Premio Racconti nella Rete 2025 “Terremoto” di Paolo Defendi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Era arrivata in tutta fretta e, dopo aver controllato fila e numero, aveva appoggiato la borsetta sulla sedia alla mia destra ed era rimasta in piedi a godersi l’ultimissimo filo d’aria. Dal suo sorriso ancora ansimante traspariva chiara la soddisfazione di chi avrebbe seguito l’evento fin dall’inizio. Ci eravamo riconosciuti al volo non appena i nostri sguardi si erano incrociati. Un paio d’anni prima avevamo scambiato due chiacchiere durante un noiosissimo evento con una scrittrice scozzese e mi aveva detto di essere una professoressa d’inglese a cui mancava un anno per andare in pensione. Questa volta era lì per Fois. Considerava la trilogia dei Chironi un capolavoro, mentre quell’altro non sapeva neanche chi fosse. La trilogia era piaciuta molto anche a me e mi era rimasto impresso anche quel Tracce durante il quale Fois aveva parlato dello svilimento del ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea.
Ma stavolta ero lì per quell’altro, per vendicarmi di quel messaggio: “Evento annullato: Tobias Wolff non potrà essere presente al Festival, pertanto l’evento di mercoledì 4 alle 21:15 è annullato”. Di questo scrittore all’epoca non conoscevo nulla, ma sul programma avevo letto che: “La sua proverbiale maestria nella difficile arte del racconto staglia il suo nome accanto a quelli di Hemingway e Carver”. Perciò, quale fan accanito dei racconto brevi, il biglietto per questo evento l’avevo acquistato per primo. Peccato che, a Festival non ancora iniziato, quel messaggio avesse rovinato tutto. L’incontro con Francesca Mannocchi non era poi bastato per cancellare la delusione. Meno male che in quell’edizione ero almeno riuscito a dedicare più tempo agli amici con cui ci si vedeva solo in occasione del Festival.
Ma adesso no, questa volta, tempo pochi minuti, e Wolff avrebbe iniziato a dialogare con il creatore della saga. Oltretutto, questo tuffo nella letteratura avrebbe colmato almeno per un’ora il vuoto lasciato da Laura, la mia ex ragazza, che mi aveva appena mollato per un noto avvocato della Milano bene. Per quanto fossimo innamorati, un magazziniere da milletrecento euro al mese non poteva certo permettersi la figlia di un affermato notaio con studio in uno dei palazzi storici più belli del centro.
Con quello stipendio, accendendo un mutuo al limite del sostenibile, ero riuscito a malapena ad acquistare un appartamento in Valletta Valsecchi, un quartiere che fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso aveva avuto uno sviluppo urbanistico quantomeno discutibile. Questa cementificazione selvaggia era nata dalla crescente richiesta di alloggi popolari. La confluenza in quella zona del ceto operaio era infatti in continuo aumento, grazie alle nuove opportunità di lavoro date dallo sviluppo industriale di tutta l’area della ex Montedison.
L’appartamento si trovava al quinto piano di uno dei tanti palazzi che avevo soprannominato Gli Obbrobri. Era dannatamente caldo d’estate e umidamente freddo d’inverno. Ma in quel mattino d’inizio settembre non avevo avuto né il tempo né la voglia di riflettere sul mio patrimonio immobiliare. Mi ero semplicemente chiuso la porta alle spalle e mi ero incamminato verso Palazzo San Sebastiano.
E ora eccomi lì, in fremente attesa degli autori. a chiacchierare con una signora conosciuta due anni prima. Il ragazzo in maglietta blu terminò la presentazione e finalmente Wolff, la traduttrice e Fois salirono sul palchetto e presero posto fra gli applausi. Fois iniziò a parlare, mentre l’anziana signora estrasse un ventaglio dalla borsetta, si girò su sé stessa e fece per sedersi.
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Fu proprio in quell’istante che una scossa di magnitudo titanica cambiò per sempre il volto di un’intera città.
D’un colpo mi ritrovai la signora in braccio e vidi Palazzo San Sebastiano crollare. Noi del pubblico riuscimmo in parte a salvarci, perché come al solito eravamo in mezzo al cortile. Ma per Fois, Wolff e tanti altri non ci fu niente da fare. Appena capii cos’era successo, mi alzai e, con una violenza che non mi conoscevo, mi scrollai l’ex professoressa di dosso. Poi, fra spintoni ben assestati e accenni di slalom, mi guadagnai l’uscita, senza preoccuparmi né dei morti né dei feriti.
