Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2025 “Ombrelli” di Matteo Maniero

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Pioveva, di nuovo.
Tommaso camminava lungo il marciapiede, poggiando un piede sul cordolo e un piede sulla strada, apparendo buffo, quasi gobbo, ai passanti che, per caso o distrattamente, lo avessero notato. Sembrava stesse facendo uno strano gioco di equilibrio. Indossava dei pantaloni di stoffa grigi, come l’asfalto su cui incespicava, usurati ormai da tempo; un maglione col cappuccio tirato in testa, anch’esso logoro e sporco, e una giacca beige troppo piccola per coprire le braccia fino ai polsi, lasciando uscire di fuori le maniche sfilacciate del maglione, anche lui di una tinta grigio topo. Un pastello in bianco e nero sotto la pioggia. Acquarello tenue, sbavato lungo i bordi.
Le automobili procedevano in un flusso continuo, quasi ipnotico, consueto come il tragitto mattutino che le portava al lavoro. Gente molto più colorata di Tommaso, almeno esternamente, ma forse non meno grigie dentro l’anima.
Anche lui un tempo aveva un’automobile, un lavoro e dei vestiti colorati, e tutte le mattine con quella stessa automobile si infilava nel traffico per andare in fabbrica. Ma erano tempi lontani, sbiaditi e ingrigiti come il cielo di quel mattino. Tommaso non ci pensava più ormai, la sua mente faceva fatica a collegare il prima e il dopo, non funzionava più come avrebbe dovuto, o come il resto del mondo avrebbe voluto.

Finito il marciapiede che costeggiava la rete di recinzione di un capannone in disuso, Tommaso restò per un istante immobile, insicuro su come procedere. Volse lo sguardo a sinistra, vide le strisce pedonali e orientò il suo passo verso la carreggiata. Un’automobile rossa frenò di colpo per farlo passare, lui se ne accorse un attimo dopo, come se il suo pensiero fosse in differita rispetto alla realtà. Sollevò la mano sinistra per chiedere scusa e attraversò il più rapidamente possibile la strada. Dall’altro lato la tettoia in plastica ricoperta di graffiti di una fermata dell’autobus, gente che aspettava ammassata lì sotto per non stare alla pioggia. Tommaso intuì che la sua presenza non era gradita, e anche se avrebbe voluto ripararsi un po’ e magari sedersi, continuò oltre, con lo sguardo sempre puntato sull’asfalto, come se volesse vedere cosa c’era sotto, attraversarlo come un laser.
Più avanti c’era una scuola media, o forse erano elementari? Non importava, Tommaso non riusciva a ricordare e comunque non faceva nessuna differenza. Vedeva le auto parcheggiate, in doppia fila, il riflesso delle quattro frecce nelle pozzanghere basse. Le mamme – e qualche papà – che accompagnavano i figli sotto ombrelli che mostravano immagini colorate di supereroi, personaggi di fumetti o di cartoni animati che lui non ricordava di avere mai visto. Ricordava però di essere stato bambino un tempo. Un tempo molto remoto. Almeno lui pensava lo fosse: la vita gli aveva appesantito gli anni sulle spalle, facendoli sembrare di più, moltiplicandoli, elevandoli a potenza. Ogni anno come due, cinque o dieci. Non sapeva più dire quanti ne avesse o da quanto vivesse in quel modo, per la strada. Documenti non ne aveva in tasca, né soldi. Né sogni. Ma bambino lo era stato, un bambino felice e colorato, con un ombrello con l’immagine di qualche cartone animato che non ricordava più, e una mamma che lo accompagnava a scuola per mano tutte le mattine. Lo ricordava come una scossa, un’interferenza nella sua mente consumata. Ricordava anche la nonna, con lei passava i pomeriggi quando la mamma era al lavoro. La nonna cucinava spesso. O puliva casa. Era una cuoca eccezionale, faceva di tutto: dagli antipasti ai dolci. A Tommaso piaceva più di ogni altra cosa la torta Pasqualina con le uova e gli spinaci. Ricordava ancora il suo sapore, anche se non riusciva a collocarlo in un ricordo specifico, nitido. Solo qualche fotogramma confuso. Ricordava anche un gatto, anzi due. Ma uno era sempre fuori casa, tornava solo per mangiare e dormire. Non sempre per dormire però. Questo ricordava, in effetti non molto, ma abbastanza per lui.
I ricordi erano pesanti da portare, fardelli che lo piegavano ancora di più verso l’asfalto bagnato. Meglio non averli, meglio abbandonarli per alleggerirsi un poco. Zavorre da sganciare da una mongolfiera per provare a sollevarsi. Passò davanti alla scuola senza che nessuno lo notasse o desse segno di farlo. Del resto, si mimetizzava bene con il colore e l’umore della giornata.

