Premio Racconti nella Rete 2025 “La musica di un sogno” di Stefania Scotti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Scappa, corre. È una lancetta che avanza o, forse, è solo la mia paura.
Lo vedo, è un Cerbero che non mi lascia indugiare, le teste protese verso la mia sagoma.
Tre teste, tre lancette dell’orologio.
È iniziato tutto più di trent’anni fa, quando ho deciso di intraprendere con il tempo una gara che non potevo vincere. Sapevo di esistere solo per il fatto di essere sempre inseguito da lui. Era questa corsa continua che mi faceva sentire vivo.
Lavora. Corri. Parti. Corri.
Per coloro che amavo il tempo non era sufficiente, avevo chiuso le mie ore per loro in una piccola scatola di carta. Bastava poco per distruggerla e perderne il contenuto.
Quella sera restai appoggiato alla porta di casa, immobile, fissando quelle stanze vuote e stranamente silenziose. Perchè attendere un padre che non si presentava mai per cena, un marito col quale non si riusciva nemmeno a parlare? Perché condividere la propria vita con qualcuno che rispondeva sempre “adesso non ho tempo”? Non esistono colpevoli, ma esistono colpe che vanno espiate. La pena, per me, è stata la solitudine.
Il dolore viscerale e ottenebrante che ne è seguito mi ha portato via tutto. Il lavoro, la casa, il rispetto per me stesso, ogni cosa è scivolata da queste mani tremanti.
Un tremore dovuto all’incredibile capacità di svuotare bottiglie sempre colme di vino, sapiente mago in grado di annacquare il veleno che mi consumava. In quelle giornate, l’unica vera amica rimasta al mio fianco è stata l’indifferenza.
Sono sempre stato indifferente verso coloro che mi amavano, verso il dolore degli amici, verso un futuro che cercava un piccolo rifugio nella mia anima. Ho considerato tutti coloro che mi circondavano come liane di una giungla. A volte le scostavo per poter andare oltre, altre volte me ne servivo per poter raggiungere il prelibato frutto di un albero. Erano solo il contorno di un bel paesaggio, finché una mattina la mia incantevole illusione si è dissolta e mi sono svegliato sotto una coperta e due pezzi di cartone.
Ero nell’atrio di un cinema abbandonato. Ero per strada.
La testa confusa e smarrita ha imparato subito che la vergogna è il primo fardello di cui disfarsi. Non ho esitato a mendicare lavori, poiché sapevo che se mi fossi seduto su un marciapiede non avrei più avuto la forza per andarmene. Per poter bastare a me stesso ho osservato bene quel nuovo mondo che mi circondava. Anche qui ogni istante riesce ad ingabbiarti. Sulle strade non c’è tempo per il passato, non c’è tempo per il futuro. Qui bisogna pensare solo all’oggi.
Bisogna pensare a camminare lentamente così che la gente che ti passa vicino non senta la tua puzza. Gli uomini possono accettare il tuo volto scarno e consumato, i tuoi vestiti logori e la misera valigia che ti porti appresso contenente gli unici ricordi di una vita che è stata cancellata. Ma non possono accettare il tuo nauseante odore.
Ricordo i bidoni di un ristorante lungo il fiume. Il locale era sempre gremito di gente e i suoi bidoni erano traboccanti di cibo avanzato. Una volta che ti abitui all’idea diventa tutto normale era il mantra che mi ripetevo. Aprivo così, con gesti abitudinari, quei grossi sacchi neri dai quali si riversava nelle mie mani cibo buono e talvolta neanche consumato.
Tornavo lì ogni sera, per sfamare la pancia e in un certo modo anche la mente. Lo spettacolo del fiume, che strisciava maestoso alle spalle di quei bidoni, mi bloccava sempre in quel luogo. Da qualche parte, nella mia testa, la regola della strada, non esiste passato né futuro, veniva cancellata. Cercavo allora i pochi ricordi annebbiati e confusi che mi erano rimasti e sentivo il tempo prendersi gioco di quello stupido uomo che non era mai stato capace di fermarsi per osservare il disegno che suo figlio gli aveva fatto. O per raccogliere quelle strane foglie del parco che sua figlia avrebbe voluto prendere per farne una collana. Come un ladro inesperto si separa dalla preziosa refurtiva solo perché si crede inseguito, così ho abbandonato per sempre quanto di più prezioso mi fossi guadagnato in vita.
Alla sera, la luce dei lampioni guidava i miei passi verso il piccolo dehors nel quale passavo la notte e che accoglieva le poche coperte e cartoni che mi aiutavano ad affrontare le gelide nottate. Era quello il tempo che non volevo vivere. Era in quei momenti che la paura mi accarezzava, sordida amante che non intendeva separarsi da me. I passi delle persone, nelle ore notturne, erano come colpi sparati nel cielo. L’allerta conduceva i miei sogni come un cocchiere affezionato al proprio mestiere. Si trattava di sogni concitati e angoscianti, nei quali venivo picchiato e derubato dei pochi averi che mi erano rimasti. E, talvolta, accadeva che questo non si limitasse ai sogni. Dopo che la notte si era dipanata tra questi incubi febbrili, le giornate scorrevano nel silenzio del mio respiro.
Sette anni sono trascorsi e, ormai, le voci che provengono dal mondo esterno non mi rendono più vulnerabile. Sono un fantasma che splende, forse è la mia luce troppo accecante ad impedire alla gente di guardarmi in viso.
