Premio Racconti nella Rete 2025 “La patena longobarda” di Maria Antonietta Mizzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Quella sera Ambrogio aveva preso una “stoppa” più pesante del solito e giaceva sotto il tavolo dell’osteria del Gallo Girato reggendo in mano il bicchiere in una stretta tale che neppure Ernesto, l’oste del locale, era riuscito a portargli via.
Ambrogio russava e faceva più rumore di un trattore Landini in piena attività.
Il campanile della chiesa aveva suonato le sette di sera ovvero l’ora in cui di solito Ambrogio, mezzo o tre quarti brillo, usciva dal locale barcollando per montare sul suo cavallo e tornare alla cascina.
Baldo, il cavallo da tiro, conosceva a memoria la strada e appena arrivato al cancello di casa iniziava a nitrire per avvertire la Lena che il marito era arrivato.
A quel punto lei lo prendeva per le bretelle e lo tirava giù dall’animale tirando quattro bestemmie seguite da quattro preghiere di pentimento.
Lui semi sveglio veniva portato sulla sedia davanti al camino acceso dove bolliva la pentola del minestrone serale.
Lui restava lì seduto come un gufo impagliato con in bocca il mezzo toscano oramai spento e la testa a ciondoloni che sollevava a fatica all’occorrenza.
Quella sera Ernesto il proprietario dell’osteria dovette svegliare Ambrogio con una secchiata di acqua gelata e si fece aiutare da due avventori per sollevarlo di peso, portarlo mezzo fradicio fuori dal locale e metterlo sul cavallo.
Prima che l’animale partisse Ambrogio biascicò qualcosa di concitato simile a: “Ho visto San Calogero … mi ha detto…. !!”.
Il santo venerato dal paese dunque aveva un messaggio?
Che significava?
Il cavallo non lasciò tempo per una riflessione e partì lasciando tutti perplessi e con un’aria perlopiu’ canzonatoria poiché si sa che il vino dà alla testa e lui era raso quanto basta per dire stupidaggini a raffica.
Ambrogio iniziò a snebbiarsi appena recuperato dalla Lena e dai figli.
La polenta fumante fu versata sul tagliere di legno messo al centro della tavola. Tutta la famiglia era riunita.
Anna, la donnina di casa, aveva da poco compiuto 14 anni e d aspettava di essere chiamata a lavorare nella filanda.
Suo fratello Mario era più grande di cinque anni e già si guadagnava il pane forgiando in una grotta che faceva parte della casa, forbici e coltelli.
La nonna Marietta aveva raggiunto i novant’anni e continuava a essere con Lena e Anna la magliaia del paese.
La cena a volte era costituita da una sola tazza di latte e un po’ di pane duro anche se generalmente si mangiava o una minestra o la polenta con il formaggio che era la replica del mezzodì.
La nonna cantilenava il rosario prima di andarsene a letto per prima mentre le altre donne rigovernavano.
Ambrogio generalmente si teneva vicino il fiasco impagliato del vino rosso per non perdere l’abitudine a bere e non proferiva che ordini per essere servito di ogni cosa.
Ma quella sera, seppur ubriaco, continuò a biascicare qualcosa di insolito che aveva cercato di spiegare fuori dall’osteria.
Tutti pensarono ad un delirio alcolico e non ci fecero neppure troppo caso.
Dopo le preghiere tutti salirono alle camere tranne Ambrogio che a volte restava sulla sedia fino alle cinque di mattina e poi, dopo aver munto le vacche e sistemato la stalla, bardava il cavallo e se ne andava direttamente a lavorare nei campi.
Quando doveva fare il fieno, attaccava al cavallo il carro e si portava dietro il forcone e gli attrezzi per quel tipo di lavoro.
La mattina primaverile era tiepida e il sole inizia ad occhieggiare timidamente filtrato dai grandi alberi centenari che delimitavano la stradicciola che portava ai poderi coltivati.
Ambrogio rimuginava e pensava a San Calogero e a quel messaggio che, nonostante l’ubriacatura pesante, ricordava nella sua essenza.
