Premio Racconti nella Rete 2025 “Corinna e il Maestro” di Sonia Benassini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Mi chiamo Celide, ma per tutti sono Corinna. Non sono la Corinna dei salotti eleganti, quella che avrebbe fatto perdere la testa al giovane Puccini. Io sono un’altra Corinna, con braccia robuste avvezze al lavoro e una mente pratica e concreta—perché da queste parti, la vita si affronta così.
Sono l’ultima di dieci figli. Mio padre, un uomo severo, ogni sera leggeva la Bibbia ad alta voce, scandendo ogni parola con attenzione. Da lui imparai la disciplina del lavoro e il valore della fatica. Ogni giorno mi diventava più chiaro che, oltre ai sogni, nella vita servono mani forti e una testa dritta.
Nelle sere d’inverno ci radunavamo attorno alla stufa, alimentata dalla poca legna raccolta, cercando calore e ascoltando la sua voce profonda. Mia madre, sempre indaffarata, preparava la cena: spesso una minestra arricchita con le erbe selvatiche che raccoglievo nei campi. I suoi gesti, pazienti e precisi, mi colpirono fin da bambina; fu accanto a quella stufa che imparai le prime nozioni di cucina, osservandola trasformare il poco che avevamo in piatti capaci di darci conforto.
Quando arrivò il momento di decidere il mio futuro, mio padre non c’era più. La responsabilità della famiglia gravava ormai su mio fratello maggiore, uomo pratico e intraprendente, sempre alla ricerca di un modo per andare avanti in quei tempi difficili. Convinto che solo il lavoro e il guadagno fossero la chiave per superare ogni ostacolo, mi trovò un posto alla villa di Chiatri. Fu lì che iniziò il mio legame con lui: il Maestro.
Eh sì, Giacomo Puccini l’ho conosciuto davvero. Nella villa che si fece costruire a Chiatri, quando Torre del Lago aveva perso la sua quiete. Il fragore delle industrie e l’odore di torba avevano spazzato via la serenità che un artista come lui desiderava. Così venne a Chiatri, nella villa arroccata sulle colline, con i mattoni rossi e le grandi finestre affacciate sulla pianura, da cui si poteva scorgere prima il lago e, più in lontananza, il mare. Nei giorni limpidi, si potevano persino intravedere le isole: Capraia, Gorgona e la Corsica.
Ricordo bene quei giorni. Noi giovani trasportavamo i mattoni per costruire la villa—i maschi sulle spalle, noi ragazze sulla testa, come si usava allora. Avevamo poco più di dieci anni, ma già conoscevamo la fatica. Il Maestro, conquistato da quel luogo e dalla sua quiete, impaziente di vedere la casa ultimata, ci dava «un soldo per mattone».
Arrivava avvolto nella sciarpa, con il cappotto e il cappello, in groppa al mulo, dopo aver lasciato l’auto parcheggiata nel garage alle Vallilunghe. Noi ragazzi lo accoglievamo con entusiasmo, ma lui, impassibile, si limitava a un cenno della mano, senza mai sorridere. Nei pomeriggi d’estate passeggiava nei suoi tenimenti, fermandosi spesso su un poggio, le gambe distese, una mano dietro la schiena, sempre con la sigaretta in bocca. Da lì osservava le mietitrici al lavoro e scambiava qualche parola con gli uomini.
Una mattina, il Maestro venne accompagnato dai suoi amici, e avevano fatto una colazione improvvisata sul prato verde del podere. Lui, come sempre al centro della scena, parlava di sogni e di futuro, e l’atmosfera era eccitata come prima di una grande avventura.
Ricordo bene quando due degli uomini lo sollevarono a braccia, quasi come fosse un rito. Con un fazzoletto legato a una canna come bandiera improvvisata e l’obiettivo fotografico pronto a immortalare il momento, Puccini venne portato sul luogo stabilito per la costruzione. Raggiunto il punto esatto dove la villa avrebbe preso forma, si chinò e afferrò una pietra.
