Premio Racconti nella Rete 2025 “Cuore – Lei” di Giovanni Bucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Abbiamo rifatto le otto, a fumare fino al mattino sotto le coperte, con la finestra spalancata dalla quale ora entra l’aria secca di mezzogiorno, d’estate. Luce calda. Odore d’erba e caffè galleggiano nella stanza con Gabriella Ferri e Rino Gaetano, e cumbia e musica brasileira. Il posacenere sul davanzale ancora fuma. La sua pelle bruna è del colore del parquet, bellissima. Mette in mostra le gambe che spuntano da sotto la mia maglietta. Mamma mia quanto è bella, con i tatuaggi che le baciano il corpo e il sorriso da 24 carati. Mi perdo nei suoi occhi scuri mentre sta lì a gridarmi che era innamoratissima di me, che a me non fregava un cazzo di lei.
Grida che partono dallo stomaco e le rompono la gola. Mi urla che non la guardavo manco senza volere. Gli occhi bagnati. Mi rimpiange di non riuscire a starle accanto nemmeno ora, dopo tanto tempo, e si graffia il volto per avermi aperto di nuovo la porta. Ma se mi parla sopra a cosa serve? Vorrei dirle solo “sono fatto non capisci niente”. Mi ricorda dei periodi in cui le rispondevo unicamente “di quello che dici non me ne frega un cazzo”. Vorrei solo silenzio nella testa. Lei aveva sempre dietro tutti i ragazzi che voleva, io non riuscivo a badare a me, figuriamoci ad un’altra persona. Andavo con Ema nella casa dell’albanese, dove arrivava di tutto, tutto nostro. A volte aspettavo in macchina, a volte salivo con lui quelle scale pallide fino all’ultimo piano come quando l’albanese ci chiese se potevamo mollargli qualcosa che voleva iniziare pure lui. Noi lo abbiamo guardato e basta: “Ma che cazzo dici? Fai il tuo lavoro. Stai al tuo posto.” Noi, 18 e 20 anni a lui che ne aveva sui 35. E gli voltammo le spalle. Poi giù per le rampe carichi di roba. Avevamo tutto quello che chiedevi, compravamo i soldi con la droga. Che poi, non li potevi neanche spendere, perché come li giustificavi a tua madre. E allora li investivo in viaggi e cene. Portavo le ragazze a mangiare fuori, ostriche e champagne coi soldi dei tossici, e poi sotto le stelle. Ma cosa avrei mai potuto darle io? Che chance avevo? Lei però è l’unica che è riuscita veramente a baciarmi il cuore, ad entrarmi dentro, l’unica che avrei sopportato ogni ora, ogni secondo. Che con Lei era piacevole pure bere alcool. Ci siamo lasciati e rimessi insieme, ci siamo feriti e poi riuniti, mischiando i nostri sapori con i baci. Però ora siamo qui, vorrei capisse quanto tengo a Lei. Adesso lo so, sono consapevole dell’amore che provo, ma quando sono lucido tutto sparisce, non provo più nulla, come se finissimo sott’acqua, Lei mi sorride e io le sorrido ma non sento niente. Spesso uno dei due deve amare per entrambi, siamo fatti male, siamo nati soffrendo il mondo, ma di quei brevi periodi in cui riusciamo ad amarci non c’è cosa più bella. A volte ci speravo dentro di me, che mi dicesse di no per una volta, che si innamorasse di un altro. Ma ora siamo qua, ancora. Lei sta lì a vomitarmi tutto addosso ma giuro non capisce nulla. Si toglie la mia maglietta e me la lancia rimanendo nuda: “Non voglio più avere nulla che fare con te.” Cala il silenzio. Davanti a Lei immobile raccolgo e mi metto la t-shirt, poi la felpa, e me ne vado. Solo un “Ok” esce dalla mia bocca.
