Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Ed il vento sta cambiando” di Patrizia Giola

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

In mano la sua agenda piena di appuntamenti, l’estensione di un sé che come un vecchio vestito in quel momento sentiva andargli stretto. Luigi era stanco. Giornataccia, Livia, la sua compagna, poche ore prima lo aveva lasciato.

– E che diavolo Luigi, possibile che non riesci mai a liberarti dal tuo lavoro? Potevamo passare due giorni insieme e sapevi quanto ci tenessi. La prima esposizione dei miei quadri, a Parigi!! A Parigi, ma ti rendi conto? Basta, non ne posso più di essere sempre al secondo posto, e del tuo ordine maniacale e dei tuoi rituali.

Con un gesto rabbioso spazzò via dalla sua scrivania tutti gli oggetti rigorosamente messi in posti stabiliti che nessuno poteva toccare.

– È finita!

Il suo addio non lo soprese, aveva notato da tempo la sua insofferenza, ma il dipinto che lei posò sulla sua scrivania prima di chiudere la porta dello studio e andarsene quello sì, eccome: vi era raffigurato un uomo immerso sino alla gola in una pozza di acqua stagnante con la bocca spalancata dal terrore di affogare. Fu come ricevere un pugno nello stomaco, per alcuni secondi aveva sentito l’aria mancargli, poggiato il quadro per terra in un angolo seminascosto del suo studio, con il volto dell’uomo rivolto verso la parete, di corsa aprì la finestra e restò con i gomiti sul davanzale a respirare, sotto di lui Livia attraversava la strada per scomparire alla sua vista. Lei così piena di energie, imprevedibile, troppo aveva resistito quell’anno insieme a lui, specie gli ultimi mesi, pensò Luigi mentre seduto alla scrivania ancora in preda all’ansia riposizionava ogni singolo oggetto, le penne allineate secondo il colore, a destra del portatile, i libri perfettamente incolonnati, dal più grande al più piccolo a sinistra. La sua agenda di cuoio al centro.

Sì, era prigioniero di sé stesso, del suo maledetto bisogno di avere tutto sotto controllo, ora più che mai e più la rabbia dentro cresceva più sistemava e risistemava ogni oggetto. Sudava e non riusciva a porre fine a quella compulsione, ci pensò per fortuna la suoneria del telefono, un collega lo stava aspettando.

Un giorno passando davanti allo specchio del suo armadio si soffermò a guardarsi e quello che vide non gli piacque per niente.

 Gli occhi spenti, la solita giacca grigia, la solita camicia, bianca come l’arredamento intorno a sé, un moderno essenziale, quasi da reparto ospedaliero, tutto sapeva di morto dentro, di acqua stagnante. Panico. Davanti ai suoi occhi l’uomo del ritratto e quel maledetto pezzo di carta che il dottore gli consegnò due mesi fa. Doveva essere un normale controllo di un rigonfiamento al collo e invece fu l’annuncio di una grave malattia, arrivata senza bussare alla porta e chiedere permesso a lui che non poteva fare a meno di tener sempre tutto sotto controllo.

– Interveniamo subito per togliere la massa tumorale poi dovrà sottoporsi a percorsi di terapia, tutto dipende da come reagirà il suo fisico e da come lei affronterà la malattia. Signor Luigi c’è sempre un margine di possibilità di venirne fuori, mi dia retta – gli disse il dottore davanti alla sua espressione attonita.

Non ne parlò con nessuno, neppure con Livia, che forse avrebbe capito meglio il suo cambiamento degli ultimi tempi, il suo nervosismo, il suo buttarsi ancora di più nel lavoro, e chissà forse gli sarebbe rimasta accanto. Soprattutto non si fece più vedere dal dottore. Non riusciva a tollerare il “disordine” che l’operazione e le successive terapie avrebbero recato alla sua abitudinaria esistenza. Una esistenza che quel giorno davanti allo specchio gli apparve per quello che realmente era, una non esistenza.  Ne aveva paura.