Solo i venditori ambulanti, che aiuto saltuariamente nella piazza del mercato, mi chiamano per nome, nessun altro lo vuole più conoscere da troppe stagioni. Il mio aspetto ha riacquistato una piccola dose di dignità grazie ad una comunità a cui mi sono rivolto e che ora mi ospita per la notte, in un palazzo vicino al centro. L’edificio è pulito, ma spoglio e silenzioso. Talvolta però si sentono grida notturne, che rimbombano nel vuoto dei corridoi e ricordano civette ingabbiate. Un cuscino sugli occhi aiuta a proteggere i miei pensieri, per non dover ricondurre quelle urla ad un viso conosciuto.
Al mattino mi sveglio molto presto. Non voglio restare a guardare gli altri corpi che giacciono in quella stanza, lì dentro vedo solo un cimitero senza tombe.
Mi infilo i soliti vestiti e scivolo in una strada che considero ormai come una protesi del mio corpo. Il personale dei numerosi bar del quartiere mi conosce molto bene e so che un sacchetto di carta, con una brioche profumata, mi aspetta da qualche parte. La assaporo rifugiato su una panchina, mentre la corrente di cui sono in balìa mi trasporta senza che io opponga più alcuna resistenza. La mente si ritrova ormai sempre più spesso a vagare verso terre lontane, quiete e so che un giorno non riuscirò a fare ritorno. Quel tempo, che mi ha inseguito e travolto, sembra ora proteggermi come una balia.
Ma è solo una delle sue molteplici facce per ingannarmi ancora. Mi isola, mi nasconde. Le sue braccia cullano un corpo che ormai non sa più guardare in faccia il cielo. A questi istanti mi affido, lasciandomi scivolare in un limbo incerto. Conto le dita per controllare il respiro e tutto mi sfugge in un sonno ingannevole e offuscato. Dentro a sogni silenziosi, come se avvenissero sott’acqua, mi perdo incautamente. E spero sempre di non riemergere più.
È il primo giorno d’estate. Un temporale. Pioggia. Vento, e ancora pioggia.
L’acqua scrosciante mi risveglia dal torpore nel quale sono immerso.
Un riparo si presenta a pochi metri. Si tratta di una chiesa davanti alla quale sono passato molte volte in questi anni. Entro. Aspetto che qualcuno mi scacci anche da qui. Ma la chiesa è deserta, solo il profumo dell’incenso la riempie. Trascorrono pochi istanti prima che un’onda lieve batta sugli scogli del mio corpo. Sono fradicio, ma il calore che avverto in questo momento cancella ogni brivido. L’illusione di un miracolo dura poco, forse si tratta solo di suggestione.
La fiamma e il tepore delle candele accese sono però qualcosa di reale. Voglio accenderne una. Sono i ricordi della mia infanzia che si affacciano, dopo esser stati accantonati così a lungo. Ecco allora le mani ruvide, ma avvolgenti di mia nonna, che mi stringevano forti ogni volta che ci recavamo a messa. Ecco il suono della monetina data in beneficenza e la luce delle candele che brillavano per illuminare le profondità di ogni uomo. È il passato che cerca di valicare il confine che ho tracciato sette anni fa. Non si rassegna ad essere ignorato.
Lascio che il corpo si accasci su una panca. Vorrei pregare, ma mi sento solo un ipocrita. Ho danzato tutta la vita abbracciato ad un’indifferenza nera ed avvolgente, creatrice di quel groviglio di atrocità, brutture e recriminazioni che vedo tutti i giorni nelle strade. Non mi è più permesso mendicare alcunchè. Non ne ho mai avuto alcun diritto.
Sono bagnato. Sento ancora freddo. È l’ora del silenzio. È l’ora in cui tutto finisce.
Improvvisamente risuonano alcune note nell’aria. Sono timpani, percossi da mani delicate. Iniziano a risuonarmi nel petto, mentre il suono di una piccola campana li interrompe subito dando l’avvio ad un incalzante arpeggio eseguito dal pianoforte. Al suono del piano, presto si va ad aggiungere e sovrastare il canto di un oboe. È caldo ed accogliente e mi cinge stretto con fare paterno. Vedo i paesaggi che mi sta mostrando, di paesi lontani e colmi di speranze. Mi prende per mano, ma è costretto ad abbandonarmi subito poiché entra in scena lei.
È alta ma delicata, le braccia le ricadono con grazia lungo i fianchi. La sua voce di soprano prorompe in tutta la chiesa senza chiedere il permesso, mentre le braccia si allontanano sempre più dal corpo per dare forza a quel dono prezioso.
Il canto di quella ragazza si innalza verso la cupola della chiesa per poi ricadere come una colomba che plana trionfante. Ma ora non è più un canto solitario. La potenza della musica viene rafforzata dal coro e dall’intera orchestra. È un’esplosione. Le voci, gli archi, i fiati, tutti hanno dato vita a questa prodigiosa cavalcata dirompente, a perdifiato. Le solide mura della chiesa stanno vibrando dall’emozione.
Mi accorgo di piangere, sento gli occhi umidi che lavano via gli inganni del tempo. Una donna mi si avvicina e mi stringe un braccio con calore.
– Mi emoziono sempre anch’io quando sento la musica di Morricone… – le sue parole sono carezze materne.
È forse un sogno tutto questo?
Non voglio saperlo. Un piccolo brandello di indifferenza è stato però cancellato. Un impalpabile e lieve velo di tenerezza è stato steso dinanzi a me.
E, per ora, questo mi basta.