Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Ultime notizie” di Pier Gaspare Siclari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

    Abitavano sulla strada che porta al lago in una bella casa bianca col giardino, la veranda con il pavimento in legno e il dondolo.

    Lui ci teneva che il prato fosse sempre rasato e in ordine, così come la staccionata che riverniciava ogni anno di bianco e la cassetta della posta, di un bel rosso.

    Lei invece amava curare la piccola aiuola che c’era davanti alla casa: ci potava le rose, ci dimorava nuove piantine di violette ogni primavera e, all’affacciarsi dell’inverno, la copriva per difenderla dalle gelate.

    La prima volta che mi invitò da lui iniziava l’estate.

    Le cose andarono che la compagnia di progettazioni civili, la C&B, dove lavoravo da circa un anno, aveva una  sede anche in quella città e quando feci richiesta di trasferirmi mi fu subito accettata.

    Appena arrivato mi affiancarono, come succede sempre, al più anziano: un uomo alto e magro che aveva superato di molto la sessantina, prossimo alla pensione.

    Dalla sua ironia, dal suo fare scanzonato, mi fu chiaro da subito che oltre al lavoro ci teneva a mettere giù qualcosa per farne un’amicizia.

 «Il lavoro è una cosa, la vita un’altra» diceva spesso ed è per questo che appena me lo chiese sgombrai il campo da “avanzamenti di carriera” o roba tipo “gettare nuove basi finché si è in tempo” e glielo dissi subito che ero lì per chiudere una storia.

     E lui ricordo mi disse che una donna, lasciare una città, arrivare in un’altra, chiudere, non c’entrano nulla con la solitudine — questo però appena fummo da soli lì nel suo salotto. 

   Sua moglie me la presentò che stava inginocchiata accanto alle rose che c’erano in un angolo dell’aiuola: ricordo che mi salutò senza alzarsi, voltando il capo e continuando a fare quello a cui era intenta e che poi, quando fummo in casa, ci raggiunse scusandosi per non aver interrotto il lavoro, intanto che andava in cucina a prendere un cucchiaio — così ci disse.

    Dalla finestra del salotto, dove intanto mi aveva portato, la vidi attraversare il vialetto verso l’aiuola e guardandola pensai che da giovane doveva essere stata davvero molto bella.

     Lì, nel salotto, lui accese la radio e mi disse che le piaceva ascoltarla la sera, in penombra, da solo, perché lo aiutava a ricordare.  Ricordo anche che mentre me lo diceva  io continuai  a guardare fuori dalla finestra e che di spalle, insieme alla musica, sentii che versava qualcosa.

     —Ci vuoi del ghiaccio? — mi chiese, costringendomi a voltarmi.

     —Scotch?… Beh, direi di sì, con questo caldo!

   E poi ci sedemmo io sul divano: lui sulla sua poltrona, uno di fronte all’altro.

   All’inizio ci teneva a sapere se il lavoro mi piaceva, se era come me l’aspettavo. Poi prese la strada  di quando c’era stato lui al mio posto, con tutta la vita davanti, trent’anni fa, in quell’ufficio. Poi, man mano che fra noi si allentavano le cose, incominciò a parlarmi di loro, di come le cose fra loro da molto tempo non andavano più bene.

      Finì lo scotch un paio di volte, senza cercare similitudini con quello che mi era successo, senza farmi domande.

   Un’altra sera, sempre lì nel suo salotto, con la radio accesa, il whisky, sua moglie in camera da letto a guardare la tv mi disse che il silenzio è un’altra di quelle cose che non ha niente a che fare con la solitudine.

    Con la fine di agosto però, solo per stanchezza, iniziai a declinare e le cose iniziarono così a passare sul lavoro: in una pausa caffè o nel bel mezzo di un calcolo strutturale.  

     E vennero fuori, anzi mi confessò, che erano anni che dormiva sul divano lei, ultimamente, aveva preso a far girare in casa «piccole gocce di  veleno». Risposte a monosillabi, lunghi silenzi, e quel negarsi, negarsi sempre. Astute piccole cose, apparentemente innocue, con la quali però aveva costruito una prigione perfetta tanto che lui, così mi aveva detto un giorno in ufficio,  aveva deciso, da vecchio, di uscirne «a costo di dover scavare un cunicolo con le unghie» sotto quella che ormai era diventata «una questione di vita o di morte».

