Premio Racconti nella Rete 2025 “La bambina e il Leccino della vita” di Gilda Picchio (sezione racconti per bambini)
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025In una piovosa notte di marzo, una bambina si rigirava nel suo lettino nel tentativo di prendere sonno. Com’era la vita prima di nascere, tra le stelle? Riusciva a ricordare qualcosa di quel mondo? Come aveva fatto ad arrivare sulla Terra, nel pancione della sua mamma? Il delicato suono della pioggia sembrava evocare memorie lontane, e allo stesso tempo familiari; allora la bambina stringeva forte le palpebre dei suoi occhioni blu e, lasciandosi dolcemente cullare dal quel ritmo rassicurante, sembrava essere sul punto di trovare un’immagine proveniente dal passato. Qualcosa di morbido la avvolgeva quasi per proteggerla e, anche se non riusciva a capire bene di cosa si trattasse, percepiva un tocco soffice sulla pelle. Ma la bambina era stanca e tentare di recuperare quel ricordo le richiedeva molte energie: decise quindi di tornare alle sue certezze e al suo boschetto, frutto di tutto quello che il papà le aveva insegnato nel corso del tempo. Gli alberi in pochi anni erano cresciuti in modo sorprendente tanto da essere alti quanto lei, e anche di più. Nel profondo buio della notte, le piante più grandi stavano sicuramente proteggendo le più piccole perché, seppur distanti le une dalle altre, potevano stringersi in un tenero abbraccio tramite le loro radici. E gli alberi più saggi stavano di certo stringendo taciti accordi con dei graziosi uccellini, affinché disperdessero i loro semi in nuovi luoghi lontani. «Le piantine sono felici quando piove», pensò all’istante la bambina, trovando un’incantevole somiglianza tra il lieve suono della pioggia e quello altrettanto soave delle onde del mare. Iniziò quindi a fantasticare, con la naturalezza tipica dei bambini della sua tenera età, e si ritrovò nella profondità delle acque marine nelle vesti di una sognante sirena dai lunghi capelli. D’improvviso, da quella insolita prospettiva, vide galleggiare in superficie delle sfere voluminose e resistenti accarezzate dall’incessabile susseguirsi delle onde, in viaggio verso distanti spiagge sperdute. «Sono le noci di cocco» rifletté la bambina, «e possono sopravvivere in acqua. Il mare con tutta la sua forza le vuole portare lontano». Suo papà le aveva difatti narrato le proprietà di questo frutto e di come riusciva a diffondersi altrove grazie all’acqua del mare, trasportato in luoghi diversi da quelli in cui era nato. Ma poi la bambina si ricordò anche del lato oscuro dell’oceano: fu in quel momento che si ritrovò dinnanzi ad un enorme drago marino e allora, senza riuscire a trovare la forza di muoversi, gridò con agitazione «papà, papà, voglio teee, un mostro!». E come per incanto, il papà accorse con prontezza offrendole la sicurezza di cui aveva bisogno. In un’altra occasione la bambina avrebbe richiesto che le venisse raccontata una storia; questa volta prevalse il naturale impulso di lasciarsi confortare da qualcosa di conosciuto, in grado di consentire un repentino ritorno ad uno stato di serenità, forse una melodia continua e regolare. Recuperando così un fugace pensiero si decise a chiedere con scioltezza, fiduciosa nella risposta che avrebbe ricevuto: «Ripetiamo insieme la poesia che io e la mamma abbiamo pensato per te, per la tua festa?»
«…Con te giochiamo a nascondino, per scoprire il mondo da vicino. Con te creiamo boschi, per scoprire futuri tesori nascosti. Con te seminiamo piantine, per scoprire il potere delle nostre manine. Con te impariamo a viaggiare, per scoprire come ricevere e dare. Con te andiamo in montagna e al mare, per scoprire la natura da amare. Con te la notte ci svegliamo, per scoprire che sole non siamo…».
Con l’avanzare dei versi il tono delle voci diveniva sempre più flebile e al sussurro delle ultime parole seguì un profondo silenzio: finalmente arrivò il sonno tanto atteso, con tutta la sua calma apparente.
«…Caro papà super speciale tu ci insegni quanto è bello volare, perché dal tuo amore sicuro noi partiamo così ci insegni a diventare chi vogliamo!».
