Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2011 “Buona fede, mi amor” di Gianluca Pernafelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Curvo sul volante della sua utilitaria, bucava l’oscurità autunnale con lo sguardo fisso sul rettilineo deserto. Non pioveva più, ma il vento era forte e rumoroso. Laggiù, dietro l’orizzonte coperto dalla buia vegetazione costiera, i fulmini disegnavano strani simboli, simili a quelli che la sua ragazza tentava a volte di decifrare nei capillari fragili dei suoi occhi, quando fumavano erba insieme.

L’appuntamento era alle undici, al numero trenta di un viale vicino la litoranea di cui non ricordava il nome. Davanti a un chiosco blu, aveva scritto il cliente sulla chat dove si erano contattati. Se poi hai problemi mi chiami al cellulare. Problemi. Solo i soldi sono un problema. Con una mappa puoi arrivare in culo al mondo, ma senza benza non vai lontano anzi non vai da nessuna parte. Così rimuginava e correva, Patti. Correva sulla statale fiancheggiata da pini danzanti anche se era un po’ in anticipo sui tempi concordati. Corre perché gli piace quando i segmenti bianchi della corsia di sorpasso, risucchiati dal muso dell’auto in corsa, si sincronizzano con la cassa dritta e i suoni acidi dei pezzi tecno sparati dalle casse dell’autoradio. Specie in serate come quella, quando hai bisogno di svuotarti dei pensieri come un monaco zen. La musica è un mantra senza sforzi. A lui dà coraggio. Gli regala l’oblio giusto, quello che permette di ritornare se stessi dopo aver indossato una maschera o due. Senza sforzi. Con in tasca qualche decina di euro in più.

La descrizione del percorso corrispondeva con precisione a quella che Patti aveva visualizzato mentalmente. Non si aspettava però un piazzale per il parcheggio così grande. E che il numero civico trenta raggruppasse diversi palazzoni popolari. Fu costretto a prendere di nuovo il foglietto scritto velocemente a matita per ricordarsi della C segnata accanto al numero. Ma non doveva essere un villino isolato? Fece qualche passo nella penombra accompagnato da un paio di randagi dagli occhi spenti e si trovò di fronte a un brutto edificio alto, la vernice della facciata consumata dalla salsedine. Sul citofono del portone 30/C almeno una dozzina di cognomi.

Non conosceva il cognome del cliente, ovvio. Sapeva che era un quarantacinquenne, segretamente bisex, separato da poco, con un buon lavoro e una pessima ex compagna di vita che si era portata via molti suoi averi, casa in centro compresa, dopo aver scoperto i suoi modi troppo alternativi di ingannare la noia. Gli aveva detto di chiamarsi Marco, che era incazzato col mondo e che aveva bisogno di qualche ora di trasgressione. A casa aveva anche della roba che, tanto hai capito, meglio non dire non si sa mai la rete è sotto controllo.

Patti compose con calma il numero del cellulare del tipo. Aspettava gli squilli e osservava le finestre del fabbricato. Nessuna luce dall’interno, gli sembrò.

Non fu una vera sorpresa quando sentì dall’auricolare la solita voce femminile registrata annunciare che il telefono della persona chiamata poteva essere spento. Quelle parole suonavano ciniche, il loro accento era una presa in giro. Non fece finire la frase. Telefono chiuso, cliente sparito, serata buttata via, tutto da cancellare.

Non era una situazione nuova, in fondo. A volte succedeva così, la gente è strana, meschina anche. Tanti matti in giro. Si tratta di accettare un gioco che non ha regole precise.

Stop.

Rewind.

Eppure stava fermo. Spalle al portone. Lo sguardo sulla strada.

Volse di nuovo gli occhi sul citofono. Gli venne voglia di premere tutti i pulsanti, ma senza scappare via come faceva da ragazzino. Stavolta avrebbe chiesto di un certo Marco, uno che si faceva chiamare Marco e che non aveva neanche le palle per disdire a voce un incontro con uno sconosciuto.

Provò a richiamarlo sul cellulare: spento o comunque, a voler essere buoni per forza, non raggiungibile.

Accese la sua prima sigaretta della sera, pensando a qualche bugia da raccontare nel caso si fosse imbattuto in persone note, amici. Era la sua preoccupazione più grande, quella di non essere scoperto. Nient’altro lo spaventava. Oppure pensava alla faccia che quelle stesse persone avrebbero fatto se gli avesse detto candidamente che scopava per soldi ed ora era lì come un coglione perché qualcuno gli aveva dato buca. Certo qualcuno che il posto doveva più o meno conoscerlo, che magari si godeva la scena dietro le tapparelle dalle case vicine, o in una delle poche macchine parcheggiate lì intorno, sotto l’ombra più scura degli alberi. Conosceva anche lui?

