Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Foje mische – Erbe selvatiche” di Antonio Apostolo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Con la schiena addossata all’uscio di casa un uomo provava ad entrarci finché, biascicando versi animaleschi, i fumi del vino gli suggerirono di sfondare la porta. I compari che lo avevano accompagnato si fermarono in strada giusto il tempo di udire le urla di Teresa che per l’ennesima volta lo vedeva rientrare a notte fonda ubriaco fradicio. Di rimprovero dapprima, urla di dolore, per le percosse subìte, dopo. Che missere Oronzo fosse un tipo manesco lo sapevano tutti. Più volte da quella casa s’erano udite le urla ed i pianti di Teresa e delle figlie. Ancor più da quando un misterioso incidente aveva sottratto loro il piccolo Alfonso. Una ossessione che aveva rovesciato sulla mite donna le reazioni del marito, che improperi e triviali volgarità erano poca cosa rispetto alle brutali violenze fisiche. Vivevano in un piccolo borgo nella baronia di Segìne in una minuscola casa posta nelle adiacenze della masseria dei Baglivi, altri possidenti del luogo, presso i quali Oronzo e Teresa lavoravano. Il primo a curarsi del bestiame, l’altra, secondo stagione, a raccoglier le olive o piantare ortaggi. Una vita laboriosa, se non fosse per quanto accadeva, lontano da occhi indiscreti, entro le mura di casa. Dopo la nascita di Giuditta ed Eva, che il padre aveva accolto con delusione, questi fu più volte udito minacciare la moglie: «Non sia mai che ti abbia sposata senza che io, ultimo della mia famiglia, possa avere una discendenza. Noi De’Perroni non possiamo scomparire da questi luoghi a causa della tua inettitudine!»

Teresa aveva già avuto, oltre le figlie, altre tre gravidanze finite male ma ciò nonostante Oronzo non mancava di biasimare ogni giorno la sua incapacità a dargli un figlio maschio e con il vino in corpo e anche senza, principiava a percuoterla.

            Ogni tanto, in specie nei giorni di mercato, Teresa si recava ad Acaya ove, davanti al castello, i contadini esponevano i loro prodotti ed in tali occasioni anche ella non mancava. Quella mattina al banco di Teresa si presentò frate Niceta, un francescano d’un vicino convento. Il monaco fissò il suo sguardo negli occhi di Teresa. Occhi gonfi e arrossati. Occhi che avevano pianto.

«Di nuovo?»

«Si fra’ Niceta. Di nuovo!»

«Io prego per te… per voi. Prega anche tu. Abbi fede, vedrai che presto o tardi arriverà anche il figlio maschio che tanto desidera lui.».

«…sempre che a suon di botte non mi abbia ammazzata prima! Ora qualcuno gli ha messo in testa la storia del malocchio mi percuote anche per quello. Dice che dovrei rivolgermi a Leonarda per farmelo togliere.».

Leonarda era una anziana signora che viveva in Acaya come domestica di un ricco possidente. Dicevano fosse esperta di medicina popolare. Certo aveva una gran conoscenza delle erbe selvatiche e delle loro proprietà. Un’erba per ogni malattia. In paese era nota come la Linarda de Sulìtu o più sbrigativamente la magàra, la fattucchiera.

«Lascia stare Teresa, lascia stare. Non cadere nelle trappole del demonio. Abbi fede solo in Dio».

Teresa, devastata dallo sconforto, pareva avesse cercato a fra’ Niceta l’approvazione per fare ciò che in cuor suo aveva già stabilito. Sarebbe andata dalla magàra a farsi togliere il malocchio!

Volle che l’incontro si tenesse in un vecchio casolare e Leonarda vi giunse portando con sé quanto occorreva. Tirò fuori dalla sporta un piatto ed un piccolo orcio con olio d’oliva. Poi accese una candela. Teresa tremava e sperava. Si sedettero l’una di fronte all’altra. Leonarda versò nel piatto dapprima l’acqua, poi con solennità, mormorando preghiere o formule magiche, fece cadere in essa delle gocce di olio e se queste rimanevano a galleggiare se ne rallegrava ma quando invece si spandevano mescolandosi all’acqua mostrava fastidio e quasi disperazione. Una prima volta, poi una seconda ed infine alla terza volta giunse il momento in cui poté pronunziare le formule per levare il malocchio concludendo: «ora nessuno ti farà più del male e nessuno potrà impedirti di avere il figlio che desideri.».

L’anno dopo, con grande gioia del padre, nacque il figlio maschio: Alfonso. Per Teresa i tormenti sembravano finiti.  Ora le premure di Oronzo riguardavano solo ed esclusivamente sul suo erede in stirpe.  «Teresa, apri gli occhi – diceva con tono minaccioso – nulla deve mancare ad Alfonso ed or che muove i primi passi bada che non si vada a mettere in pericolo e non lasciare che si avvicini ai nostri animali. Tienilo lontano dai maiali!». Intanto neppur l’ultimo nato aveva mutato le sue abitudini, uso com’era a ritirarsi quasi sempre ubriaco. Le liti con Teresa non erano perciò mai cessate ed ogni pretesto appariva utile per percuotere lei ed anche le figlie. In particolare Giuditta, la più grande, che  per confidenza della madre, aveva avuto notizia dell’incontro tra essa e la magàra. Madre e figlia condividevano il convincimento che l’evento della nascita di Alfonso fosse legato al rito contro il malocchio.

