Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Giorni di pioggia” di Pier Gaspare Siclari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

  Giuliano è del ‘32 e abita da sempre, con sua moglie Rose, in questa piccola frazione di montagna: proprio nella baita di fronte a quella che quest’anno ho affittato per l’estate.

Tutte le mattine, sul presto, lo vedo andare nella stalla dove cresce un vitello e tiene quattro galline ovaiole.

   Ad avvisami è la campanella di Rex, il suo border collie a pelo lungo, che lo segue passo passo, e così mi alzo dal tavolo, scosto la tendina della finestra e lui è lì che scende la ripida stradina fra le case con su la spalla, inforcata sul tridente, una balla di fieno.

   Verso le undici poi, sento ancora la campanella e lo vedo andare ad  affacciarci alla ringhiera del prato della vecchia casa disabitata che c’è accanto alla sua: da lì si vede tutta la valle e la strada che da Antey-Saint-André arriva fin qui e poi va ancora su, fino alle funivie.

    Anche per me quella è l’ora di staccare e così dopo aver avviato qualcosa per il pranzo lo raggiungo. Ma sempre, prima di uscire, mi metto qualche biscotto in tasca perché so che Rex mi farà le feste e se li aspetta.

   Una mattina, mentre eravamo lì affacciati a guardare le file di macchine salire, mi disse che la strada si fermava molto più in basso e fu sotto il Fascismo che la fecero arrivare fino in paese, e che poi per anni c’era stata solo la strada e nient’altro e che fu solo sul finire degli anni Settanta, quando hanno iniziato a costruire, che l’han fatta arrivare su fino alle piste, e che il turismo così com’è adesso, estate e inverno, non esisteva, tanto che per campare la famiglia lui era dovuto andare a lavorare alla Cogne, in acciaieria. Ma come lui quasi tutti, mentre le donne e le ragazze andavano a servizio, a fare le stagioni, in giro, negli alberghi, dove gli alberghi c’erano.

   Quello stesso giorno dopo pranzo prese  piovere e la mattina seguente mi svegliai con la pioggia che batteva controvento sui vetri delle finestre.

  Continuò senza smettere tutta la settimana e ogni mattina vedevo Giuliano e Rex scendere sotto la pioggia per la loro stradina verso la stalla.

  In montagna quando è cosi, in casa bisognava accendere la luce fin al mattino, anche d’estate;  e i bambini non escono o si radunano a gruppi nelle case le mamme si mettono a fare le frittelle di mele.

   E con la casa piena di piena di bambini dovetti lasciar perdere il lavoro  e così iniziai a gironzolare curiosando per le stanze. E  le vacanze che si affittano per le vacanze sono perfette nei giorni di pioggia perché non sono camere d’albergo o gli appartamenti nei residence: sono invece piene di cose, che raccontano la storia di chi le ha abitate, è stato lì prima di noi.

     Sono cose semplicemente dimenticate, oppure lasciate lì d’auspicio per ritornarci un giorno e ritrovarle, oppure sopravvissute a traslochi, cambi di proprietari o chissà cos’altro.

    Basta aprire i cassetti delle credenze, curiosare negli armadi, sulle mensole, o nelle scatole di cartone che ci sono sempre dentro i ripostigli per trovarle.

   E così ecco in un cassetto una vecchia scatola di fiammiferi, una Settimana Enigmistica ingiallita col Bartezzaghi irrisolto, una vecchia bolletta della luce, una scatolina di latta con dentro un ditale d’ottone, dei bottoni, delle monete, da cinquanta, venti, cento lire e un ago conficcato in una spola di filo rosso; e poi, in un angolo della parete, dove s’appoggia la scala per andare al piano di sopra, un quadretto a mezzo punto, il cui soggetto era un alfabeto.

   Per guardarlo bene lo stacco dal chiodo e vedo che ricamata, accanto a due iniziali, c’era una data: 1917.

   Un anno ancora e sarebbe finita, pensai; e poi a chi poteva averlo ricamato, nelle lunghe sere d’inverno, alla luce di un lume ad olio e, in ultimo, a cosa sono in fondo le parole, tanto che come in un gioco, iniziai a comporne qualcuna unendo le lettere con linee immaginarie, come si fa con le costellazioni, guardando il cielo nel buio della notte: trovai per prime i nomi delle mie figlie, poi “estate”, “sentire”, il mio nome e quello di mia moglie.

  Poi per guardarlo meglio lo portai sotto la luce della finestra da dove vidi che aveva ripreso a piovere, abbondantemente, e la strada quasi non si vedeva talmente era fitta. Cosa che mi ricordò che il padrone di casa mi aveva detto che se fosse finita la bombola del gas non c’era bisogno di scendere giù fino in paese perché sul balconcino, in un armadietto chiuso a chiave ce ne è sempre una di scorta, e che la chiave è appesa dietro la porta d’ingresso. E così rimesso il quadretto al suo posto andai a vedere.

    La chiave era lì dove mi aveva detto, ma accanto vedo che c’era anche un quadretto con dentro una vecchia fotografia, in bianco e nero, che ritraeva un gruppo di persone davanti ad una casa, che a guardarla bene, e considerando i cambiamenti dovuti al tempo, sembrava essere proprio quella dove mi trovavo in quel momento.

    Inizia così a guardare uno per uno le persone ritratte: c’erano quattro donne – due molto giovani; quattro bambini e una bambina; e un altro più piccolo in braccio ad una delle donne giovani; e poi quattro uomini – due anziani-con sguardo severo, barba e baffi e i gilet abbottonati; e poi un cane.

