Premio Racconti nella Rete 2025 “La Pausa Pranzo e Altri Castighi” di Attilio Spaccarelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025(Breve Storia di un Mobbing Silenzioso)
14 luglio 1970, una data storica: è il giorno fatidico in cui venne pronunciata la formuletta magica che “mi proclamava dottore in Scienze Statistiche”! Avevo ventiquattro anni e mi sembrava di avere in pugno il mondo. Tornai a casa dove mi aspettavano mamma e il suo compagno Gianfi, una persona molto importante nella mia vita, che mi regalò una bellissima borsa in cuoio, stile viaggiatore del Far West. Dopo qualche mese vinsi una borsa di studio da utilizzare presso il Dipartimento di Calcolo delle Probabilità della Facoltà di Scienze Statistiche. Seguirono due anni vissuti in totale leggerezza, caratterizzati da poca ricerca universitaria, da uno scorcio di servizio militare e da una piccola attività commerciale di jeanseria, economicamente poco fruttifera ma sufficientemente frivola avviata insieme alla mia ragazza di allora, una borgatara di talento. Nel 1973 fui assunto da un’azienda di credito, per chiamata diretta, in un costituendo ufficio di Ricerca Operativa. Iniziò così a Palermo la fase più importante della mia vita. Con un po’ di sano bullismo mi guadagnai l’apprezzamento del management e qualche antipatia siciliana dei colleghi più permalosi. Con un po’ di sana incoscienza, invece, mi sposai.
Dopo un anno fui trasferito a Roma e di lì a qualche mese fui sottoposto a un’operazione di meniscectomia, proprio come un vero calciatore, a dispetto delle mie amnesie. Nel 1976 mi separai, e poiché ero un gran figo nel 1977 fui promosso in tempi allora ritenuti propri di una carriera rampante, e in seguito gratificato con un encomio, addirittura solenne! Nel 1978 mi diagnosticarono una demielinizzazione del sistema nervoso, in pratica la sclerosi multipla.
Da gran figo diventai un gran peso e una grande iattura per la mia azienda. Che però non si perse d’animo, anche perché il decorso della sclerosi multipla, almeno a quei tempi, era altamente invalidante. E così, in attesa della mia morte lavorativa, il lungimirante e vagamente iettatorio management aziendale mi ha scavato una nicchia in cui dovevo continuare i miei studi econometrici, dei quali non gliene fotteva niente, ma che tornavano utili per fare ammuina. Nicchia nella quale inconsapevolmente mi infilai, perché quando un evento importante entra a far parte della tua vita e ne modifica l’iniziale percorso, vivi quasi uno stato di incoscienza in cui ti senti come spogliato delle tue potenzialità, che riacquisti solo allorché riesci a integrarti con la nuova condizione esistenziale.
Anzi, in quegli anni ho ricevuto anche due avanzamenti di carriera, ovviamente lento pede per non fare torto alle mie capacità motorie, assurte quindi a parametro delle mie capacità professionali. E per non farsi guardare dietro, l’Istituto (maiuscolo, in quanto entità sovrana) ha fatto le cose per bene aggiungendo anche qualche regalia, sotto specie di una missione all’estero e di una carrozzina elettrica. Senza peraltro dimenticare tutti quei bei riconoscimenti verbali della mia intelligenza (la scappatoia utile quando non è possibile metterla sul fisico…) e delle mie conoscenze statistiche che dovevano fungere da periscopio per l’Istituto, secondo un’espressione – tanto colorita quanto priva di contenuti – dell’allora vicedirettore generale.
Ma qualcosa è andato storto e ha rovinato i piani dell’Istituto: il decorso della sclerosi multipla si è arrestato lasciando esiti invalidanti solo sull’equilibrio e la deambulazione, ma senza altri significativi nocumenti.
Ai primi degli anni Novanta l’ufficio di Ricerca Operativa è stato soppresso, i miei colleghi sono stati ricollocati altrove e per me, che non potevo essere materialmente soppresso, è stata escogitata un’alchimia illusionistica che recitava così: trasferimento all’ufficio studi di Palermo, ma con sede in Roma, dove non esisteva alcun Servizio Studi, capo e allo stesso tempo impiegato di un ufficio fantasma a struttura autoreferenziale, con la più ampia autonomia progettuale e decisionale, dalla lettura del Corriere dello Sport allo svolgimento di qualsiasi attività anche se inutile – anzi, meglio se inutile – e con possibilità di qualche pennichella, non importa se nell’orario d’ufficio.
Questa frenetica attività mi ha indotto a una causa per demansionamento che il pretore ha poi accertato, ingiungendo all’Istituto di reintegrarmi, e di cui l’Istituto se ne è fottuto limitandosi a un simbolico spostamento dell’ufficio: dall’inizio del corridoio alla fine, giusto vicino a una latrina.
Fatto salvo il cambio d’ufficio, la mia vita lavorativa non ha subito altre variazioni. Un mio assistente viene alle sei e mezzo a casa mia, puntuale per non farmi arrivare in ritardo, visto il carico di lavoro. Giunto in ufficio e sceso dalla macchina, affronto con la carrozzina manuale la prima barriera, una porta a molla durissima che ogni tanto viene aperta solo per errore da qualche sconsiderato in preda a un insano impulso, o da qualche distratto commesso che ancora se ne sta chiedendo il perché. Superato lo scivolo, mi trovo di fronte all’ascensore. Se c’è qualche collega in attesa, si possono avvertire i brividi di terrore che gli attraversano la schiena all’idea di farmi passare, e quindi, procedendo per successive eliminazioni, adesso trovo il campo sgombro.
