Premio Racconti nella Rete 2025 “Con i tuoi occhi, con le tue ali” di Marta Reder
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025
Vola, vola. Da lungo, lungo tempo. Le sue ali, ormai irrigidite, la mantengono in aria soltanto per
inerzia. Vorrebbe posarsi, ma non c’è alcun ramo d’albero, sporgenza rocciosa, lembo di terra o
anche edificio su cui possa adagiarsi per riposare. Non resisterà ancora molto. Il vento gioca ad
arruffare le sue penne intirizzite, mentre gli occhi sono appannati da una foschia di morte. Con uno
sforzo immenso cambia posizione per immettersi in un’altra corrente d’aria, nella speranza che
possa sostenerla ancora per un po’. Il cambiamento le provoca una lieve sensazione di distensione,
così dispiega le ali rattrappite e si abbandona al rinfrescante piacere della brezza momentanea.
Quasi non percepisce più né il calore né il freddo, eppure quell’inaspettato e benefico refolo
risveglia in lei improvvisi e dolci ricordi di ombrosi boschi pervasi dall’aroma di pigne e foglie
secche, brillanti radure velate di rugiada e azzurri di cieli infiniti. Chiude gli occhi e si immerge
nella nostalgia, affidandosi all’aria.
Riaffiora inaspettatamente da quella dimensione sospesa tra il ricordo e il sogno. Smarrita, ma allo
stesso tempo rinvigorita, sbatte le ali un paio di volte, riprendendo coscienza del suo corpo. Un
istinto la spinge a guardare in basso, ma si aggrappa alle sue ultime energie per non cedere al
suadente richiamo dell’oblio che la caduta porterebbe con sé. Se cadrà, sarà perché non avrà altra alternativa, ma finché sarà in grado di mantenersi in volo, si opporrà con tutte le forze che le rimangono. E ha visto talmente tanti orrori da essere certa che, non appena abbasserà lo sguardo,
precipiterà inesorabilmente.
Non vuole cadere.
Vola, vola.
Il cielo che la avvolge sfuma in un morbido e discreto indaco, che si fa spazio in lei come una
tiepida carezza e la riporta ai giorni cui era semplicemente una tra le tante.
I primi tempi fuori dal guscio erano ammantati da un caldo abbraccio sonnolento, sferzato di tanto
in tanto dalle gelide dita delle raffiche di vento che si insinuavano tra i ramoscelli del nido. Altre tre
creature implumi e pigolanti come lei condividevano le sue giornate scandite dal ritmo del sonno e
dei pasti. Un giorno una di loro, attratta dalla vastità del mondo che i suoi occhi avevano appena
cominciato a scorgere, si era sporta dall’intrico di erbe, giunchi e rametti ed era precipitata.
Si erano presto dimenticate di lei.
L’aria si fece più mite e delicata, l’azzurro del cielo più morbido.E giunse il suo momento. Si
affacciò dal nido, fremente. La vertigine del vuoto la atterriva e la attirava. Prima che potesse anche
solo distendere le ali acerbe, venne spinta giù con forza. La caduta sembrava infinita. Mentre
vedeva quel che era stato il suo mondo fino a quel momento allontanarsi sempre di più vorticando,
mentre veniva risucchiata nella spirale di cielo che si avvolgeva intorno a lei, desiderò dissolversi
nel turbine d’aria che l’aveva inghiottita. Ma quando il suolo cominciò a farsi pericolosamente
vicino, ecco che un impulso, fino a quel momento sopito, fece forza sulle sue ali affinché si
spiegassero e la sua natura trovò finalmente il proprio compimento.
Vola, vola. I ricordi sfumano e si confondono con le nuvole pallide e sfilacciate, muti spettri aerei.
La volta celeste si è fatta più scura dell’oceano. Quanta maestosa eleganza in quell’intreccio di onde
perennemente inquiete… Quale potente magnetismo nel guizzante rincorrersi di spruzzi d’acqua e
scintille di luce… Un giorno, durante la fuga, affascinata da quell’incessante danza di schiuma e di goccioline, si era tuffata bramosamente in quella dimensione che tanto somigliava al suo cielo. La
delusione era rimasta attaccata alle sue penne insieme al sale, mentre si allontanava, debole e
avvilita, da quell’ingannevole lusinga. Adesso però avrebbe soltanto voluto lasciarsi cadere e
affogare, teneramente accolta da acque amiche. Ma l’oceano era sparito, lasciando spazio a una
superficie irregolare e sterile, una pelle piena di graffi profondi come fosse e protuberanze rocciose,
una distesa di morte sulla quale, tra montagne di sabbia, detriti, relitti e rifiuti, agonizzavano gli
antichi abitanti dei mari.