Da qualche tempo, nell’ortale di casa, Oronzo custodiva tre maiali che gli erano stati affidati dai Baglivi. Grufolavano in libertà con le galline dalle quali il piccolo Alfonso era attratto irresistibilmente. Un mattino, la tragedia. Sfuggito alle attenzioni Alfonso sgusciò fuori ad inseguir le galline. D’un tratto, alla vista del piccolo, i maiali gli si precipitarono addosso travolgendolo e causandone la terribile morte. Ma quello strazio produsse nuova linfa per nuovi tormenti.

«Per colpa tua ho perduto mio figlio. Odiosa sgualdrina!».  E giù botte, a mani nude, con la fune o altro, ritornava l’inferno. A Teresa non bastavano le lacrime per piangere i dolori; per la perdita del suo bambino, quelli corporali inferti dalla violenza del marito e quelli dell’anima, ben più struggenti e devastanti, nel sentirsi responsabile della fatale distrazione. Mentre Oronzo affogava il suo lutto nel vino, a Teresa non rimaneva che il conforto di Giuditta. L’altra figlia, Eva, esasperata era scappata di casa senza mai più farvi ritorno.

«Madre, son passati ormai dieci anni da quel funesto incidente. Abbiamo pregato Dio nel ricordo di Alfonso. Abbiamo avuto e continuiamo ad avere Fede ma la pace è dono per gli uomini di buona volontà. Dieci anni di maltrattamenti e violenze, quando mai potrà finire questo inferno?».

«Vedi Giuditta ma se io…»

«Smettila! Basta, ti prego. Se… se… È stata una tristissima fatalità! Quell’uomo è una bestia, io so solo questo! Sin da bambina ogni schiaffo, ogni pugno che riceveva il tuo viso erano schiaffi e pugni sulla mia persona. Il tuo dolore era il mio e lo è tutt’ora. Magari trovassimo un modo per farlo smettere, magari ci fosse un rimedio!».

L’unico rimedio per le tante Terese e Giuditte in quel tempo e luogo pareva essere la sottomissione agli abusi dei tanti padri-padroni, sudditi integerrimi fuori ma crudeli aguzzini tra le mura domestiche. Teresa, non denunciò mai le violenze. Non voleva che la fatale distrazione divenisse di pubblico dominio, già bastavano i suoi sensi di colpa a darle tormento e quell’infame accusa che tra una bastonata e l’altra le proferiva il marito: «assassina!».

            «Tuo padre stamattina ha lasciato una sacchetta di erbe selvatiche che ha raccolto in campagna. Vorrebbe mangiare fàe e foje.  Ho già cotto le fave, mi aiuti a pulire la verdura?» Giuditta dopo aver svuotato la sacchetta cominciò scrupolosamente a selezionare le erbe: «Questa è cicoreddha (cicoria), questo è zzangune (crespino) questa è paparina (rosolaccio) questa è anazzìcula (tarassaco) questa è burràscina (borragine).» Giuditta le distingueva bene e mai sua madre avrebbe immaginato queste sue precise conoscenze e dunque, con stupore ne chiese la ragione.

«Ricordi quando mi parlasti di Leonarda? È una grande conoscitrice di erbe. Tutti sanno che le consiglia a fare unguenti per sanare malattie e dolori ed anche per il malocchio o incantesimi. Sono stata da lei più volte e mi ha fatto conoscere questo e molto altro.». Giuditta, confidando in Leonarda, era andata da lei a chiedere un rimedio per impedire al padre di esercitare violenza. Frattanto le ubriacature di Oronzo erano diventate sempre più frequenti e non più sopportabili, come le aggressioni fisiche. Finché una notte, dalla casa si udirono le grida di un uomo: parole senza senso con imprecazioni e bestemmie. Era Oronzo che rientrava ubriaco. Giunto sulla porta di casa sferrò contro di essa un calcio spalancandola ed egli stesso perduto l’equilibrio si ritrovò a terra. Al frastuono Teresa e Giuditta accorsero ricevendone insulti della peggior specie quindi afferrandolo per la giacca inzuppata di vino e di vomito lo trascinarono all’interno. Urlava appellandole con epiteti irripetibili e chiedeva anzi esigeva per l’indomani di trovare a tavola foje mische. Fu lasciato per terra a smaltire la sbronza e dormire.

            «Madre non aver più paura, vuole quelle e quelle gli faremo! Me ne occupo io. Domattina vado in campagna a fare una gran bella raccolta. Cicoreddha, zzanguni, paparìna, cardu, burràscina e… mandracula, tanta mandracula!»

Loading

1 commento »

  1. Bellissimo racconto, mi ha catturata!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.