Passeggiava, lento come faceva sempre, senza una apparente destinazione. Svoltò ancora l’angolo dopo la scuola, e poi un altro angolo l’isolato successivo. Passò davanti ad un’officina meccanica, a un bar, un lavaggio auto chiuso, per via del brutto tempo, un paio di concessionarie d’auto e un’altra officina. Al termine della strada girò a destra in un piccolo sentiero sterrato che costeggiava la via principale, verso il cavalcavia dell’autostrada. Tommaso ricordava che andava spesso a giocare vicino a un cavalcavia, da piccolo, con gli amici. Ricordava che ci andava in bicicletta, una bella bicicletta, forse blu o gialla, non ricordava. Era una di quelle con tante marce. Però lui non riusciva a fare le impennate come i suoi amici. A fianco del cavalcavia ricordava un piccolo boschetto dove facevano anche dei picnic tutti insieme. A volte giocavano a nascondino, lui era piuttosto magro e si nascondeva bene dietro ai fusti degli alberi. Era successo almeno cento anni prima.

Anche oggi era magro, forse anche di più. Mangiava poco, solo quando riusciva a trovare qualcosa tra i rifiuti. Non chiedeva mai elemosina, se ne vergognava. Forse però non si vergognava del gesto, ma della sua condizione. Chiedere elemosina significava riconoscere quello che era, e lui non riusciva a sopportarlo. La gente lo guardava di sfuggita, senza mai incrociare lo sguardo. Era brutto da vedere, sempre con quei vestiti sporchi e vecchi. Puzzava, ma non aveva modo di lavarsi e non aveva altri vestiti. Si sentiva strano, ma cercava di non pensarci. Matto. Gliel’avevano detta tante volte quella parola, quando aveva un lavoro e una casa. Tu sei matto. Lo dicevano senza rendersi conto di ferirlo, per giudicare i suoi comportamenti. Lui non sapeva se fosse davvero così, ogni tanto ci pensava, sempre meno per la verità, e non riusciva a capire. Matto era una parola che non significava molto per lui. Lui era Tommaso, di questo sì, ne era certo, ma matto non sapeva dirlo. Non era in grado di definirlo. O forse lo era stato prima. I pensieri erano confusi. Meglio lasciarli.

Sotto al cavalcavia si tolse il cappuccio fradicio. Capelli radi, leggermente mossi, castani e grigi, che lo facevano apparire molto più vecchio di quanto fosse in realtà. Si lasciò quasi cadere a terra, con la schiena contro il cemento di un pilone. Prese dalla tasca un mezzo panino al salame che aveva recuperato da un cestino la sera prima, ma che aveva conservato per il pranzo del giorno dopo, e lo addentò stancamente. Non era male, anche se il pane era un po’ secco. Una volta era riuscito a trovare un mezzo hamburger del McDonald’s ancora tiepido dentro al suo cartone. Il più delle volte però trovava cibo immangiabile o troppo rovinato. In primavera riusciva a rubare qualche ciliegia da un albero i cui rami carichi di frutta sbucavano dal muretto di un’abitazione poco lontana. In autunno invece trovava facilmente dei prataioli intorno alla zona industriale, anche se una volta ne aveva mangiati di un tipo che gli avevano fatto venire mal di pancia per due giorni. Non era molto esperto di funghi, e da allora aveva deciso di non rischiare e di lasciarli perdere. Finito di mangiare il mezzo panino al salame, chiuse gli occhi e si addormentò.

