Premio Racconti nella Rete 2025 “Come piombo la neve” di Bianca Taragna
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Quell’inverno del ’47 la neve era arrivata presto. Cadeva come piombo e attecchiva di peso, sommandosi a quella già accumulata, e poi di notte gelava. Isolava tutto. Dovunque guardassi non vedevo altro che neve. Le curve delle montagne, i campi, i boschi, perfino le case sparse e i sentieri che le collegavano al borgo non si distinguevano più. Potevo soltanto cercare di ricordarli. E anche la strada sterrata non si sarebbe riconosciuta non fosse stato che per un viottolo stretto che gli uomini tenevano pulito facendo la rotta ogni poche ore. Le pareti di ghiaccio ai suoi lati si alzavano ogni giorno di qualche centimetro e i pochi passanti sembravano venire inghiottiti dal viottolo stesso. Anche quella mattina di dicembre fioccava abbondante, il cielo lattiginoso un tutt’uno con la montagna carica di neve. L’inverno era dappertutto, fuori e dentro la casa, e continuava a farsi avanti. Mi aveva strappato al rifugio del sonno il suono delle campane della chiesa che, a meno di mille metri da casa, suonavano a morto fomentando apprensioni e anticipando disgrazie. Tre rintocchi della campana maggiore della durata di un pensiero, e poi altri tre, e altri tre ancora, intervallati da silenzi. Sembrò che la montagna innevata franasse. Il numero dei rintocchi che vibravano lenti nella mia testa aveva annunciato la morte di un uomo. Mi ero chiesta chi fosse. Pensai che nessuno voleva morire d’inverno. Nessuno voleva calare i suoi morti in una fossa di terra scavata a fatica nella coltre di ghiaccio che aveva sepolto perfino le croci del cimitero. La morte era già così fredda di suo.
Più tardi avevo sentito i colpi secchi del pugno del sagrestano abbattersi con foga sulla porta, come se volesse sfondarla. Picchiò una, due, tre volte, poi ancora, sempre più rapido, gli intervalli ridotti, fino a farsi un unico, urgente rimbombo. Facendosi strada a fatica nel solco scavato nella neve attraversava il borgo per arrivare alla caserma nel capoluogo. Raccontò che era accorso al Greppo all’alba richiamato dalle urla della madre, che avevano lacerato la fitta cortina di bioccoli bianchi e avevano investito la chiesa e la sacrestia e fatto gelare il sangue a lui e a Don Folco. Cercando con foga il sentiero divorato dalle nevicate e sfondando le cavalle di bianco d’uovo montato che la furia bizzarra del vento aveva plasmato, lui davanti e il prete, stremato, di dietro, erano arrivati lassù. Poco dopo era sceso di nuovo fino al sagrato della chiesa, con la pala tra le mani aveva imboccato la strada principale, era passato sotto il cimitero, aveva superato la Fontana dei Morti dove un ostinato rivolo d’acqua sgorgava tra le candele di ghiaccio ed era finalmente arrivato alla nostra casa, la prima del borgo. Lì si era fermato per dare la notizia e per bere qualcosa di caldo. La faccia che sbucava appena come quella di un topo in preda alla fame dal tabarro di panno che lo nascondeva da capo a piedi, i cristalli sui fili di barba che gocciolavano e gli occhi ancora pieni di smarrimento. In piedi, pronto a ripartire all’istante, le mani allungate solo un momento sulla stufa e lo sguardo che cercava un po’ di conforto. La contadina, che abitava sotto di noi, e le donne vicine che dalle finestre lo avevano visto arrivare erano venute a sentire chi era morto. Lo sbigottimento passò insieme alla notizia di casa in casa, di podere in podere, di borgo in borgo, fino ad arrivare alla caserma, insieme e forse un po’ prima del sagrestano.
I fiocchi larghi e pesanti seguitavano a scendere dal cielo gravido ispessendo la coltre priva di crepe, di segni e di suoni. Io ero incinta di sette mesi e tutta quella neve che attecchiva e restringeva gli spazi mi faceva sentire ancora di più il peso e l’ingombro del mio corpo che con il passare dei mesi sbatteva dovunque. Andai in cucina per riempire la stufa. La legna era poca. Così mi buttai sulle spalle la mantellina di lana rossa e uscii col panierone di giunco per andare a prenderla in cantina, fuori, in fondo alle scale, sulla destra. La nostra casa si affacciava quasi sulla strada con una scala di pietra che dalla porta d’entrata, al primo piano, scendeva fin giù sul selciato. La scala era ripida e coperta da una tettoia che sporgendo la proteggeva dalle intemperie, ma non dal freddo.
