’88’.
Quella sera chiesi a mia madre di scrivere a papà e non avendo le parole per dire tutta la gloria che avevo in petto ricordo che feci un disegno, schematico ma efficace, circondato da zebre.
Il ’73 fu anche l’anno del catechismo e di Padre Settimio.
La pelle bianca, la veste nera, parlava il mistero, mischiando a sorpresa italiano, latino e dialetto. E lui, il padre, raccontava di un altro padre, uno più generale, padre di tutto e di tutti, con cui si poteva parlare senza bisogno di parole, dritto dal petto.
A messa capivo poco, forse per l’eco, mentre a catechismo mi sembrava di capire tutto, il cammello e la cruna, i piedi di Cristo, il gallo e i denari. L’immacolata concezione. Poi però, quando provavo a raccontarli alla Milena, andavo in confusione e mi sembravano cose da pazzi.
Nelle lettere che mia madre scriveva a mio padre restava sempre uno spazio per me.
Mi metteva davanti un foglio stipato della sua calligrafia minuta e aguzza, indecifrabile.
Scrivi due righe qui sotto, mi diceva. Sii gentile, scrivi.
Io scrivevo, ma mica per gentilezza. Anzi, avrei voluto scrivere di più, chiedergli del Brasile e dirgli che anche se ormai ero pronto per andare allo stadio, avrei aspettato lui.
Ma c’era sempre un’aria di fretta, con mia madre in piedi alle mie spalle, la busta in mano, quella pancia che cresceva e cresceva.
E allora andavo via liscio: Qui sole discreto. Avanti sabaudi. Ciao.
Poi arrivò l’Ingegnere. Comparve una sera, a cena, e si portò dietro una serie di stranezze. La tavola apparecchiata in modo complicato e luccicante e Milena che serviva piatti enormi con un grembiule tutto ricami. L’ingegnere mi chiese della scuola, degli amici e delle ragazze. Come se le ragazze potessero essere argomento di conversazione.
A lui, del resto, il calcio non interessava e quindi tra i tintinnii delle forchette era velocemente sceso un silenzio sinistro.
Il caffè fu servito in studio e, benché avessi tentato di scartare in camera, fui trattenuto dallo sguardo inequivocabile di mia madre. Mi fu improvvisamente chiaro quel parlare senza parole, dritto dal petto, che ci aveva spiegato Padre Settimio. Che mia madre fosse Dio?
No, troppa carne in ballo, se n’era accorto anche l’Ingegnere. Lo osservai mentre guardava le ginocchia di mia madre, e un po’ lo odiai. Mi chiesi cosa potesse esserci da guardare in quelle ginocchia. Poi lei accavallò le gambe, lui smise di guardarle e io lo odiai ancora un po’.
Quando l’Ingegnere se ne fu andato, mia madre mi chiese come mi sembrasse.
Gentile, dissi. La mia mente volò a Claudio Gentile, il terzino fuoriclasse che avrebbe consegnato la Juve della stagione 76-77, appena iniziata, alla leggenda. Sorrisi.
Nient’altro? Chiese lei. Io la guardai in silenzio e lei mi diede una carezza che era gratitudine per quel figlio, io, di così poche parole e zero domande.
“Scriviamo a papà?”, mi chiese. Io dissi di no, per la prima volta. Stasera no.
E allora lei mi parlò della sua pancia. Della vita che porge doni inaspettati e cambia corso come un fiume. Di papà che era lontano da anni, a costruire dighe in paesi sconosciuti e che sarebbe tornato, sì, ma non come marito. Come amico, per lei, e sempre come padre, per me.
Disse che l’Ingegnere era una brava persona e poi aggiunse qualcosa sulle donne ancora giovani e sole, come lei.
Io capivo e non capivo, e nemmeno m’importava troppo di capire tutto. Avevo finalmente scoperto cosa c’è di così attraente nelle ginocchia delle donne: è la parte certa e solida di esseri altrimenti imprevedibili, con quei corpi lunatici che si deformano e si riempiono di pensieri bizzarri.
Il giorno in cui nacque mia sorella (sì, una sorella, un altro membro della famiglia con cui sarebbe stato impossibile parlare di calcio) arrivò una lettera di mio padre, la prima indirizzata a me e solo a me. Doveva aver finalmente realizzato che a dodici anni si è in grado di leggere e scrivere in autonomia.
Parlava della sua grande impresa. La diga, scriveva, era quasi finita e presto sarebbe tornato in Italia. Mi avrebbe portato allo stadio.
Nella busta c’era anche una fotografia: una muraglia di cemento, una parete a mezzaluna che sembrava un’immensa unghia conficcata nella montagna. In cima, sul bordo dell’unghia, una ventina di uomini ritti e sorridenti, con gli elmetti gialli in testa e le maniche delle camicie arrotolate. La fotografia virava al rosso e io non capivo quale, tra quegli uomini, fosse mio padre. Fu mia madre, tornata dall’ospedale, ad indicarmelo nella schiera. Si era tagliato i baffi.
Eravamo nel bel mezzo di un incontro decisivo, a Perugia, quando mia madre entrò in camera mia.
Feci appena in tempo a sentire il boato per il gol del Barone, come sempre decisivo, che spianava la via al nostro diciassettesimo scudetto, quando capii che dovevo spegnere la radio.
Mia madre s’era tirata vicina la sedia, ma poi aveva dimenticato di avere un corpo e non s’era nemmeno seduta. Mi disse di un crollo, un’esplosione che aveva spazzato via un pezzo di diga, e c’era da aspettare i comunicati ufficiali.
Distolsi lo sguardo dai suoi occhi, più lunatici che mai, e lo posai sulle sue ginocchia, ma mi accorsi che quel giorno tremavano anche loro.
Padre Settimio, davanti alla bara nera distesa ai suoi piedi come un’ombra, aveva parlato bene, della misericordia di Dio e della morte sui posti di lavoro. La chiamano morte bianca.
Era il 18 maggio 1977 e mancavano poche ore all’ultima di campionato.
Il padre parlava piano, elencava i santi a uno a uno.
I miei erano Zoff, Cuccureddu, Gentile, Furino, Morini, Scirea, Causio, Tardelli, Boninsegna, Benetti, Bettega.
Quella sera mia madre mi permise di tenere la radiolina sul cuscino.
Cercavo di seguire la partita, le gesta dei miei santi. Ma pensavo alla morte bianca.
Per quanto ci provassi, non riuscivo davvero a capirlo, cosa c’entra il bianco con tutto quel buio. Al triplice fischio, quando lo scudetto fu nostro, smisi di pensarci per un attimo.
Chiusi gli occhi e alzai lentamente il volume, sempre più forte, sempre più forte, finché la stanza si riempì di cori come uno stadio vero.
![]()
E’ un racconto stupendo. Brava Anna.
Bel racconto, mi ha commosso. Scritto dalla parte del ragazzo che vive un suo mondo distante da quello degli adulti (per colpa degli adulti)i. Ben scritto.
Grazie ragazzi!
La vita di un ragazzino vista attraverso i suoi occhi di tifoso di calcio. Abbandono, divorzio, morte, il campionario completo descritto con leggerezza ma senza banalità. Un racconto molto ben scritto.