Premio Racconti nella Rete 2025 “Scampoli di vita” di Antonia Carpinelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Mia mamma era una giovane e graziosa donna. Le piaceva cucire; non a caso faceva la sarta per la cooperativa. Ogni mese poteva lavorare cucendo solo alcuni metri di stoffa, assegnati con precisione. La fattura parlava chiaro: con quei metri – solo con quelli – si poteva creare. Non era ammesso sognare di confezionare vestiti immaginati e accarezzati dalla fantasia, fantasia che si nutriva di immagini sbiadite, immagini lontane.
La stoffa era quella, quella che passava lo Stato. Si faceva quel che si poteva, per garantire almeno un vestito buono a ogni membro della nostra piccola comunità.Mia mamma era un’ottima sarta, amava disegnare i suoi modelli, immaginava – almeno sulla carta – di arricchirli con decorazioni, linee e volute sinuose. Mia mamma era un’ottima sarta, ma aveva un solo vestito: ben fatto, grazioso, ma non pretenzioso. Non si poteva pretendere più di quello che ti concedevano. Con quegli scampoli dovevi creare, racchiudendo i sogni in un pugno di stoffa. Stoffa grezza, colori poco sgargianti, tessuti fatti di fibre poco docili all’ago… La seta, mai vista, mai accarezzata. Il raso? Quello sì, una volta, al matrimonio di sua cugina era riuscita ad ottenerne uno scampolo per fare un vestitino, delizioso nella sua semplicità.
Meglio non ricordare, o non svelare.Capitava, a volte, che qualche mamma ambiziosa le chiedesse di confezionare un vestitino: “Dashiuri, ci vuole poca stoffa, la bambina è piccola… Vorrebbe una gonnellina a ruota e una camicetta per il compleanno, potresti??? Poca stoffa ci vuole!” Dashiuri, mia mamma, annuiva portandosi l’indice alle labbra, in segno di tacere.Il giorno del mio compleanno – compivo 9 anni, lo ricordo bene – un febbraio freddo come solo nelle montagne del mio paese si sente, pungente e insolente, freddo che ti fa piangere. Quella mattina ero contenta: forse mia mamma mi avrebbe regalato un cappottino, sì, un cappottino come non ne avevo mai avuti, abituati come eravamo a coprirci con maglioni usati dai cugini, di taglie sempre troppo abbondanti.Il giorno del mio compleanno, le mani di mia mamma – mani abili, di sarta capace, mani laboriose e pronte a cucire – si ritrovarono incatenate. Lei, inerte e incredula; i poliziotti, risoluti.
Aprirono la porta del laboratorio della cooperativa per la quale lavorava, accusandola di aver rubato dei metri di stoffa. Quei servi del partito cominciarono a frugare dappertutto, salirono tramite una botola anche nel sottotetto. Quando allungarono le loro mani per frugare nel cesto dei panni sporchi, mia mamma disse: “Lì non troverete che cenci sporchi di cacca di bambini!” Mi sentii morire, mi sentii in colpa: io, la prima figlia, non avevo tolto e lavato quei panni la sera prima. Cercarono, ma non trovarono che qualche triangolo di stoffa e fili intrecciati da spazzare.Eppure andò, quella sera stessa, in caserma, trattenuta per accuse fondate su voci. Voci che la ritenevano responsabile del furto di qualche metro di stoffa: tanto basta per passare tre giorni in galera, con addosso lo stesso vestito e le stesse mutande di cotone grosso cucite a mano. Tre giorni in cui io, con negli occhi ancora il volto di mia mamma, mesto e inondato di maledetta rabbia, mi occupai dei miei quattro fratelli, consolandoli con storie inventate. Tre giorni in cui pregai che potesse tornare a casa presto, con indosso il suo straccio e il suo sorriso.Ci vollero mesi… e un vitello grosso per rimettere tutto a posto. Eppure non capivo perché mia mamma, pur essendo sarta e ladra di scampoli, avesse un solo vestito. Eppure non ho mai capito perché quelle voci… Eppure non ho mai capito perché il mio regalo di compleanno non l’ho mai ricevuto.