Fu da lì, sulla soglia dell’uscio, in cima alle scale, che li vidi sbucare da dietro la curva. Tre figure macchiavano di nero il candore. Ora il viottolo veniva dritto verso la casa e potei vederli chiaramente.
I due carabinieri, alti, impettiti, l’uniforme nera e minacciosa, uno davanti, uno di dietro, e, in mezzo a loro, il ragazzo, minuscolo e chiuso nella capparella scura del padre dentro la quale il suo corpo infantile spariva. Poco più che un bambino, il viso livido, negli occhi lo smarrimento e la paura di chi non sa dove lo stanno portando, forse piangeva, mentre la neve fredda continuava a cadergli addosso senza dargli tregua, impietosa. Le manette, appena nascoste da un lembo della mantella, gli impedivano di scansarla dalle ciglia, dalla bocca, dalle guance imberbi. Procedevano in fila, i carabinieri con lo sguardo a terra, i cristalli lucenti che impregnavano e appesantivano le divise, forse attanagliati dal dubbio di stare facendo la cosa giusta, il ragazzo con gli occhi come finestre buie spalancate sulla massa candida. Venivano avanti senza fare rumore, sprofondando nella coltre che nessuno aveva ancora spalato. Anche le orme lasciate dagli scarponi pesanti dei due militari poche ore prima erano state cancellate dai fiocchi caduti per ore senza respiro. Il primo carabiniere alzava la gamba come marciando, per spianare la strada al ragazzo. Riconobbi Anselmo che con l’altro carabiniere lo seguiva impacciato come se incespicasse nella neve. D’istinto misi le mani sulla pancia, come a proteggere il bambino che avevo in grembo dal freddo e da quel senso di angustia che mi chiudeva la gola. Erano così silenziosi che se avessi guardato da un’altra parte non mi sarei accorta del loro passaggio. Continuavo a fissare il ragazzo e pensai al nostro mondo fatto di inverni senza odori né rumori che cominciavano presto e non finivano mai, di solitudini profonde e di violenze familiari di cui tutti sapevano e di cui nessuno parlava, tollerate come fatti ordinari. Anselmo era venuto a scuola da me solo pochi anni prima, quando insegnavo alla Carbona, in una pluriclasse di bambini che al ritorno da scuola andavano a sgobbare nei campi. Aveva fatto fino alla terza e poi era andato a lavorare la terra insieme ai suoi. Ripensai a quel bambino con la testa china, seduto in uno degli ultimi banchi, di poche parole perfino coi suoi compagni. Avrei voluto salvarlo, strapparlo ai carabinieri, levargli di dosso quelle scaglie di ghiaccio e portarlo dentro vicino alla stufa, ma non c’era niente che potessi fare per lui. Pensavo che sarebbero passati davanti a casa senza vedermi. Io, minuta come un pettirosso, soltanto le spalle avvolte nello scialletto fatto a mano, dai punti larghi, scomparivo in quella cornice di scalini opalini. Invece, poco prima di arrivare all’altezza della nostra casa, Anselmo rallentò e ruotò appena la testa nella mia direzione, quasi a cercarmi. Con un gesto rapido scostò il mantello scoprendo le mani strette nei ferri. Le sollevò con lentezza, come a fatica, e, piegando appena le dita della destra, disegnò nell’aria un saluto esitante e malinconico. Rimase un secondo così come se aspettasse che facessi qualcosa. Alzai la mano in un gesto altrettanto lento e malinconico. I nostri occhi si incontrarono e si riconobbero. Poi la capparella ricadde a nascondere ancora le mani infantili e Anselmo riprese a camminare guardando avanti con gli occhi di nuovo sbarrati. L’impressione di quel breve saluto restò li, in stallo nell’aria, per un poco. Mi ci aggrappai, e per un qualche secondo l’angustia che avevo provato si sciolse, come se un gesto di normalità avesse incrinato il peso irreale che incombeva da quando il sagrestano aveva portato la notizia. Almeno ci eravamo guardati. Ci eravamo visti. Forse in quell’istante lui non si era sentito più solo. Per un attimo il senso di impotenza mi scivolò via dal petto, lasciando spazio al respiro.