Varcato il portone, svoltai a destra in direzione Palazzo Te, attraversai viale Risorgimento, proseguii lungo Piazzale Vittorio Veneto e, all’incrocio con viale Isonzo, presi la sinistra, puntando dritto verso il mio quartiere. Dopo essermi lasciato alle spalle ciò che restava del Martelli, arrivai all’Inferno. Valletta Valsecchi era sparita, al suo posto soltanto garage e brandelli di primi piani. E il mio palazzo non aveva fatto eccezione, se n’era andato insieme a tutti gli altri.
Passato lo shock iniziale, il comune dovette agire alla svelta.
Dopo aver richiesto lo stato di calamità naturale e aver fatto una stima approssimativa dei danni, riconvertì alcune strutture ad alloggi di emergenza e li assegnò suddividendoli per quartieri. Al mio toccò il Palasport. L’accoglienza era garantita per sei mesi, un tempo sufficiente, si sperava, affinché gli sfollati potessero trovare una soluzione alternativa.
A me bastò un mese.
Lavoravo nell’alto mantovano e il mio datore di lavoro aveva una ditta con pochi dipendenti. Eravamo in quattro, tutti single. Nel capannone, miracolosamente scampato a danni strutturali, l’ufficio era grande quasi quanto il magazzino. Il capo fece dare una sistemata al bagno, aggiunse qualche paratia e ci sistemo tutti quanti in questo nuovo Bed & Breakfast, che ribattezzammo subito B&B Fortuna: quattro singole e bagno in comune, vitto e alloggio da scalare dallo stipendio. Eravamo pronti a riprendere l’attività. Con un piccolo problema: l’economia si rimise in moto soltanto con tutto ciò che era legato alla ricostruzione. La mia azienda, che distribuiva lingerie e filati all’ingrosso, chiuse nel giro di qualche settimana.
In un colpo solo, avevo perso casa e lavoro.
*
Fu allora che decisi di trasferirmi a Milano.
Là il terremoto non aveva fatto grandi danni e sarebbe stato facile trovare un lavoro. All’inizio ne trovai uno con cui non riuscivo neanche a pagarmi l’affitto, ma mi dissi che era soltanto una questione di tempo.
Adesso mi sono sistemato per bene.
Di giorno, all’Opera San Francesco, posso trovare piatto caldi e appetitosi, docce bollenti e rigeneranti e vestiti morbidi e puliti che neanche a casa. C’è pure un ambulatorio per le visite e le cure mediche, inclusi psicologi e psichiatri che ti ascoltano come si deve. Tempo fa, sempre qui all’OSF, erano partiti anche con alcuni percorsi di Housing Sociale e Lavoro, tramite i quali contavo di ritrovare un lavoro decente, un alloggio dignitoso e una mia dignità sociale. Solo che i fondi son quelli che sono ed entrambi i progetti sono morti sul nascere.
Ma non mi lamento.
Per la notte, con tanta pazienza e un pizzico di furbizia, mi sono guadagnato il mio bel posto a Rogoredo, dove, non l’avrei mai detto, le mance sono inversamente proporzionali al numero di viaggiatori. Chissà, forse con meno persone siamo più visibili. A Milano Centrale, invece, si sta proprio male, ma fes fes fes, come dice il mio vicino di cartone. Lui è di Brescia e, adesso che ci penso, non gli ho mai chiesto qual è stato il suo terremoto. Comunque, tornando a Milano Centrale, l’ho provata per un mesetto e poi sono scappato via. È troppo affollata e hanno tutti una gran fretta. Non hanno né il tempo né la voglia di chiedersi se sei bravo a fingere o se sei un barbone per davvero.
Ultimamente, però, sto pensando di trasferirmi a Roma.
L’indigenza e l’età cominciano a reclamare un clima più mite e ho saputo che a Termini, anche se la lista di attesa è lunga, il turismo religioso richiama folle molto generose. Gli amici dell’Opera hanno già chiesto ad alcune organizzazioni legate più o meno direttamente al Santo Padre. Se mi va di lusso, non mi serviranno più neanche i cartoni.
Nell’attesa, mi sveglio di soprassalto e mi maledico per non aver messo la sveglia. Dev’essere andata per forza così, anche se ho ancora troppa birra in corpo per esserne sicuro. Ma adesso ciò che conta è l’orologio che mi dice che l’evento sta per cominciare.
Se salto caffè e doccia ce la posso fare.