Passeggio verso casa. Le Nike bianche sull’asfalto bagnato e i soldi accartocciati in tasca, un’altra cali smezzata col vento mi sta in mano. Mi si impregnano i lacci sciolti. Una marea di cose dentro la testa. Ma ora il sole non scalda più. E le persone sono distanti, e l’aria è così densa che non si fa più respirare. L’ ho lasciata sola e sono rimasto solo, forse me lo sono meritato. Forse dovrei prendere la vita più sul serio, impegnarmi a viverla e non a scappare riempiendo le mie giornate. Il sole mi sta scavalcando e le ombre si sono allungate sul marciapiede, fino a seguirmi rimanendo nascoste, senza farsi vedere, e comparire ogni tanto al passaggio dei fari di una macchina. Non ha neanche idea di quanto io tenga a Lei, ma non riesco a badare a me, come posso farlo con entrambi. Vorrei piangere, ma mi manca quando le lacrime mi rigavano il mento, non mi ricordo neanche più quando ho pianto l’ultima volta. E mi vergogno di questo. Come mi sono vergognato ogni volta che ho perso qualcuno, Bryan più di tutti. Non andai neanche al funerale, perché il funerale è dei vivi, non dei morti, e come avrei potuto interagire con sua madre, con i nostri amici. Cosa gli avrei detto? Che già non sentivo più nulla. Perché per la gente le altre persone muoiono lentamente, con le ore, coi giorni. Lente salgono in cielo fino a diventare una stella più luminosa delle altre o una nuvola dalla forma strana, o un aereo che vola alto. Nel mio cuore invece non occupano più di un secondo, sono solo una lacrima che non riesce a uscire e quindi mi scivola amara sulla lingua, tra le tonsille, poi si infila lenta nella gola fino a chiudersi per sempre nello stomaco. Ma per Lei è diverso, mi manca già, tutto quello che abbiamo passato insieme. Mi fa più di tutte le droghe, è più dolce di tutte le droghe mischiate insieme. Che chance avevo io con Lei? Che ha sempre tutti i ragazzi che vuole che le vanno dietro. Improvvisamente riconosco una casa, la Casa del Pentito, cosi mi diceva mia mamma quando ci passavamo davanti per andare a scuola. Ricordati che sei un bravo ragazzo, non fidarti mai della polizia, piuttosto i carabinieri, così mi diceva. Non mi ero accorto però di essermi avvicinato tanto a casa, perché stavo camminando con gli occhi bassi sul cel aspettando un messaggio da Lei, ma niente. Solo gente che chiede se ho qualcosa da dargli. Nemmeno mia madre mi sta cercando nonostante sia fuori da ormai tre giorni, sa che scrivermi non servirebbe a farmi tornare, quindi aspetta nel letto fingendo di dormire nella speranza che sia la sera buona che la porta si apre ed entro io. Non si arrabbia neanche più quando torno tardi a casa, le basta vedermi a casa. Ancora nessun messaggio. Mi infilo il telefono in tasca e proseguo a camminare, alzando lo sguardo verso i palazzi che si allungano al cielo. Passo davanti a kebabbari e baretti, ognuno con storie così uniche chiuse tra le pareti scrostate. La gente sta seduta o in piedi, ognuno fa qualcosa di diverso ma tutti per un unico fine, aspettare il giorno dopo. Chissà quanti di questi hanno ancora avventure, desiderano ancora realizzare qualcosa, forse la maggior parte ha deciso di lasciar perdere perché spaventati dalla possibilità di non riuscire a realizzarla, perché quaggiù ti guardano strano quando dici che vuoi qualcosa, che prima o poi tutti si viene incatenati da una scrivania che odi o da una guardia, che si impreca contro lo stato senza farci sentire come quando da bambino mandavo affanculo mia madre da dietro la porta dopo che mi aveva sgridato, e si bestemmia, la forma di preghiera più semplice, piccoli baci mandati a Dio dalla gente di periferia. Costretti a stringere i denti e serrare i pugni ingiallendo le nocche coperte di ferite, di fronte a chi ha di più, che fa del male spacciandolo per libertà, perché anche se la legge è uguale per tutti nessuno è uguale a nessun’altro. Oppure hanno deciso di lasciar perdere perché hanno paura proprio di realizzarla, perché poi dopo cosa potrebbero fare? È così più confortevole tenere i propri sogni solo come tali, per potervisi perdere in quei momenti difficili, per potersi sedere a bere e sognare, rifugiarsi nella propria testa e scappare dal mondo. Chi ha l’appartamento al piano terra si può permettere di guardare la tv attraverso la finestra, seduti su sedie tutte diverse portate nel marciapiede. Uno sta piegato in terra in un angolo, a quattro zampe come una bestia, tutto in para a cercare un sasso, perché questo ti da, e qualche ragazzino sta andando in monopattino a prendere le siga ai vari ai domiciliari. Passo accanto al campetto di cemento, dove dei bambini ancora sognano di sfondare nel calcio. Il pallone inchioda il tempo ai muri del palazzo, scandisce le ore sotto lo sguardo dei vecchi con la faccia bruciata dal sole e le lattine di birra vuote ai piedi. Arrivato a casa, apro il cel per vedere che ore sono. “Non ti voglio più sentire”, mi ha scritto Lei. La mia prima tentazione è di scriverle, ma ormai è tardi, non mi risponderebbe mai. L’unica era chiamarla immediatamente, ma non lo avevo neanche sentito arrivare sto’ messaggio, distratto dal paesaggio. Forse il segreto sta proprio qua, nel riuscire a vedere ciò che ci circonda senza mai scordarci di chi abbiamo vicino. Ormai sono a casa. Spengo e inizio a prepararmi per la serata.