L’ascensore si estende in larghezza ma è poco profondo. Per entrarvi occorre dirigersi verso un angolo e poi ruotare la carrozzina, che deve essere ultrasottile altrimenti non ce la farebbe. Se quest’ascensore non funziona ce n’è un altro accanto, preceduto da due gradini, grande quanto un baule: per accedervi, non bisogna sbagliare un movimento e per partire, una volta dentro, occorre trattenere il fiato, fortunatamente solo fino al primo piano. Quando ambedue gli ascensori sono fuori servizio o in manutenzione o in qualche altro accidente di disgrazia, occorre trasferirsi nell’altra ala del palazzo. Quindi, doppia incazzatura per i due ascensori che non funzionano, scivolo in discesa e incazzatura semplice per la nuova prova di forza con la porta a molla, cercando di non disturbare il commesso che in guardiola è immerso nella lettura del giornale.
Per entrare nell’altro lato dell’edificio, doppia porta a molla, più leggera però dell’altra. Una volta dentro, vi sono da superare alcuni gradini. I commessi e il vigilante, che intuiscono la sciagura incombente, dopo aver tentato di rispedirmi nuovamente dall’altra parte, si devono infine arrendere di fronte all’evidenza. Se poi chiedo un aiuto per fare arrampicare la carrozzina lungo le scale, si affanneranno nel mantenerla in un equilibrio inquietante frutto di un reciproco scaricabarile tra fighetti indolenti e plateali millantatori; va da sé che tireranno un sospiro di sollievo se il mio assistente si sobbarca la faticaccia di fare da solo.
Anche l’ascensore di questo lato del palazzo è largo ma poco profondo, e assomiglia a una macchina infernale: è velocissimo sia nella corsa che nella chiusura delle porte, e bisogna affrettarsi a entrare e uscire per non rimanere schiacciati tra le porte prive di fotocellule. Giunti al primo piano ed evitato l’effetto panino, occorre poi affrontare una porta a mollissima preceduta da un dentino (una gran tenerezza). Una volta superata senza penalità la doppia barriera architettonica, si può alfine transitare per un lungo corridoio al termine del quale vi è una latrina con annesso ufficio, il mio ufficio. Detta latrina ha poi un dispositivo meccanico d’apertura che ogni tanto s’inceppa, in modo che la mia pipì non abbia a patire complessi di inferiorità.
Mi trasferisco quindi sulla carrozzina polifunzionale e assumo il controllo della situazione. Verifico che tutti gli impiegati, cioè io, siano presenti e mi dedico alla lettura del giornale. Poi faccio qualcosa al computer.
Alle 10.30 il caffè portato da una volenterosa collega. Se la volenterosa collega si dimentica, niente caffè.
Alle 13.40 pranzo preparato a casa da consumare in castigo di fronte a un muro su uno scomodo tavolinetto, stretto e inaccessibile. I miei pantaloni, poi, riveleranno inequivocabilmente se ho mangiato e, nei casi più fortunati, anche cosa ho mangiato. Se a casa si distraggono o il mio assistente si dimentica di prendere il panierino dal frigorifero, niente pranzo, ma almeno i miei pantaloni rimarranno puliti.
Alle 17 vengono a prendermi. Se si dimenticano, non vengono a prendermi, ma in compenso il pernottamento in ufficio è gratuito.
Se scoppia un incendio, ho la possibilità di riscaldarmi in ufficio: confortevole soprattutto se fa freddo.
Se c’è un terremoto, tremo in ufficio.
Se ho un malore, crepo in ufficio.
Ormai dal punto di vista aziendale io vivo in simbiosi con il mio ufficio: io sono il mio ufficio, e siccome l’ufficio non fa niente, per la proprietà transitiva io sono niente.
A questo punto lo scopo dell’Istituto è chiaro: non avendo potuto godere della mia morte lavorativa, spera almeno in quella fisica.
E allora, anche per confutare l’apparente giudizio di disvalore implicito nel comportamento dell’Istituto nei miei confronti (pagato per non fare danni!), ho impiegato il tempo libero di cui ho potuto usufruire per gentile concessione dell’Alta Direzione, cimentandomi nell’impresa di scrivere un libricino con le disavventure picaresche di chi «vive per conto terzi», io che affermo di essere uno statistico e che alla maturità classica fui rimandato nella sola materia d’italiano.
Se non altro, mi sono molto divertito.
Molto bello questo divertente, cazzotto nello stomaco. Complimenti !!
Lungo tutto il racconto rimbalza rimbombano la certezza che il protagonista ha pienamente riacquistato tutte le sue potenzialità, è riuscito a integrarsi con la nuova condizione esistenziale e con chiarezza disarmante la vive. Impossibile ignorarlo.
Mi è piaciuto molto. Ha tanta forza dentro e la trasmette tutta.
Ogni scena, poi, viene presentata in contemporanea dall’esterno e dall’interno con poche azzeccate parole e questo mi ha colpito molto. Vorrei capire come ci riesce Attilio!
Ho trovato il racconto molto affascinante sia per il tema affrontato che per il ritmo incalzante delle frasi, a volte spezzate, che danno un forte senso di movimento. Complimenti, mi piace molto il tuo stile!