Ecco, troppo tardi. Lei, creatura celeste, figlia dell’aria e dei venti, è attraversata da una profonda,
acuta, struggente nostalgia della terra. Non ricorda da quanto tempo duri il suo folle volo, ma
l’unica forza a sostenerla fino a quel momento in quell’affannosa fuga era stata la certezza che, se
avesse rivolto lo sguardo verso quel che aveva lasciato e che era irrimediabilmente perduto, sarebbe
stata la fine. Ma è stremata e quanto ancora la sosterranno le ali? E, soprattutto, dove potrebbe
trovare rifugio? Non c’è più nulla. Resta solo il cielo, trafitto dalle voci disincantate delle stelle.
Giunge l’alba, una rosa dai petali di nuvole e dal cuore dorato. Le sue dita di luce sollevano il velo
della foschia che nascondeva la terra alla vista. Il suolo eroso e spaccato implora pietà con un muto
grido disperato; quella stessa terra che è stata madre adesso accoglie nel suo abbraccio ormai sterile
le sue creature, abbandonandosi insieme a loro alla morte. Un mosaico di paesaggi devastati si offre
ai suoi occhi in tutta la sua desolazione: intere vallate denudate da tronchi di alberi divelti prostrati
sui loro fianchi; quei pochi laghi non ancora prosciugati ristagnano di liquidi bruni e nauseabondi;
focolai isolati, ultime lingue purpuree uscite dalle fauci di grandi incendi, offuscano l’aria con i loro
fumi soffocanti; perfino le catene montuose, un tempo inviolabili guardiani, espongono, sconfitte,
ferite che hanno modificato irreparabilmente i loro volti. E tra tutto questo, tra altissime piramidi di
macerie grigie e polveri, giacciono i figli di un pianeta che non c’è più. Perfino lei stenta a
riconoscere che quella è stata la sua casa. Cos’è accaduto? Come è potuto accadere? Ogni traccia
della bellezza di un tempo è stata spazzata via, definitivamente cancellata da una forza più potente
della natura stessa. Ormai non ha alcun significato interrogarsi sulle cause di tale terribile
devastazione, è tutto finito. Cumuli stremati di esseri morenti, creature selvagge e indomabili,
creature piccole e discrete, creature di ogni specie, animali e uomini sono riverse sulla superficie
dissanguata della Terra, come tracce di lacrime asciugate dal morso cocente del sole. Sul fondo di
crateri bruni pezzi di metallo contorto artigliano il cielo aspro e incolore. Grandi macchie di ruggine
divorano tutto quello di cui riescono a cibarsi. Tra ammassi di plastica semisciolta e lembi di sacchi
neri rilucono perlacei bagliori di ossa spolpate.
Una volta c’erano gli oceani, vastissimi e meravigliosi, c’erano le foreste, floride e verdeggianti,
c’erano i deserti, gialli e asciutti, c’erano le cime, candide e altere, c’erano i vulcani, i fiumi, i laghi,
le placide distese pianeggianti e le morbide colline. C’erano i pesci argentei e i delfini guizzanti e i
grandi cetacei, sovrani del mare; c’erano le scimmie festose e i serpenti sinuosi, i pappagalli dai
ventagli di piume multicolori; c’erano le pantere eleganti e snelle, i felini maestosi e scaltri;
c’eranole farfalle leggiadre, gli insetti laboriosi e i grilli melodiosi; c’erano i piccoli roditori svelti e
impauriti, le chiocciole pazienti e gli stormi di uccellini vivaci; c’erano gli imponenti elefanti e le
tigri ammalianti; c’erano le greggi mansuete e i cavalli indomiti, i fieri falchi e gli agili stambecchi.
Una volta c’erano le città brulicanti e indaffarate e i paesini sonnolenti sparsi per le campagne, i
borghetti arroccati sui colli e sui fianchi dei monti, le casette che si specchiavano negli occhi puri
dei laghi e i villaggi affacciati sul mare. Una volta c’erano gli uomini. Una volta c’era il mondo, ma
lei ancora non lo sapeva. Per tutta la sua esistenza aveva ignorato che cosa fosse la violenza, ma in
seguito la conobbe fin troppo bene.
Vacilla e perde quota. L’ha fatto. Ha guardato in basso. Cosa le rimane? Sente, sa che il suo volo
deve giungere a un termine. La vista le si appanna e ogni cosa si mescola in un turbine di chiazze
informi e vapori velenosi. Cosa succede quando si va incontro alla fine? Non può fare altro che
abbandonarsi alla morte che ha raggiunto tutti ormai, tutti tranne lei. Lei, né aquila né passero, né
regina austera e glaciale, né creatura gaia e frizzante. Lei, freccia di bronzo scoccata dal vento. Lei,
che non può fare nulla per salvare ciò che è per sempre perduto. Lei, la poiana, precipita.