Premio Racconti nella Rete 2025 “Trasfigurazione” di Alberto Marrias
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Era un pomeriggio di luglio. Faceva un caldo della Madonna. L’estate si stava facendo sentire con tutta la sua arroganza. Finalmente, mi decisi ad andare a trovare mia madre, che non stava bene. Essendo io un grandissimo cacasotto e un vigliacco di prima categoria, mi portai dietro anche mia figlia con la scusa, le feci sapere, di andare a trovare la nonna. Se le cose si fossero messe male, avrei potuto tagliare corto e alzare i tacchi, dicendo che la bimba, purtroppo, si era stancata e voleva tornare a casa. Mi sembrò un’ottima idea. Erano giorni che mio fratello e mia sorella mi chiedevano di andare. Io, però, avevo sempre evitato la cosa. L’idea di vedere mia madre in quelle condizioni non la sopportavo. Era più forte di me. Avevo una paura fottuta. Ogni volta, mi immaginavo la scena e mi paralizzavo. Rimandavo sempre. Un po’ come quando si entra nel loop del lunedì della dieta. Alla fine, però, mi feci coraggio. I sensi di colpa avevano cominciato a diventare insormontabili. Quel giorno, il caldo non dava tregua. Si schiattava pure sotto l’ombra. Grondavi da fermo. Pareva che qualcuno ti avesse piazzato un phon alto come una palazzina davanti alla faccia. Una roba terribile. Arrivai verso le diciotto e trenta. Parcheggiai la macchina proprio sotto casa. Un gran culo, perché lì, il posto non si trovava mai. Bisognava fare ogni volta tremila giri, per poi finire dall’altra parte dello stabile, se ti diceva bene, e fartela a piedi. In realtà, questa cosa del parcheggio che non si trovava si sarebbe potuta tramutare in un’altra interessantissima scusa per evitare l’incontro, ma gli eventi mi fecero muro. Citofonai e rispose mio padre.
Voce bassa, da funerale: “Chi è?”
Risposi telegrafico: “Io”.
Silenzio. La serratura automatica del cancelletto pedonale fece click ed entrammo. Lungo il vialetto d’ingresso, notai che le aiuole erano tutte mosce. Nessuno le annaffiava da giorni. Arrivati al portoncino della palazzina, suonai di nuovo. Questa volta, mio padre non rispose, pigiò solo il pulsante dell’apertura. Salendo le scale, mi arrivò subito al naso un odore inconfondibile, il profumo della casa dove ero cresciuto. Lo so che potrà sembrare esagerato, ma per me tutte le case hanno un profumo. Soprattutto, riconobbi quello che veniva da fuori, dai fiori delle siepi. Da piccoletto quelle scale le avrò fatte una marea di volte, a scendere e a salire, per andare a giocare nel cortile o fuori, in strada, con gli amichetti.
Mio padre ci fece trovare la porta di casa leggermente aperta. Dentro, le tapparelle delle finestre erano tutte abbassate per tre quarti. L’afa si sentiva forte. C’era un vecchio condizionatore accesso, ma faceva più rumore che fresco. L’appartamento era quasi tutto in penombra. Filtrava poca luce, di taglio, tipo raggi laser e tutto un pulviscolo che galleggiava nell’aria. Sembrava di stare dentro un film dell’orrore. Lì, mi accolsero prima mio fratello e dopo mia sorella con il figlio, che le stava in mezzo alle gambe, all’epoca avrà avuto sì e no due anni. Salutai. Mi fecero un sorriso di approvazione. Dissi a mia figlia di andare a giocare col cuginetto. I due bimbi entrarono in quella che era stata, per anni, la cameretta di noi maschietti. Nostra sorella, invece, essendo femmina, ne aveva avuta una tutta per sé. Adesso era diventata la stanza da gioco dei nipotini. Avevano tolto tutto, letti e armadi. Rimanevano al muro solo le foto di quando noi eravamo bambini. Mi fece una strana impressione. Come se, in quei pochi metri quadrati, il tempo che passa lo avessero voluto ammazzare. Noi ci posizionammo nel corridoio. Si avvicinò anche mio padre. Era stanco, bianco in faccia. Praticamente un cencio. Sembrava un panda con quei due occhi neri. Non ci voleva tanto per capire che in quei giorni aveva mangiato poco e pianto tanto. Quello che indossava gli stava dieci volte e aveva l’alito pesante. Me ne accorsi subito, quando mi disse ciao. Intanto, alle orecchie continuava ad arrivarmi un lamento. Continuo, insistente. Anche leggermente fastidioso. Una vocina che continuava ad insinuarsi tra i nostri sguardi e le nostre parole, come fanno i bimbetti che ti tirano i pantaloni perché vogliono le attenzioni. Sembravamo un gruppetto di ricercatori, di quelli che si vedono nei documentari alla tele, intenti a catturare, con le barche in mezzo all’oceano, i versi dei grandi cetacei marini. Fissai nuovamente mia sorella, che mi fece intuire da dove provenisse quella voce. Era mia madre. Con il cuore in gola, mi avvicinai alla stanza. Entrai. La camera era buia e puzzava di chiuso, sul comodino una piccola abatjour accesa faceva una luce giallognola. Quella lampada proiettava sul muro un’ombra gigante. Era mia madre distesa sul letto, vestita con un pigiama tristissimo di cotone addosso, con le mani poggiate sulla pancia che si stropicciava nervosamente un lembo della sottoveste. Aveva la faccia scavata e sofferente, i dolori erano spade conficcate nella schiena. Mi guardò senza dire niente. Al posto suo fece parlare la disperazione. Feci qualche passo in avanti. I suoi occhi erano grandi, aperti, di vetro, la fronte corrugata e le labbra serrate. Per un attimo, mi venne quasi da vomitare per l’ansia.