Perché il Santo si era scomodato a parlare a un tipo come lui che andava alla messa solo a Natale?
Questo non lo poteva né sapere né supporre, ma qualcosa gli diceva che
doveva comunicare ai compaesani esattamente ciò che aveva ascoltato dalla voce di San Calogero.
Prima di parlare però pensò bene di fare un salto dal prete della parrocchia per informarlo dell’accaduto.
Don Filzino quando se lo vide davanti esclamò con sorpresa: “Devi aver peccato grosso per farti vedere mesi prima della funzione natalizia! Che succede Ambrogio? Ti vuoi confessare?”.
“Veramente, Padre, sarei qui per una cosa che mi è accaduta l’altra sera mentre stavo all’osteria.”
Disse arrossendo il contadino.
“E dunque cosa mai può essere successo in quel luogo di ubriaconi?
Avete fatto a botte o bestemmiato più del solito?” Aggiunse il Don togliendo i mozziconi di candela dal vassoio di ottone vicino all’altare di Maria.
“Vede Padre, io non so come dirglielo ma San Calogero mi ha parlato.”
Don Filzino trattenne la risata e grattandosi la pelata chiese:
“Ma ne sei proprio sicuro? Non ti hanno fatto uno scherzo dei buontemponi approfittando del fatto che avevi bevuto?”
“Direi proprio di no.” Aggiunse Ambrogio.
A quel punto il prete che non desiderava perdere altro tempo poiché doveva celebrar messa, invito’ l’uomo ad attendere altri messaggi del Santo che sicuramente, se fosse stato vero ciò che era accaduto, si sarebbe fatto nuovamente vivo in spirito per sollecitare la diffusione del comunicato.
Ambrogio tornò deluso alle sue attività e si disse che forse era stato proprio il vino a prenderlo in giro facendogli sentire la voce del Santo.
Passarono alcuni giorni e nulla accadde.
A causa dell’età avanzata, Ambrogio faceva sempre più fatica a svolgere tutti i compiti della giornata ma era deciso a continuare a curare tutti gli animali della fattoria e a far fieno nei campi e a coltivarli con il granoturco.
L’orto era l’unica cosa che lasciava curare alle donne di casa.
Una mattina l’Anna si accorse che il terreno da zappare nell’incolto attiguo all’orto annuale era particolarmente duro tant’è che l’attrezzo si piantò nella terra e per tirarlo fuori dovette trascinare oltre alla terra anche un qualcosa simile a un manufatto di coccio.
Incuriosita, accantonò l’oggetto in un angolo dell’appezzamento e continuò a zappare.
Poco dopo sentì un rumore metallico poiché la zappa ci aveva cozzato contro e con stupore prese tra le mani l’oggetto che sembrava un piatto d’oro concavo e finemente lavorato a sbalzo.
A quel punto uscirono dal terreno altri manufatti e la donna li accantonò ripromettendosi di guardarli appena avesse trovato tempo ossia forse mai.
La madre si recò sul terreno da lavorare pochi giorni dopo e vide tutti quegli strani oggetti accantonati sul perimetro. Tornando nel laboratorio di maglieria chiese alla figlia cosa fossero secondo lei quelle cose, ma naturalmente non ci fu spiegazione.
Lena pensò che sarebbe stato utile portarli a casa e lavarli così magari avrebbero potuto usare i pezzi rimasti integri poiché non sembravano niente male.
Il Mario, che non era ancora avvezzo a frequentare l’osteria, rompeva i timpani al villaggio scorrazzando con la sua Gilera indossando un giubbotto di pelle che gli aveva regalato un americano che era stato da loro in vacanza in estate per ristabilirsi da una malattia polmonare.
L’aria collinare di Erbasecca era ideale per ossigenarsi e la famiglia affittava le stanze in esubero della grande fattoria.
Dunque il grosso ragazzo dai capelli rossi con il ciuffo alla Elvis Presley, passava a tutta velocità per il saliscendi delle strette viuzze del paese sentendosi maledire da uomini e animali che fuggivano impazziti schivando le ruote del bolide.