  Dalla luce che inondava la foto doveva essere un giorno d’estate: una ricorrenza, una festa, forse l’Assunzione. Le donne, ma anche le bambine, indossavano abiti lunghi neri, con sopra dei grembiuli bianchi ricamati, e quei scialli che si mettevano per andare in chiesa.

   I due bambini più grandi, di più fra tutti, attirano la mia attenzione: forse perché puntavano per terra con orgoglio i loro bastoni col manico ricurvo da pastore.

   Restai così, con quella foto in mano, un tempo che non so dire: lì a guardarci, divisi solo da dal vetro impolverato della cornice, come in un parlatorio, mentre fuori la pioggia continuava a cadere, abbondante.

  Mi scosse un tuono. E fu in quel momento che mi venne in mente che Giuliano una mattina che eravamo lì affacciati alla ringhiera, una mattina che faceva molto caldo,  prese a raccontarmi che… “Erano due fratelli, miei compagni di scuola, e la scuola era lì, sotto la chiesa, in una stanza, col prete che ci faceva da maestro, e c’era una stufa e ognuno, ogni mattina, doveva portare un ciocco di legno oltre ai quaderni e al calamaio. Con loro poi ci trovavamo anche d’estate, quando ci mandavano da soli su  alle malghe, e dormivamo assieme a volte. Badavamo alle bestie al pascolo mentre i grandi facevano il fieno e altri lavori in paese. E ricordo che quel giorno faceva caldo, troppo caldo come oggi, e che i vecchi li avevano avvertiti di stare attenti ai temporali perché i foundres, i fulmini, le sentono le bestie e le vengono a cercare”.

  E doveva essere stato un giorno caldo come quello in cui mi fece quel racconto quando in un attimo i due fratelli lo sentirono alzarsi quel vento che chi sta in montagna conosce bene: le vacche, infatti, incominciarono ad agitarsi e i cani a girargli intorno abbaiando per evitare che si disperdessero.

   Non erano distanti dalla malga e non ci volle molto per raggiungerla.  Ma quando Anselmo, il più grande, disse a Lesièn di mettersi davanti per entrare con la testa della mandria nella stalla, mentre lui rimaneva dietro a chiudere la fila, la pioggia era ormai fitta e gelata ed il vento fortissimo. 

   I cani correvano avanti e indietro abbaiando vicino le zampe delle vacche sempre più spaventate, pizzicandole anche con piccoli morsi, in modo da tenerle serrate, dimostrando un coraggio indomabile. 

    I tuoni erano assordanti e rimbombavano sulle pareti più alte della Becca mentre più in basso, sulle rocce ferrose,  i fulmini sembravano colpi di mortaio. 

    A Lesièn, quando varcò con la prima bestia la porta della stalla, gli tremavano le gambe. Era fradicio e paralizzato dalla paura che quasi non si muoveva più. 

   Anselmo, invece, dopo aver capito che qualcosa non andava, mentre i cani, continuavano a serrare le bestie non lasciandogli altra strada che l’ingresso della stalla, corse verso di lui.

    Gli gridò in faccia, per scuoterlo da quel terrore, che doveva prendere la prima vacca, portarla in punta alla stalla e lì legarla alla sbarra di ferro della mangiatoia in modo che le altre le sarebbero andate dietro mentre lui, sarebbe ritornato fuori e con i cani che avrebbe fatto il resto. 

    Era la prima volta che Lesièn si trovava in una situazione simile ma tirò fuori, non tutta la forza che poteva avere un bambino delle sua età e con le mani e le gambe che gli tramavano incominciò a legare la prima bestia in fondo alla stalla, e poi le altre, a mano a mano suo fratello gridando e colpendole con bastone le spingeva dentro

   I muggiti erano diventate urla che riecheggiavano insieme al suono dei campanacci nel semibuio della stalla. Le vacche non riuscivano a calmarsi e c’era anche il rischio, specie per un bambino,  di rimanere schiacciato. Ma erano stati in gamba, ce l’avevano fatta: le bestie erano tutte dentro e anche i cani fuori tiravano il fiato, fradici,  sotto la piccola tettoia.

   Solo il temporale non mollava. Anselmo stava ancora armeggiando con una catena che risultava corta e che bloccava troppo una bestia alla sbarra di ferro della mangiatoia quando Lesièn fece per andargli incontro e aiutarlo, ma una luce blu, come un enorme serpente, entrò da una piccola finestra e percorse, crepitando, come impazzita tutta la stalla, emettendo un sibilo così forte che fu in grado per un attimo di fermare il tempo.

   E fu in quell’attimo che Lesièn, che era rimasto immobile a pochi passi da Anselmo, vide uscire quel serpente dall’altra piccola finestra che c’era in punta alla stalla, e provò come una vertigine e in quel lampo di luce blu vide tremare e stramazzare al suolo quattro mucche che le stavano davanti. 

    Di Anselmo se ne accorse solo dopo quando avvicinandosi lo vide a terra, immobile, fradicio, ma con un fumo che gli si alzava dalla camicia. Lo chiamò lanciando un urlo che lo paralizzò, facendolo cadere in ginocchio accanto a lui, senza però il coraggio di toccarlo. Rimase lì a guardarlo e a chiamarlo per quasi un’ora, fino a quando non arrivarono suo padre e suo nonno, che dopo averlo avvolto in una coperta lo portarono a casa. 

                              

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