Si allentò il nodo della cravatta e si sedette sul letto; era mattina, la valigetta del lavoro in mano, sentì qualcosa strapparsi dentro, e una corrente di lacrime risalire come un fiume che straripa trascinando con sè tutto, rami secchi, tronchi, sassi, terriccio. Avvocato da sempre, anzi da generazioni, Luigi, 60 anni, quella mattina non andò al lavoro, fece alcune telefonate, si tolse il completo grigio, non lo appese alla stampella come era sua abitudine, maniaco dell’ordine, lo gettò quasi con rabbia sul letto e si mise a rovistare nell’armadio in una ricerca spasmodica di un borsone. Lo riempì di corsa gettandovi dentro dei vestiti alla rinfusa, pochi oggetti personali. Non sapeva dove sarebbe andato, sapeva solo di volersi allontanare da quel dipinto e da quel maledetto referto, in lui fame di aria, di spazi aperti, voglia di seguire il vento, era terrorizzato ed eccitato insieme. Chiuse la porta di casa e uscì. Davanti a sé l’ascensore.

Di solito preferiva le scale.

Non amava i luoghi ristretti anche se la sua vita sino a quel momento lo era: uno spazio ristretto, in cui tutto aveva un posto preciso, un ruolo stabilito, da altri (rifletteva pensando al padre, al nonno, al loro studio poi diventato il suo). Quel giorno aveva fretta però, vi entrò. Scendere a piedi i quattro piani di scale che lo separavano dall’uscita della palazzina richiedeva più tempo, temeva un ripensamento, non era per niente sicuro di farcela: la sua agenda era rimasta sul letto.

Quarto piano, terzo, secondo, stop! Maledizione!

Passarono secondi, minuti, mentre premeva compulsivamente il pulsante di allarme l’ansia cominciò a salire, niente, non succedeva niente. Bloccato, con il respiro affannoso prese a guardare l’interno della cabina, pareti grigio metallico luminoso, in una un grande specchio, in alto le luci, sei lucette rotonde a neon, su una parete tanti tasti, prese a contare anche quelli. 1,2,3,4…

Contare era uno dei modi ossessivi di tenere a bada la paura. Si sedette per terra, temeva di svenire, il marmo bianco del pavimento era freddo. Lucido, liscio. Poi si rialzò.  In una parete un grande specchio lo obbligava a fare i conti con se stesso, era strano vedersi in jeans, polo e scarpe da ginnastica, quanti anni aveva trascorso in una vita apparentemente di successo, in realtà priva del colore dell’entusiasmo, del sapore del rischio, del fuoco della passione. Ci voleva un pezzo di carta ad aprirgli gli occhi, cazzo. E Livia.

Prese a dare pugni alla porta dell’ascensore, il rumore assordante del metallo rimbombava all’interno ma lui sembrava non farci caso, anche perché coperto dalle sue urla:

– No, non adesso, maledetto ascensore apriti. Non puoi tenermi bloccato qui. Fatemi uscireee!!!!

Il desiderio, questo sconosciuto, si fece spazio in lui, liberato dalla violenza con cui partivano i colpi. Vide il mare, le sue onde spumeggianti, in costante movimento, dolci schiaffi di una vita che va vissuta. Vide l’areo che lo avrebbe portato a Parigi con lei, vide le nuvole e il mondo farsi piccolo sotto di loro. Le mani gli dolevano ma lui non era mai stato meglio.

 Poi, un rumore, un lieve oscillare…la cabina finalmente si mosse. Come la porta dell’ascensore si aprì prese a correre per quei pochi metri che lo separavano dal portone del palazzo, verso l’uscita. Per strada guardò in alto, sapeva cosa fare. Seguire il vento. Il profumo della salsedine. E poi chissà

Prima prese il telefono:

– Dottore solo una settimana e sarò da lei

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