Il pomeriggio del giorno precedente la bambina e suo papà avevano raggiunto a piedi un luogo sacro, non distante dalla loro casa. Appena arrivati, un cartello appeso ad un palo di legno recitava così: “Benvenute e benvenuti nel parco condiviso. Stiamo piantando e prendendoci cura degli alberi. Loro in cambio ci donano ossigeno, contrastano l’emergenza climatica, proiettano ombra, creano umidità e generano un microclima che abbassa la temperatura. Gli alberi abbelliscono il quartiere e aumentano il nostro benessere psicofisico. Rispettiamoli, amiamoli, curiamoli…”. La bambina amava il boschetto creato dal suo papà, nel quartiere del paese in cui abitavano, e ora anche altre persone avevano iniziato a prendersene cura e a piantare nuovi alberi. Quando la bambina chiese il significato della parola “condiviso”, termine ascoltato innumerevoli volte ma ancora non del tutto chiaro, suo papà indicò un signore in lontananza intento ad osservare un acero campestre. «Vedi quel signore? Ha deciso di portare qui il suo albero, ed ora è anche l’albero di tutti. Quando vengo a controllare come stanno le piantine so che posso prendermi cura del suo acero, e lui come me può prendersi cura di tutto il boschetto». La bambina in apparenza mostrava un’aria distratta ma l’intenso scintillio del suo sguardo lasciava intravedere l’emergere di un’intuizione, messa a tacere prontamente da una semplice domanda: «Controlliamo i semini dell’olmo?». Un sorriso velato comparve inaspettatamente sul suo volto: iniziò infatti ad immaginare il giorno in cui il papà sarebbe andato nella sua scuola e avrebbe dato vita a quelle future piantine, insieme ai suoi compagni e alle maestre. Il papà la prese per mano, la condusse davanti ad un albero e disse con fermezza: «Voglio prima spiegarti il motivo per cui questo parco si chiama Boschetto Eva. Tutto è iniziato da questo albero, il Leccino. Io e la mamma lo abbiamo piantato per onorare la tua nascita. Le sue radici custodiscono la tua placenta». Allora Eva, colta dal desiderio di scoprire qualcosa di nuovo, chiese: «Papà, ma la placenta era con me anche prima di nascere, quando ero sulle stelle?». La notte stessa Eva si rigirava nel suo lettino nel tentativo di prendere sonno. Ascoltando il delicato ritmo della pioggia, cercava di ricordare com’era la vita prima di nascere, tra le stelle, cullata dalla placenta.
La mattina del giorno seguente, dopo una lunga notte ricca di sogni e ricordi, Eva scese correndo dal lettino, ricercò le calde braccia di suo papà e raccontò con eccitazione: «Papà… stanotte ero tra le nuvole e con me c’era anche la mia sorellina. Allora le ho detto…». A questo punto Eva prese del tempo per sollevare entrambe le braccia ben diritte verso l’alto e per alzare la gamba destra all’indietro, con il busto proteso in avanti mimando le gesta di un supereroe, per poi aggiungere: «Le ho detto “Vado prima io, va bene?”. Lei ha risposto di sì, sono diventata trasparente e una stella cadente è venuta a prendermi, per portarmi giù nella pancia della mamma. E così ho visto la placenta che mi ha stretta forte forte per farmi tornare visibile e per proteggermi; sai…assomigliava tanto al mio Leccino!». Dopo una breve pausa, interminabile agli occhi del papà, Eva aggiunse con aria riflessiva: «Papà, ho sognato anche la bisnonna che mi sorrideva e ho capito tutto: la sua placenta l’ha fatta diventare trasparente come ero io e così è tornata dove eravamo noi prima di nascere, tra le stelle».
Alcuni mesi prima Eva aveva perso la sua bisnonna materna, quasi centenaria, e nonostante l’inevitabile distacco, aveva potuto percepire il dolore provato dalla mamma e dal nonno per quanto avvenuto. Era la prima volta che la bambina si confrontava con la morte e una moltitudine di domande iniziarono ad assalire la sua mente, senza darle tregua. La mamma e il papà davano spazio ai dubbi e alle riflessioni che emergevano con forza; ma nonostante le rassicurazioni ricevute, alla fine la paura per qualcosa di incomprensibile prendeva il sopravvento e Eva, al termine di ogni discorso, riusciva solamente a gridare con il viso coperto dalle lacrime: «Ma io non voglio morire!». Nel tentativo di comprendere quella dimensione incerta, un vortice di pensieri prendeva il sopravvento: «Alla nonna piace essere vecchietta? Ma se nonna muore sparisce? E se sparisce, sparisce da sola? E poi diventa piccola? Anche i bambini spariscono?».
In una fresca mattina di marzo, dopo una lunga notte tormentata in cui forse aveva ripercorso il remoto passato, Eva aveva finalmente dato un senso al mistero della vita. Ed era riuscita a farlo in autonomia ricorrendo al potere della sua vivida immaginazione: aveva solamente bisogno di tempo per creare un ponte tra ciò che era prima e ciò che sarà dopo. Ora Eva, grazie al suo Leccino, poteva davvero credere alla storia che aveva narrato perché aveva scoperto tutto da sola, senza imposizioni altrui. Difatti in un’occasione aveva affermato con decisione, rivolgendosi alla mamma, «io ascolto la testa mia non la testa tua!». La sua storia raccontava che c’è un punto di partenza e un punto di ritorno. Tra le stelle.
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