Premio Racconti nella Rete 2025 “Il re dei Cimmeri” di Luigi Operno
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025La ragazza di fronte a me trema, forse, per il freddo. Ha gli occhi arrossati, forse, dal pianto. Mi muovo per andare a prendere un po’ di legna e accendere il camino. Vedere soffrire una bella fanciulla mi incupisce.
Sono sempre stato di indole mite, per nulla vendicativo, generoso. Ho sempre cercato di accontentare gli altri piuttosto che me stesso. Ho sempre cercato di mantenere l’armonia in famiglia e per questo ho messo molte volte da parte i miei desideri, specie con i miei fratelli e le mie sorelle. Quando morì nostro padre, per non litigare tra noi, decidemmo di dividerci il regno. Io come primogenito avevo il diritto di scegliere per primo, ma non lo feci valere. Non volevo attirarmi l’odio dei miei fratelli, volevo che trovassimo un po’ di pace in famiglia. Per questo decidemmo di tirare a sorte, per troppo tempo eravamo stati costretti a stare lontano uno dall’altro. A me toccò la Cimmeria!
Non dissi nulla, abbracciai i miei fratelli, baciai le mie sorelle e subito partii. Quando arrivai rimasi colpito dall’oscurità e dalla nebbia che avvolgevano tutte le terre della Cimmeria. I miei sudditi erano talmente abituati a questa oscurità che sembravano loro stessi delle ombre, con i loro visi bianchi di mortale pallore. Nessuno dei miei fratelli è mai venuto a trovarmi, adducendo scuse su scuse, anzi dimostrando una fantasia che mai avrei pensato essi possedessero. Hanno sempre da fare, sono re molto impegnati. Che stolti! Come se non sapessi delle loro fughe per niente regali e delle loro debolezze fin troppo umane! La famiglia…ma quale famiglia? Quali fratelli? Quali sorelle? “Questi sono parenti? Ah, che belle parient’! Teng’ e parient’! ” diceva lo zio Pasqualino in quella celebre Natale di quel commediografo partenopeo.
Mi hanno lasciato solo. Nemmeno una telefonata, un messaggio su whatsapp. I miei unici compagni per anni sono stati un cane, deforme tra l’altro, e un nocchiere che si fa pagare, di nascosto, il trasporto da questi poveri disgraziati che vengono a cercare asilo nelle mie terre. Non per vantarmi ma io sono stato un precursore dell’accoglienza dei popoli: noi non rimandiamo a casa nessuno. Solo una volta ho mandato via una sposa per ricongiungersi col povero marito, un musicista. Anche se poi è morta sotto lo sguardo innamorato del marito. Ormai vivevo in una condizione di perenne solitudine. Non solo la famiglia ma anche i sudditi hanno iniziato a non chiamarmi più, a non pronunciare nemmeno il mio nome. Col tempo i miei occhi si sono abituati all’oscurità, le mie orecchie al silenzio, io alla solitudine. Fino a che non vidi lei! Da allora, tutto mi divenne insostenibile. Il rimbombo dei miei passi, l’eco delle mie parole, le sedie vuote nel mio palazzo. Io volevo lei.
Le portai in dono il fiore più bello, le sue amiche quando mi videro ebbero paura, iniziarono a urlare, a scappare. Come dargli torto? Cosa mi era saltato in mente? Come potevo presentarmi a lei? Mi osservai nelle acque come Narciso, ma quello che vidi mi disgustò. Ero diventato vecchio, canuto, barboso e pallido. Non sapevo nemmeno più parlare. Come potevo lodare la sua bellezza? Come potevo dichiarare il mio amore? Lo so, ho compiuto un atto terribile. Il rapimento è un atto vile ma mi sembrò l’unica cosa da fare per portarla con me. Per un attimo, pur commettendo un atto atroce, mi ero sentito di nuovo vivo! Eccola, di nuovo con il petto scosso dai singhiozzi. Appoggio la cesta a terra, metto la legna nel camino.
– Ammetti, però, che sono stato gentile. Potevo prenderti con la forza ma non l’ho fatto. Tua madre ora si dispera e ha ragione. Come è venuto in mente a me di rapire mia nipote? Sono stato accecato dalla tua bellezza e spinto dalla mia disperata solitudine. Ma ora voglio riparare a tutto il male fatto, voglio riportare la serenità nella famiglia. Dannata famiglia! Noi fratelli abbiamo sofferto tanto a causa di nostro padre, che divorava la nostra vita, feti morti nella pancia del suo potere. Non voglio essere come lui, non voglio vedere soffrire né te né tua madre. Ho promesso, partiremo subito, ci aspettano ad Atene. Sono nove giorni che piangi e sei digiuna, mangia un po’ di questo melagrana, ha un ottimo succo.
Oltre al melagrana gli porgo un fazzoletto per asciugarsi quegli occhi bui come la stanza in cui sono. Nei suoi occhi intravedo un luccichio, forse, dovuto alla mia promessa. Potrei quasi azzardare che mi sia riconoscente, quasi. Il disprezzo si è trasformato in dispiacere per quell’uomo la cui solitudine la afferra fino a farle mancare il respiro. Prende avidamente dei chicchi del melagrana, chiude gli occhi per poter meglio assaporarne il succo dopo il lungo digiuno. “Così si compie la legge del Destino per cui chi mangia cibo nel regno dei morti non può più abbandonarlo” sentenzia mio fratello che ha assistito alla scena. Mia sorella, la madre della fanciulla si dispera, accusa, minaccia. Mio fratello, allora, tuona la sua risoluzione del problema. La fanciulla starà sei mesi con me e sei mesi con la madre. La soluzione mi sembra giusta, le parole mi hanno accarezzato, ne ho sentito quasi il calore. Mi torna alla mente il film La grande bellezza: adoro Gep, le sue giacche sgargianti, mi piacerebbe ora indossare quella gialla, mentre mi avvicino alla mia futura sposa.
– Hanno ragione i poeti, l’amore a volte è eterno. Allora, Core mia, che questa storia abbia inizio, del resto come tutti i racconti, è solo un trucco.
Lei mi guarda, si alza e mi porge la mano in posa regale: ha deciso di essere la mia regina. E per la prima volta e, forse, l’ultima sul mio volto compare un sorriso.
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