Fu la frenata a svegliarlo, o le ruote che sterzavano sullo sterrato. Quanto aveva dormito? Un minuto o un’ora, non ricordava. Vide un’automobile rossa, ferma lì a pochi metri dal cavalcavia, con i fari accesi e i tergicristallo che andavano su e giù. Vedeva la pioggia iridescente, riflessa davanti ai fari accesi, era un’immagine piacevole, quasi confortante. La portiera del guidatore si aprì e ne uscì un ombrello rosso chiuso che subito si aprì verso il cielo. Sotto l’ombrello uscì una figura femminile, forse, ma Tommaso non la vedeva bene da lì, per colpa la luce abbagliante dei fari che lo costringevano a socchiudere gli occhi. La persona parlava, stava dicendo qualcosa, Tommaso ci fece più attenzione. Stava chiamando il suo nome? Vide che usciva dall’auto con in mano un sacchetto e un altro oggetto, ma non capiva cosa fosse. Sentì ancora il suo nome mentre la ragazza si avvicinava. «Tommaso? Sono Claudia, ti ricordi di me?» Claudia, era il nome della ragazza, ma lui non ricordava di averla mai vista. E lei come sapeva il suo di nome? Pensieri affollati comparvero all’improvviso nella mente di Tommaso, quasi gli facevano male. La ragazza stava ancora parlando, ma lui era intento a cercare una via d’uscita dal groviglio che si era creato nella sua mente. Lei gli stava porgendo il sacchetto e l’altro oggetto che ora vedeva essere un piccolo ombrello. Tommaso allungò le mani meccanicamente per prendere ciò che gli veniva dato. Nel sacchetto c’erano dei panini, poteva sentire l’odore di prosciutto e di salame, e due bottigliette di acqua. La ragazza stava ancora parlando, ma lui riuscì a recepire solo poche parole confuse. Classe… terzo banco… lavorare… davanti la scuola… Era tutto confuso. Claudia gli sorrise e lo salutò con la mano. «Ci vediamo» gli disse mentre se ne andava. Tommaso osservò l’auto fare manovra, i fari spostare il loro raggio verso la strada e il rumore del motore affievolirsi man mano che l’auto si allontanava. La mente era ancora confusa. Aprì il sacchetto e osservò meglio. Insieme ai panini c’erano anche delle confezioni di cioccolata. Ne prese una, l’aprì e gli diede un morso. Da quanto tempo non sentiva il gusto della cioccolata? Un senso di piacere gli pervase tutto il corpo. Sospirò e si appoggiò meglio al pilone. Stava ancora piovendo, ma ora aveva l’ombrello che gli aveva lasciato Claudia. Era un ombrello rosso a quadri più scuri, niente supereroi o cartoni animati. Peccato, pensò mentre lo apriva e lo osservava meglio. Richiuse l’ombrello e lo ficcò dentro al sacchetto insieme ai panini, alla cioccolata e alle bottigliette d’acqua. Ci fece due nodi al e lo mise sotto alla giacca, come a volerlo proteggere, poi richiuse gli occhi.

Ci vediamo, gli aveva detto. Era la prima volta da chissà quanto tempo che qualcuno si rivolgeva a lui così. Mentre scivolava nel sonno, una scintilla di calore gli si accese in petto, una sensazione di benessere quasi, come non ricordava di avere mai sentito prima. Sotto alle palpebre vedeva ancora il suo volto mentre scendeva dall’auto e gli si avvicinava sorridendo, con il sacchetto e l’ombrello in mano. Le sorrise anche lui, ma non sapeva se in sogno o nella realtà, il ticchettio della pioggia lo stava trascinando dal dormiveglia al sonno. E mentre abbracciava il sacchetto sotto la giacca, dalle labbra gli affiorarono due parole che solo la pioggia potè sentire; lui stesso non se ne rese conto. Due parole che lo cullarono, dolcemente, come un morbido miele, facendolo definitivamente cadere in un sonno tranquillo. «Ci vediamo».

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2 commenti »

  1. Era un po’ triste, ma poi è finito col cioccolato. Il cioccolato è sempre un lieto fine

  2. Intenso senza essere retorico. Bello l’uso della pioggia come filo conduttore

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