Lui cercava di attirare le ragazze del paese stazionando poi davanti alla cooperativa dove tutti andavano a far spesa di scatolame, detersivi e quant’altro.
In particolare lui aveva un debole per la Ginetta, una signorinella un po’ formosa dalle trecce rosse e gli occhi color amarena, una specie di Mario al femminile con in petto due bocce che facevano sognare i più maliziosi.
Durante i mesi estivi la ragazza andava a servizio dai più abbienti che avevano aperto le case di vacanza.
Mario la seguiva spesso al lavatoio del paese e la aiutava a portare il secchio con dentro i panni sciorinati.
I due se la intendevano, ma le famiglie non intervenivano nella questione.
La ragazza poi era cresciuta senza padre e la madre aveva altro per la testa che curare l’educazione della ragazza che era la più spigliata del paese.
Proprio per questo mamma Lena diceva che all’età di Mario era meglio divertirsi con le femmine leggere prima di metter la testa a posto e poi sposarsi con quella seria e giusta e la Ginetta non era né seria né affidabile.
Ambrogio, sempre più stanco tornò dalla valletta del mais facendo una deviazione verso le cappelle della via Crucis che circoscrivevano la chiesetta minuscola di San Calogero.
Voleva fermarsi lì per provare a ricordare ciò che credeva aver udito dal Santo.
Appurato che nessuno appoggiava la sua affermazione, doveva trovare modo di convincere anche se stesso sulla veridicità dell’accaduto.
Sedutosi sulla predella di sasso della terza stazione della via Crucis con il toscano acceso tra le labbra ed il cappello di paglia contornato da una serpentello vivo che non lo mordeva mai, vide arrivare un viandante mai visto vestito con una tunica e dei sandali di listelli di cuoio. Si reggeva ad un bastone nodoso poiché molto anziano e con la barba candida.
Si diresse deciso verso Ambrogio e dopo averlo salutato gli chiese se quella era la chiesa di San Calogero.
Ambrogio fece un cenno di conferma con il capo dicendo al pellegrino se venisse da lontano.
Egli rispose: ” vengo da un posto che nemmeno esiste sulle carte geografiche. Voglio chiederti di non lasciarmi senza chiesa.”
Ambrogio strabuzzò gli occhi perché l’affermazione era priva di senso.
” Ma buon uomo di quale chiesa parli? Non capisco cosa tu voglia dire. Sarai mica matto?”
Pochi secondi dopo che Ambrogio ebbe parlato, scese una nebbia improvvisa densa e bassa che rasentava il suolo come non si era mai vista e quando la stessa sparì a breve, l’uomo si era letteralmente volatizzato insieme alla nebbia.
Ambrogio si disse che forse era lui ad esser uscito di senno poiché ora il cielo era completamente limpido e non vi era traccia dello strano fenomeno occorso.
Se ne guardò bene di raccontare a qualcuno l’accaduto.
A notte inoltrata sentì suonare ripetutamente la campana del municipio e uscendo dal cortile in camicia da notte vide delle fiamme alte nel cielo che provenivano dalla chiesa di San Calogero.
Tutti gli abitanti accorsero per spegnere l’incendio ma al mattino non restò della chiesa che un cumulo di pietre fumanti e null’altro.
Ecco! San Calogero non aveva più una chiesa!
Gli tornarono alla mente le parole dello strano pellegrino sparito nella nebbia. Ora era certo che il vecchio fosse proprio il Santo.
Gli oboli della chiesa non bastavano neppure per sostenere Don Filzino e figuriamoci se si poteva pensare di erigere nuovamente una pieve.
Il prete temeva di essere accusato d’incuria poiché il Vescovo era tanto devoto a San Calogero e avrebbe potuto trasferirlo in un’altra parrocchia.
Dopo tanti anni di ministero nel piccolo paese sarebbe stata una vera disgrazia dover abbandonare tutto.
Poiché richiamato puntualmente dal prelato, Don Filzino chiamò i fedeli a raccolta e con aria mestissima lì informò del suo imminente trasferimento.
Tutti rimasero in silenzio e alla perpetua scesero delle lacrime di sincero dispiacere. Finiva così una istituzione religiosa.
