Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Arturo attraversa il 1977” di Luigi Michetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

A settembre, lo stesso anno, il ’77, accadde la stessa cosa. Vidi piangere mio padre ed io ancora ebbi paura. Ma lui e mia madre, quella volta, però, mi portarono con loro. Sempre acqua, ma di lago. Non mi lasciarono a casa di amici come quando era affogato Massimo dentro un mulinello di fiume a filo terreno, quello stesso dove Massimo di tanto in tanto buttava un occhio alle sue pecore, quelle del padre che erano tante. Era il 12 giugno avevo 11 anni e mezzo, uno in meno di Massimo. Era almeno un anno che non lo vedevo più, dalla quinta elementare, forse lui non aveva più continuato con la scuola. Sapevo solo che aiutava il padre. Quella volta era di mattina, da subito tutti sapevamo che era stato deposto nella chiesa cimiteriale, prima del funerale. Tante cose non mi vennero dette dai miei genitori. So solo che da allora non ho più visto Massimo.

Arrivammo che imbruniva, il corpo di Filippo era avvolto da un telo bianco. Sistemarono dei riflettori in attesa dell’arrivo del magistrato e del medico legale. Filippo avrà avuto 17 anni, sapeva disegnare veramente bene. I suoi genitori erano molto amici dei miei e spesso andavamo a trovarli la sera, lui non c’era mai, era più grande della sorella e dei due fratelli, usciva, poteva uscire, aveva il permesso di restare in giro per il paese fino a tardi. Io spesso giocavo a lotta greco-romana con suo fratello Marco, di due anni più piccolo di me, sul divano, un corpo a corpo che durava le ore, solo per il gusto di sentirsi vivi. 

Quel pomeriggio la notizia arrivò sul tardi, partimmo subito per il lago ma arrivati sul posto era già pieno di persone che si muovevano avanti e indietro senza una logica apparente, come api impazzite, lungo la scarpata del lago, ma qualcuno restava fermo, quasi impietrito. Il posto si trovava poco prima del paese. La luce dei fari riflettori colpì i miei occhi. Da una parte illuminavano uno spazio di quasi cento metri, facendo intravedere la sagoma del corpo di filippo sotto un telo bianco. Il giudice ancora non era arrivato, le persone cercavano di capire cosa fosse successo. Era consuetudine che questi quattro ragazzi di un paese vicino Collalto, tutti senza patente di guida, d’estate più di qualche volta andassero al lago per fare il bagno con un uomo sulla quarantina, amico dei loro genitori. Quella volta erano in cinque. Lui si tuffa, sparisce per un po’ e quando torna è solo il corpo di Filippo, senza tutto il resto. 

Cerco il senso di quella storia, di quella vita, mentre ballo, in questo spazio anonimo e rumoroso, dopo 48 anni, quando pochi mesi prima che Filippo se ne andasse, su un tavolo operatorio acciaioso e freddo alle 14 del 18 gennaio 1977, io ero morto. Il senso, il significato dell’aver sfiorato la morte più volte come quella volta con Marco, lui guidava sul piazzale del cantiere di famiglia e io seduto fuori del finestrino guardando, e urlando, nel verso opposto della direzione che teneva Marco, quando mi abbassai per rientrare e sedermi, vidi un piombo affusolato tenuto da un cavo d’acciaio che mi passò davanti mentre rientravo nella macchina. È stato un attimo, una frazione di secondo, un istante, che se solo avessi esitato a ritrarmi, il tempo mi avrebbe abbracciato e coperto con il suo mantello fatto di oblio. Come faccio a dire quale è il senso di tutto questo?  Ma che ci sto a fare ancora in giro quando l’esistenza di Filippo avrebbe potuto essere molto più interessante della mia con i suoi disegni perfetti?

Quel giorno Filippo era stato il primo a tuffarsi e la giornata per i cinque si fermo lì. Mi è rimasto il forte odore di morte dei giorni successivi, quando il corpo di Filippo era finalmente stato adagiato sul suo letto, poi dentro la barra. Quell’odore pungente di una giornata assolata non l’ho più dimenticato. Ho sempre affrontato tutto e di petto, magari anche male, ma quando si trattava di sparire, certo non me lo facevo dire due volte. Ho voltato le spalle a tutto e tutti, sono andato via, ma i ricordi di Filippo e Massimo non mi hanno abbandonato mai. 

Ora sono qui, in questa festa di carnevale, dopo 48 anni con il vuoto e l’angoscia profonda tra un ballo e l’altro con mia moglie, vestito da pagliaccio, a chiedermi il senso della vita, se ne ha? E anche stasera vado via prima, come per non imporre troppo la mia presenza.

Eppure quell’anno ero morto anch’io alle 14 del 18 gennaio 1977, il mio cuore si fermò per alcuni minuti. Guido Chidichimo Il cardiochirurgo che mi aveva operato sapeva che sarebbe potuta finire in quel modo, perché l’esito era nel difetto cardiaco che mi portavo fin dalla mia nascita. Tentò il possibile e in fine trovò la soluzione in un pacemaker temporaneo esterno, collegato con un elettrocatetere alla punta del cuore, che usciva dal mio petto sotto lo sterno. Era di colore azzurro, quel pacemaker, grande come una radiolina di allora, potevo metterlo in una delle due tasche della vestaglia quando tornai a stare in piedi e poter camminare. Allora non mi fermavo più, dal mio letto nel reparto di elettrofisiologia del quinto piano, per quasi un mese tornavo spesso nelle stanze dove ero già stato ricoverato, al quarto e al terzo piano, recuperavo amicizie, nascevano amori. Chidichimo, credo di non averlo più visto, ma ora lo ricordo bene, il chirurgo, soprattutto perché con quella sua pelata e le orecchie un po’ a punta somigliava a Fantomas, tranne per il colorito blu cobalto, la differenza stava nella fama planetaria dei due: Fantomas, personaggio dei fumetti diventato poi cinematografico, era un criminale pieno di risorse e colpi di scena, Chidichimo anche lui di fama mondiale, ma semplicemente salvava vite. Forse a me serviva dargli una dimensione fantastica, perché in fondo la mia esistenza dipendeva da lui, e allora era meglio non prenderci troppo sul serio. Tornato al paese, da metà dicembre ai primi di gennaio, continuai a chiamarlo Fantomas, però smisi di usare quel soprannome dopo l’operazione. Un giorno del 2015 incontrai un chirurgo, più giovane di Chidichimo, che lo aveva conosciuto quando si occupava di chirurgia generale, era affermato e già famoso. Questo medico gli diceva: «lascia perdere la cardiochirurgia. Il tuo posto qui al San Giacomo è esattamente quello che occupi con grande prestigio». Nonostante Chidichimo fosse un’eccellenza nella chirurgia generale, alla soglia dei suoi cinquanta anni cominciò a recarsi a Houston, sul finire degli anni ’50 ed i primi ’60, al Texas Heart Institute, ritrovo internazionale della cardiochirurgia. Andò lì più volte, avvicinandosi sempre di più alla nuova specializzazione. Un posto frequentatissimo dagli aspiranti cardiochirurghi di tutto il mondo, e quando i partecipanti superavano il numero massimo consentito, il Kid, così scherzosamente soprannominato dai suoi colleghi, seguiva l’intervento sdraiato sul soffitto di vetro della sala operatoria.

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