Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Tenendoti per mano” di Kassandra Fedele

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Avresti dovuto dirmelo. Avresti dovuto dirmi che un giorno non ci saresti stato più. 

Che sarebbe successo in un giorno qualunque in cui tutto sembrava normale; un giorno in cui abbiamo discusso a tavola perché tu, come sempre, mi hai zittita e io ti ho detto, alzando la voce, che non te l’avrei più permesso; ma quel giorno, tu non hai ribattuto e io ho pensato che finalmente avevo vinto. Fino a quando, poco dopo, non ti ho incrociato per le scale, seduto da solo nel divanetto davanti alla porta di casa. 

Avresti dovuto avvisarmi, quando hai alzato lo sguardo su di me: perché io ero pronta a combatterti ancora, papà, a sostenere la tua delusione per questa figlia ribelle e testarda, a lanciarti addosso il mio sguardo di sfida e tutta la mia rabbia. Ma tu invece hai giocato sporco e ti sei fatto trovare inerme, sconfitto. Negli occhi, il rammarico per avermi ferita, la vergogna di ammettere che avevi sbagliato tutto.

Tu un vecchio, mortificato e indifeso. 

Io la guerriera, potente, invincibile. 

Mi hai annientato.

Avresti dovuto dirmelo che quello era soltanto il primo segno della guerra bastarda che avevi iniziato a combattere contro un nemico silente, uno sporco ladro di tempo e di ricordi che iniziava a rendere incerti i tuoi passi e annebbiata la tua mente.

Avresti dovuto dirmi che, affacciandomi alla finestra sul giardino, non ti avrei più visto fermarti sfinito e asciugarti il sudore sulla fronte appoggiato alla tua zappa; che non avrei più dovuto imprecare contro i rumori molesti del trapano o della sega elettrica che disturbavano le mie letture estive; che un giorno non avrei più visto un giardino diverso ogni settimana, oggi un nuovo vialetto, domani la terra arata a solchi, e poi gli ulivi tagliati e il nuovo recinto dei cani, e la geometria perfetta dei filari di pomodori e delle canne per i fagiolini, adesso è il tempo delle melanzane, le nespole no, sono già finite…

Avresti dovuto avvisarmi perché quella sedia, papà, non ti si addice proprio, alle sette di mattina. Alle sette di mattina tu annaffi le tue piante e controlli che la brina sui rami non abbia danneggiato i germogli; alle sette di mattina tu hai già comprato il pane e il giornale, hai riguardato le tue lezioni di Fisica e ti aggiri in giardino sistemando un attrezzo fuori posto o estirpando un’erbaccia mentre aspetti le tue bambine per portarle a scuola. Alle sette di mattina tu non stai seduto su una sedia con i palmi delle mani sulle ginocchia, senza sapere cosa fare nel tuo giardino invaso di erbacce e foglie secche che non hai più la forza di curare.

Te lo ricordi, papà, il sapore dei limoni appena colti, tagliati e mangiati in piedi accanto all’albero con una manciata di sale? Assaggiavi tu la prima fetta, aspra e pungente. Io volevo soltanto l’albèdo, perché era dolce e spugnosa. Ma poi la mangiavo anch’io, la fetta; per vederti sorridere quando facevo le smorfie; per sorridere anch’io, di rimando, e incrociare il tuo sguardo complice; perché la fetta me la porgevi tu, tagliata dalle tue belle mani curate col coltellino d’acciaio brunito, quello che avevi sempre in tasca e non volevi darmi mai: temevi che mi sarei ferita, ma poi cedevi alle mie lusinghe e me lo lasciavi usare. Sotto il tuo sguardo vigile. Il tuo sguardo orgoglioso di quella figlia dannatamente ribelle e testarda, come te.