“Alea iacta est”, disse con un sorriso sulle labbra, lanciandola con forza tra gli urrà vigorosi di tutti. Il dado era tratto.
Io non capivo il latino, ma sentii che quelle parole avevano un peso, un significato speciale.
Quando la costruzione fu completata, mio fratello mi trovò lavoro in cucina. La musica del Maestro accompagnava le mie giornate mentre sfaccendavo. Con le mani sporche di farina e il grembiule stretto intorno alla vita, mi fermavo un istante ad ascoltare quelle note. Poi, naturalmente, tornavo al mio daffare. Avevo rispetto per quell’uomo, certo. Ma non ero una da lasciarsi ammaliare. Io col fuoco ci cucinavo, mica ci giocavo.
Quella casa divenne per lui un rifugio, un luogo dove ritrovare la pace, respirare l’aria pura delle alture e lasciarsi ispirare. Nel silenzio di quel paesaggio, tra pini e cipressi, nacquero le sue melodie. Cercava sì la serenità, ma forse, senza nemmeno accorgersene, anche un calore più intimo: quello della legna che ardeva nel camino, del pane appena sfornato, del mio passo discreto che si muoveva dalla cucina alla sala. Cercava una casa. E io, con la mia semplicità e dedizione, riuscivo a offrirgli quel senso di accoglienza che, in fondo, persino un genio come lui desiderava.
A Chiatri, nel silenzio delle colline, nacque parte della sua Fanciulla del West, un’opera intrisa del fascino di terre lontane, aride e selvagge. La sera, e persino di notte, le note della sua musica si diffondevano nell’aria, uscendo dalle finestre aperte della villa. La serenità di quel luogo nutriva la sua creatività, trasportandolo altrove. Di tanto in tanto si affacciava sul terrazzino, scrutando l’orizzonte: prima il lago, poi il mare distante, in cerca d’ispirazione. Poi rientrava e si sedeva al pianoforte, e il silenzio si scioglieva sotto il tocco delle sue dita.
Il mio palcoscenico era la cucina della villa di Chiatri, dove il Maestro e chi gli stava accanto diventavano il mio pubblico. Il mio applauso si nascondeva nel tintinnio dei piatti appena lavati e nel profumo caldo del ragù che riempiva l’aria. Forse, chissà, anche in qualche nota del Maestro, nata mentre mescolavo il sugo o davo forma al pane.
Non era facile, lo ammetto. Bastava vederlo passeggiare nel giardino nelle giornate estive, avvolto nel suo abito impeccabile e con il panama bianco in testa. Il contrasto era evidente: da un lato l’eleganza e la modernità che lo accompagnavano, dall’altro la vita semplice dei contadini, con gli abiti rattoppati e le mani segnate dalla fatica. Sembrava appartenere a un altro mondo. E forse era davvero così. Aveva fascino e modi gentili, e una voce che ti scivolava addosso come una coperta calda. Ma io lo sapevo bene: al fuoco, come al Maestro, non conveniva avvicinarsi troppo.
Mio fratello Efraim—tutti lo chiamavano Frack—era il suo fattore. Durante gli anni in cui Puccini frequentò Chiatri, diventammo quasi una famiglia. C’era mia sorella Palmira che gli serviva da mangiare, e sua figlia Antonia che gli portava il caffè, guardandolo come si guarda un dio distratto. E io, in cucina, a far quadrare tutto.
Non era un uomo esigente a tavola: adorava i crostini che gli preparavo con pomodori freschi, un pesto di aglio e prezzemolo e un filo d’olio buono nostrano, sempre accompagnati dall’immancabile vino di Chiatri, il suo preferito.
Tranne quando l’arrivo di ospiti illustri metteva in moto la macchina dei preparativi. Una volta arrivò Mascagni, e il Maestro Puccini chiese un piatto che ci colse di sorpresa: le uova in fricassea. Io e Palmira ci scambiammo uno sguardo che diceva tutto—non avevamo la minima idea di cosa fosse.