Vedo doppio ormai da un paio d’ore. In molti conoscono il mito di Narciso, il ragazzo figlio della bellezza che faceva perdere il cuore a tutte, e pure a se stesso. Pochi però sanno la storia del Lago sul quale si specchiava, una storiella scritta da Pablo Coelho migliaia di anni dopo. Perché mentre tutte accorrevano tristi al luogo dell’incidente, si accorsero che le acque del Lago erano diventate salate. Gli chiesero allora il perché di ciò, e il Lago rispose che era il frutto delle lacrime versate per il ragazzo. Tutte provarono a consolare il Lago. Alla fine si, Narciso era un bel ragazzo, forse il più bello, ma di bei ragazzi ce ne sono tanti. Ignoravano pero che prima il Lago aveva solo una distesa di cielo sopra di sé, e così aveva vissuto fino a che Narciso non arrivò a specchiarsi la prima volta. Lì, il Lago, riuscì a vedersi, per la prima volta, riuscì a vedere le proprie acque, le onde che le increspavano, il colore azzurro intenso. Il Lago non si era mai reso conto di quanto fosse bello, prima di incontrare Narciso. Narciso gli aveva fatto capire quanto valeva, tutto il suo splendore, ed ora, più nulla. Ed ora a me sembra di essere sprofondato di nuovo, tornato a prima di incontrarla. Non finirà certo oggi il mio amore per Lei anche se se n’è andata stamani, ma vabbé. Non puoi costringere nessuno a restare, e questo lo sapevo bene. Devo imparare a sopravvivere anche senza. Ora ho la strada tutta per me. È tempo di consumare questa notte. Se sorrido non vuol dire che sono felice. Devo mantenere la facciata ma come puoi non rattristarti guardando la luna che brilla nel buio, compagna, che passa la notte con tutti ma la vita solo con te. Mi dico se riesco a parlare di Lei vuol dire non la amo, ma è semplicemente tutto per me. Con i miei amici riusciamo a scavalcare la recinzione ed entrare in discoteca. I sorrisi della gente. Le luci ballano a ritmo di musica e drink girano tra le mani. Vortici di ragazzi mi circondano, e noi ci buttiamo subito in mezzo per non farci riconoscere dalla sicurezza. Prendo un quarto di pasta e aspetto che faccia effetto, intanto ne giro un’altra e mi guardo intorno. Bella sensazione, bellissima. Finalmente tutto gira veloce come me. Mi sento felice, pronto per una storia che si brucia in una notte e sparisce con l’alba. La musica suona come non mai e mi chiama verso se. Luci. Sono oltre tutto, stanotte non penso ad altro che a stanotte. Ragazze bellissime si affollano attorno a un ritmo elementare, poi si diradano e ne rivelano una stupenda, che balla come fosse sola nella stanza. Si accorge di me. Guarda come mi guarda. Mi fa sesso con gli occhi. Le offro metà di quanto mi era rimasto e l’altra metà lo finisco io.
La luce mi trapassa le palpebre, apro gli occhi nel suo letto. È giorno di nuovo. Il sole mi brucia l’iride. Mi pulsa la testa. La ragazza della sera prima sta già sveglia accanto a me e mi inizia a parlare, le vorrei dire solo “cazzo stai zitta”. Ma in silenzio mi metto seduto e giro la testa dall’altra parte. Accendo il cel, scarichissimo. Vedo un messaggio da Lei mandato verso le cinque. “Ti vorrei prlare”. Dentro mi cade il cuore sullo stomaco.