Dov’è quel coltellino, papà, ce l’hai ancora? La lama sembrava una piccola piuma di Indiano…

Non fa niente papà, scusami. Non volevo. Ora la tristezza ha di nuovo spento la luce e i tuoi occhi vagano nel vuoto di una vita che sbiadisce inesorabile. Come la sera che tornasti dal dottore: la discesa è cominciata, hai detto. Hai abbassato lo sguardo, accasciato come un leone mansueto, vinto dalla consapevolezza della fine, dalla crudele certezza che quell’ultima battaglia non l’avresti vinta tu. 

Avresti proprio dovuto dirmelo che non avrei più avuto l’occasione di riparare a trent’anni di silenzi e musi duri, che non avrei più avuto tempo per ritrovarti nei ricordi e dirti che mi manchi e che ti rivorrei com’eri. 

Ti ho visto l’altro giorno, in cucina, senza che tu te ne accorgessi: ti ho sorpreso ad osservare un taglierino, con una lama nell’altra mano, cercando inutilmente il verso giusto per cambiarla. Dio. Tu smonti e rimetti insieme i pezzi dei computer. Tu in giardino hai scavato una buca profonda per l’auto, per fare quello che i meccanici non sanno fare: trovare il danno e sistemare il motore. Tu costruisci un tagliaerba con un macinacaffè, tu lavori il ferro e il legno, tu mi hai insegnato a usare martelli, chiodi, cacciaviti e chiavi inglesi: tu stai morendo. 

Lentamente. 

Sotto i miei occhi. 

Un pezzetto alla volta, ti sto perdendo per sempre.

Ti sei accorto di me e hai lanciato spazientito il taglierino nel cassetto; lo sguardo muto che ci siamo rivolti ha squarciato entrambi. Ma io l’ho visto: quel lampo di rabbia frustrata, di orgoglio ferito mi dice che ci sei ancora; che sei ancora qui e non ti vuoi arrendere.

E allora non lo faccio neanch’io, papà: sono pronta a scendere all’inferno con te.

Ti ripeterò un’altra volta a che ora parte il mio treno, anche se mille volte mi hai ricordato tu di non fare tardi altrimenti l’avrei perso. 

Scenderò accanto a te le scale perché ti gira la testa se non ti reggi dal corrimano, anche se ti ho visto camminare su un cornicione al quarto piano senza battere ciglio.

Ti sistemerò il verso della lama del taglierino, anche se mai mi hai permesso di cambiarla perché era pericoloso nelle mie mani mentre nelle tue bastavano due mosse. 

Ti racconterò di quando mi hai insegnato a guidare, rimetterò in ordine i tuoi attrezzi, risponderò ogni volta alle tue domande sempre uguali e riscriveremo insieme la tua storia. 

E mi prenderò di te tutto quello che mi sono persa: ora che insieme ai ricordi sbiadisce il rancore, ora che la delusione del passato lascia spazio alla scoperta di un presente sempre fresco, ora che guardi il mondo e me con occhi vergini e rinnovati gioirò dei tuoi sorrisi inaspettati, della curiosità della scoperta di tutto quello che sapevi già; rallenterò i miei passi per camminare al ritmo dei tuoi; mi stupirò della tenerezza dell’affidamento, della rassegnazione all’obbedienza, della rinuncia alla lotta. E se troverai la macchina scarica o l’autoclave vuota sapremo chi ha lasciato le luci accese e l’acqua aperta, e sorrideremo leggeri perché nessun colpevole potrà essere accusato.

E quando un giorno mi ucciderai chiedendomi chi sono coi tuoi occhi spaesati, ingoierò le lacrime che già bruciano il mio viso, sosterrò il dolore lancinante che mi spezzerà in due, ti accarezzerò la guancia, ti bacerò la fronte e, tenendoti la mano, ti risponderò: mi chiamo Kassandra e sono tua figlia, papà.

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2 commenti »

  1. Commovente, toccante, bellissimo, complimenti veri !!

  2. Grazie, Marco. C’è dentro un pezzetto d’anima, sono contenta che ti sia arrivato.

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