Mandammo Antonia a chiedere spiegazioni. Tornò col viso arrossato e ci raccontò, divertita, che lui, ridendo, le aveva detto: “Ah, lo sapevo io che le chiatresi non erano buone a nulla!” Poco dopo, con il suo solito fascino, si presentò in cucina. Prese una padella, aprì una decina di uova e, dopo averle sbattute con energia, dichiarò: “Ecco le uova in fricassea!”
Non mi lasciai impressionare e, risentita, gli risposi con tono fermo: “Se era questo che voleva, bastava chiedere le uova… fracassate!” Risero tutti—Palmira, Antonia e persino il Maestro. Io, però, rimasi seria, ma sotto sotto lo ammiravo. E forse anche lui capì che davanti a sé aveva una donna che non si lasciava facilmente incantare.
Capitava spesso che Antonia e la cugina Serafina lo accompagnassero a valle, facendo su e giù sul sentiero ripido. Un giorno—lo raccontava sempre Antonia—lui si fermò quattro volte. Ogni sosta era accompagnata dalle stesse parole: “Si torna indietro.” Nonostante la fatica, le ragazze obbedirono. Poi, appena rientrato in villa, corse al pianoforte: l’ispirazione era arrivata tra i boschi e lui la inseguiva con l’urgenza di un amante impaziente.
Io ascoltavo quei racconti con un mezzo sorriso. Sapevo che quel genio, venerato da tutti, aveva bisogno di terra sotto i piedi, di mani che preparassero il pranzo, di una casa dove tornare. Di donne che non cadevano ai suoi piedi.
Perché noi donne eravamo tutte un po’ innamorate. Ma non nel senso che potreste immaginare. Era come amare il fuoco: lo guardi, ti scalda, ma sai bene che non ti ci puoi buttare dentro. Eravamo innamorate, non di un uomo, ma di ciò che lui rappresentava. Non c’è mai stato nulla. E se qualcosa c’è stato, non è stato con noi.
Un giorno, il Maestro smise di venire alla villa sulla collina. Era stanco delle promesse mai mantenute di costruire la strada che avrebbe reso più agevoli i suoi soggiorni. E forse sua moglie Elvira e il figlio Antonio contribuirono a spegnere quel desiderio. Chiatri ne risentì profondamente; era come se il paese avesse perso un pezzo della propria anima.
A tutti, però, rimase Puccini nel cuore, come un’eco lontana che non smette mai di vibrare. Con la sua musica e il suo carisma, il Maestro aveva lasciato in ognuno di noi qualcosa di indimenticabile, una nota profonda che continuava a risuonare nei ricordi e nelle emozioni. Anche quando le melodie si spensero e la villa sulla collina cadde nel silenzio, costringendoci a reinventarci per sopravvivere, il suo spirito rimase parte di noi.
Alla fine, molti di noi fummo costretti a lasciare Chiatri, spinti dal desiderio di ricostruire un futuro, proprio come aveva fatto il Maestro. Frack riuscì a mantenere viva la sua attività, trasformandosi da bottegaio in oste e aprendo una trattoria rinomata che portava il suo nome. Anche Palmira e la sua famiglia trovarono la loro strada nella ristorazione, inaugurando un locale accanto alla villa di Puccini a Torre del Lago. Io, invece, mi spostai a valle, nel paese di Bozzano, dove iniziò un nuovo capitolo della mia vita.
La mia storia, così diversa da quella dell’altra Corinna, non appartiene ai salotti eleganti né alle pagine dei libri. Ma certe storie non hanno bisogno di clamore per lasciare un segno. Si celano nelle pieghe più profonde della memoria, in attesa che qualcuno le scopra e le racconti.
Complimenti, hai dato vita alla storia di Chiatri.
Molto bello, elegante e sensibile. Complimenti.
Molto carino. Leggero e tenace.