   Sarebbe scoppiato se non le avesse dette a qualcuno quelle cose. Di certo non al bar o peggio in ufficio, perché, come tutti del resto, doveva mantenere una facciata ed io, non li sembrava vero, gli ero arrivato lì, sconosciuto, nuovo di zecca, scollegato da tutto e da tutti. Benedetto da Dio. 

    Ogni tanto mi capitava ancora di accettare un suo invito, ma ormai erano più le sere che mi addormentavo sul divano dell’appartamento che la compagnia mi aveva dato in comodato, davanti al televisore acceso.

     E lì su quel divano ero arrivato alla conclusione che le storie che finiscono si somigliano tutte: che avrei potuto essere io quello che ogni anno rivernicia la staccionata e la cassetta della posta senza accorgersi di quel micro carico che sfugge a tutti i calcoli, quella variante atmosferica che modificando l’indice di corrosione porta oltre la soglia di rottura il pilone portante di un ponte.

     A proposito di ponti: ecco, dovete sapere che fin da ragazzo sono stato un grande appassionato di architettura romana,  tanto da scegliere poi di iscrivermi alla facoltà di ingegneria civile; e che quando dovevo preparare la tesi feci un viaggio in Italia solo per vedere gli acquedotti costruiti dai Romani che ancora oggi, sospesi nell’aria attraversano valli su arcate e piloni di soli mattoni, per chilometri fin dentro le città, senza armature, senza cemento armato.

    Ultimamente, nelle cose che passavano in ufficio, ce l’aveva che nella famiglia di lei erano tutti morti con quasi cent’anni e che “la soluzione”, se non stava attento, con i suoi acciacchi, rischiava di diventare lui.

   Una mattina mi disse che aveva letto che avevano scoperto che l’acrilamide — una sostanza che le patate sprigionano quando si fanno friggere — a piccole dosi quotidiane è un innesco sicuro per la per «il male del secolo… Certo non è roba che viene così, da un giorno all’altro: è una cosa lunga, come del resto lo sono gli ultimi anni di un uomo in una tre per tre, con un uno che prima o poi finisce per farti gli occhi dolci… Perché vedi, loro non sono come noi: loro lo  sanno come venirne fuori pulite e mettersi poi dietro una bara a riempire di lacrime una vagonata di kleenex… E anche se devono metterci anni per farti la festa, non le importa, perché tempo ne hanno più di noi, per natura».

    Così mi aveva detto. E a quella cosa dell’acrilamide ci pensai tutto il giorno e anche la sera, tornato a casa, al solito, davanti al televisore acceso, non riuscivo a non pensarci a come ci si arriva che alla fine darsi la libertà a vicenda non basti più e a come non ci sia niente che sia niente davvero.

    E ci ripensavo anche la sera che tutto sarebbe crollato, finito, trasformato per sempre. Una sera, una come tutte le altre, con noi ai nostri soliti posti, quelli che la vita sembrava averci assegnato: il mio amico nel suo salotto ad ascoltare la radio; sua moglie in camera da letto  davanti al televisore, dopo che come sempre avevano cenato ognuno per conto proprio; ed io sul divano del mio appartamento in comodato.

      Tutto come sempre. Fino a che  la musica che passava alla radio si interruppe, così come la partita che stavo guardando, per dare spazio alle ultime notizie: Kate, l’uragano che aveva già devastato e ucciso  quasi mille persone lungo l’intera costa, era passato da 3 a 5, e veniva all’interno, dritto verso di noi, tanto che alle prime luci dell’alba si sarebbe abbattuto sulla città.

    Insieme stentammo a crederci: io andai alla finestra a guardare la macchina posteggiata; lui in camera da letto, dove  vide sua moglie addormentata, davanti alla televisione, con in mano il suo immancabile pacchetto di patatine e la guardò, la guardò come non lo faceva da un pezzo: e vide ancora la sua bellezza, i suoi lineamenti e si accorse che quella donna che un tempo era stata la sua ragazza aveva il volto stanco e due piccole rughe sulla fronte. Poi spense il televisore che andava a vuoto, con il suo mondo.

    E avrebbe voluto svegliarla per dirgliele le ultime notizie, ma  la lasciò dormire. Fece invece una cosa che non faceva da anni: le si sdraiò accanto.

   Intanto alla radio era ripresa la musica e la si sentiva arrivare dal salotto.



                        





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