Mi chiesi a cosa stesse pensando, se al nostro incontro fugace, a ciò che si era lasciato alle spalle o a quello che lo stava aspettando. Aveva ammazzato suo padre quella mattina, poche ore prima. Non ce l’aveva più fatta. Quel padre padrone, prepotente e brutale, aveva di nuovo messo le mani addosso a sua madre e lui non lo aveva più sopportato. Questa volta aveva staccato il fucile dal muro, un grosso fucile americano rimasto lì dal fronte e sempre carico, e gli aveva sparato. Un colpo solo. Poi era rimasto come sospeso. Nemmeno un muscolo si muoveva, il fiato fermo a mezz’aria, entrambe le mani sull’arma, ancora puntata contro il padre. Gli occhi, incapaci di credere che fosse davvero successo, fissavano il corpo accasciato. Il respiro e il pensiero bloccati. Così riferì il sagrestano.
Pensai che se fossi scesa a quell’ora a prendere la legna per la stufa, avrei sentito il colpo infrangere il silenzio ovattato della montagna imbiancata. Lo avrei sentito arrivare fino alla nostra casa e poi rotolare rimbombando giù a valle. Ma eravamo tutti chiusi dentro, a indugiare un po’ nei letti che i nostri corpi avevano scaldato durante la notte e non avevo sentito niente. Dicono che non volesse proprio ucciderlo, che volesse solo minacciarlo. Ma nessuno sa com’è andata, forse nemmeno lui.
Mi venne alla mente sua madre, una donna minuta, già vecchia da giovane, le sottane lunghe e caliginose che le nascondevano il corpo, il fazzoletto scuro legato dietro che le tratteneva i capelli e scopriva un viso raggrinzito dal sole e dalle fatiche da cui sbucavano, come braci spente, gli occhi infossati. Lo sguardo ostinato di chi andava avanti senza farsi domande in una vita fatta di lavoro e di botte, dove non c’era posto per la compassione. Mi chiesi cosa le fosse passato per la testa quando aveva sentito lo sparo, quando lo aveva sentito cascarle addosso, se avesse prevalso il dolore, il senso di liberazione o la paura per il ragazzo. La immaginai come una lepre stanata dai cani fissare atterrita i carabinieri fare il loro lavoro, ascoltare il prete parlare senza sentirlo e guardare il sagrestano portare via il corpo del morto mentre il ragazzo piangeva. Mi figurai la casa sepolta, solo il camino che sul colmo del tetto spuntava dalle falde ammucchiate, la rotta davanti all’uscio mantenuta appena quel poco che serviva per non trovarsi intrappolati dentro. La immaginai sulla soglia a seguire con lo sguardo il figlio portato via dai due carabinieri, gli occhi sbarrati dalla paura che gridavano aiuto, la mano sulla bocca per trattenere l’urlo e un macigno nel petto. La vidi arrestarsi lì come una statua, insensibile al freddo che le impietriva le membra. La immaginai che seguiva con gli occhi le tre macchie di pece che scomparivano e poi riapparivano dietro le curve, per svanire del tutto nell’oblio bianco, laggiù in fondo, dopo il cimitero. Mi chiesi come avesse trovato la forza di rientrare in quella casa di sasso, ingabbiata dal gelo, dove la penombra confondeva le forme, svuotata di colpo dei suoi uomini. Pensai che forse s’era seduta con le mani in grembo, gli occhi asciutti di lacrime per l’attonimento, e poi aveva dovuto cominciare a pensare a come mandare avanti il podere da sola.
Guardai le tre sagome cupe attraversare le Ca’ di Sotto e salire verso le Ca’ di Sopra, la parte alta del borgo, e poi scomparire, ingoiati dalla neve. Rimasi per qualche momento a guardare quella distesa, il candore che toglieva il fiato, il cielo cinereo, i fiocchi che non smettevano di cadere. Abbassai la testa e mi avviai verso la cantina. Quella mattina non riuscii a mangiare e sperai che il bambino non nascesse anzitempo. Mi serviva qualche altro giorno per ripensare al ragazzo e all’eco fuggevole di quel breve contatto.