Le chiesi la cosa più stupida del mondo: “Mamma, come stai?”
Lei si mise a piangere, ma poi si calmò subito. Ad un certo punto successe una roba strana. Mia sorella dovette assentarsi perché il figlio aveva fatto la cacca e doveva andare a cambiarlo. Mio padre, invece, approfittò della mia presenza, per recarsi in farmacia a comprare delle medicine e si fece accompagnare da mio fratello. Restai solo con mia madre. Intanto, mia figlia se ne stava in cameretta a giocare tranquilla con le costruzioni.
«Devo andare in bagno» fece mia madre.
«Come in bagno? Adesso? Da sola?» domandai io.
«Si» concluse lei, categorica.
Si girò su un fianco, puntò i gomiti sul materasso, per mettersi seduta e con i piedi che penzolavano nel vuoto, iniziò a fare dei grossi respiri, tipo gli atleti dopo che hanno fatto uno sforzo clamoroso. Scivolò in avanti con il sedere e si mise in piedi. Si diresse verso il bagno. Camminava lenta, cercando appoggi, pareva un robot con le batterie scariche. Chiuse la porta e io rimasi fuori ad aspettarla. Qualche minuto e sentii che tirava lo sciacquone. Uscì e rifece lo stesso percorso all’inverso. Era affaticata da morire. Come se fosse tornata da una maratona.
Si organizzò per risalire sul letto. Mi accostai per darle una mano, ma lei mi respinse in modo brusco, perché voleva fare tutto da sola. Quando riuscì ad allungarsi sul letto, rimase immobile, rigida, tipo tavola di legno. Iniziò a tremare per il dolore, gli occhi le si gonfiarono e i lamenti si fecero più acuti.
In quel preciso momento, mi prese il panico. E la mia testa produsse qualche cosa che, col senno di poi, mi verrebbe da collocare fra un meccanismo di protezione e un’esplosione di senso di colpa.
Di colpo mi ritrovai bambino. La persona che piangeva non era più lei, ma il sottoscritto. Ero piccolo, avrò avuto sei o sette anni. Stavamo in cucina o, quanto meno, l’ambiente mi sembrava quello, perché mi ricordo le maioliche che avevamo alle pareti. Io singhiozzavo da morire e mia madre mi stava davanti. Piangevo perché alcuni bulletti mi avevano rubato il pallone e non volevano più ridarmelo. Lei mi asciugò le lacrime, mi diede prima una carezza e poi un bacio sulla fronte. Dopodiché, mi disse con una voce che ancora oggi mi sento nelle orecchie: “Adesso tu torni lì, al campetto, vai da quei monelli e ti fai ridare il tuo pallone”. E io così feci.
Durò pochissimo. Mi vidi uscire da quella placenta spazio-temporale, nel momento in cui mia sorella si riaffacciò insieme al figlioletto. Cinque minuti dopo, rincasarono anche mio padre, con una bustina di farmaci in mano, insieme a mio fratello. Io allora andai di corsa in cameretta, presi mia figlia per un braccio e comunicai a tutti che siccome la bimba aveva pianto tutto il tempo (e non era vero), purtroppo la mia visita sarebbe finita lì. Promisi che sarei sicuramente ritornato presto (ma era un’altra bugia) e trascinai mia figlia fuori, che intanto mi guardava senza capire, così come si fa quando dopo un’intera giornata passata al parco, provi a riportarti il cane a casa, ma lui non vuole venire.