Si chiuse dentro il cappuccio della felpa, a difendersi dai colpi d’aria fredda. Si diede un’occhiata intorno. I posti di mare fuori stagione sono come una donna senza trucco. A lui quel posto metteva i brividi, metteva i brividi e stranamente lo attraeva, lo tratteneva con i piedi piantati dov’era.

Aspettava che accadesse qualcosa, forse.

Eppure ebbe un piccolo soprassalto quando scorse con la coda dell’occhio qualcuno uscire su uno dei due piccoli balconi del piano rialzato. Una figura femminile, in accappatoio, con l’asciugamano avvolto sulla testa come un turbante. Prendeva dallo stendino qualche piccolo indumento e non faceva rumore.

Lo aveva visto?

Se le rivolse subito la parola fu solo perché sentiva di dover giustificare la sua presenza in quella desolazione:

“Mi scusi, signora…”, esordì con un accento troppo sicuro.

Frazione di silenzio.

“Santo cielo, mi amor, mi hai quasi spaventata!”

“Pensavo m’avesse visto…”

“Nessun problema, mi amor, colpa mia che sto sempre con la testa tra le nuvole. Dimmi!”

Patti le spiegò che cercava un tale, doveva abitare in uno di quegli appartamenti. Lei mostrò una pazienza e una disponibilità non comuni. Si sforzò di farsi venire in mente qualcuno che rispondesse alla vaga descrizione che il ragazzo le fornì, pensando a voce alta. Una voce rauca.

Ma no, non sapeva aiutarlo. Non aveva molti contatti con i vicini, disse. Poi gli chiese una sigaretta. Lui fu contento di offrirgliela e si sporse oltre il davanzale basso del balcone per accenderla. Lei ne approfittò per avanzare un gesto gentile, evitandogli una manovra in realtà facile: lo invitò ad entrare.

Lui naturalmente accettò.

L’odore di ceretta bollente riempiva una stanza rettangolare mal arredata che faceva da ingresso, cucina e soggiorno. Sedettero sulle sedie di plastica accanto al tavolo poggiato al muro. Sul tavolo, accanto a un pacchetto di sigarette ancora chiuso, tre cellulari.

“Anche tu te la giochi con operatori diversi, vedo. Si possono risparmiare un sacco di soldi” fece lui con un cenno della testa.

“Questo è per la brava madre e moglie, questo per il lavoro, questo per il tempo libero”. Seria, indicò uno per uno i tre telefonini mentre parlava con studiata compostezza, muovendo una mano pesante nonostante gli sforzi evidenti per farla apparire più bella.

Patti non seguì con attenzione il racconto del ragazzino venezuelano emarginato alla ricerca di una identità, degli interventi subiti, della cura di ormoni, della faccia del prof del liceo quando rivide il suo alunno trasformato anni dopo, della bimba che aveva adottato e che ormai era maggiorenne, del matrimonio celebrato qualche mese prima in Spagna, accettato quasi per scommessa. Ad essere sinceri non gliene fregava proprio niente. Piuttosto si sforzava di non fissare i piedi tozzi e brutti di lei che scivolavano avanti e dietro sulle infradito di gomma consumata. E di non posare lo sguardo sul seno gonfio, sui bei capezzoli che occhieggiavano fra le pieghe dell’accappatoio.

Accese un’altra sigaretta. Aveva voglia di infilarle la mano sotto il tessuto di spugna, accarezzarle la pelle liscia e scura, posarla sulle tette e tastarle. Chissà se è vero che sono fredde, le tette finte, chissà quanto pesano, che consistenza hanno.

“Non ci siamo neanche presentati: mi chiamo Viviana”

“…ah, già, Patrizio. Gli amici mi chiamano Patti”

“Nel mio paese è un nomignolo da donna…”

“…anche Viviana nel mio paese è un nome da donna”

Lei lo guardò giù in fondo in fondo agli occhi, fino al cervello e ai muscoli della pancia tesa, gli sembrò.

“Allora abbiamo più di una cosa in comune, a quanto pare”

Sorrisero.

Lui si smarrì in domande silenziose, cercando nella sua testa tracce di un copione da seguire, caratteri di una personalità convincente da imporre: sedottoseduttoreclienteospitebuonocattivosbandatoingenuo.

Fece un altro tiro di sigaretta. Lei gli chiese se voleva del caffè, l’unica cosa che avesse da offrirgli, forse.

Lui naturalmente accettò.

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1 commento »

  1. La storia comunica una diffusa malinconia, complice forse anche il luogo descritto dall’autore che si dimostra capace di comunicare piccoli spezzoni di cambiamenti di vita

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