Eravamo agli inizi dell’estate e i villeggianti iniziavano ad arrivare.
Anche la famiglia di Ambrogio aveva arieggiato e pulito a fondo le stanze date in affitto.
La scopa di saggina nuova andava bagnata e strofinata sul pavimento di cotto per non sollevare la polvere.
I pitali andavano disinfettati e messi nel comò poiché il bagno era in comune e si trovava sul ballatoio.
Le lenzuola candide erano state messe pulite nell’armadio insieme alle coperte di pura lana che pizzicavano sulla pelle e a due copriletti di piquet che sarebbe stati utilizzati per la stagione in corso.
Il letto nero di ferro aveva un rosone dipinto con fiori e angioletti e i materassi erano spessi e soffici poiché la lana veniva cardata e ripulita ogni anno.
Tutto profumava di lavanda e sul piccolo tavolo davanti alla finestra vi era un lume di emergenza per le notti di temporale in cui la corrente si interrompeva.
Il primo inquilino ad arrivare in famiglia fu un certo professor Zecchi e consorte. Erano una coppia mal assortita. Lui, secco e rifinito, quasi in età da pensione, era originario di quelle parti, lavorava a Basilea ed era un esperto di arte antica.
La moglie, donna corpulenta e sgraziata, era una ex cantante di opera lirica e soleva lagnarsi di ogni cosa poiché tutto le dava noia.
Il marito era sempre amorevole con lei e continuava a rassicurarla dicendole:
“Colomba mia abbi pazienza!”.
La donna invero era più simile ad un tacchino che con il suo gloglottio si rivolgeva a chicchessia lamentandosi in continuazione sul tempo, sul cibo, sul luogo, sulle persone, sugli animali e tutto il creato.
Generalmente nella giornata di arrivo dei clienti la Lena preparava da mangiare anche per gli ospiti e per far bella figura, imbandiva la tavola con ciò che di meglio avesse.
Per quella occasione aveva lavato e lucidato con la paglietta quel manufatto di metallo trovato nel campo e lo aveva messo in tavola con sopra la pagnotta affettata.
Lo Zecchi che aveva l’occhio allenato, osservò per un attimo il porta pane luccicante ed esclamò: ma questo è davvero un bell’oggetto! Dove lo avete comprato? Sembra una cosa di valore!”. I commensali scoppiarono a ridere e Anna raccontò al professore di aver trovato quell’oggetto zappando l’incolto per fare nuove prose dell’orto.
Il professore chiese di osservare meglio l’oggetto e di condurlo finito il pranzo nel luogo del ritrovamento.
Dopo alcune ore in loco capirono che scavando ancora avrebbero trovato altri oggetti poiché erano finiti sopra una necropoli funeraria longobarda e quanto trovato era il corredo di una salma.
Era doveroso e necessario chiamare dei periti dell’intendenza delle belle arti per catalogare i reperti e circoscrivere la zona.
Ambrogio prese in disparte il professore e fidandosi di lui, visto che si conoscevano oramai da anni, gli confidò la faccenda su San Calogero.
Prima di denunciare legalmente il ritrovamento, decisero che lo Zecchi avrebbe cercato di vendere al mercato nero dell’arte la preziosa patena longobarda.
Il ricavato sarebbe servito per rifare la Chiesetta di San Calogero.
Tutto andò a buon fine.
Il paese divenne famoso per il ritrovamento archeologico e nel tempo fu creato un piccolo museo molto frequentato dagli studenti.
Il Professor Zecchi si accorse anche che l’abbeveratoio delle vacche dell’Ambrogio intorno a cui era stata costruita la stalla, era un sarcofago romano con tanto d’iscrizione.
Viste le dimensioni lo stesso venne utilizzato come fontana del paese con guizzanti pesci rossi e zampillo al centro.
In quanto alla chiesetta tutto venne rispettato permettendo a Don Filzino di restare curato della pieve ricostruita fedelmente.Sulla prima panca di legno della corta navata di San Calogero venne apposta una targa in ottone a ringraziamento della sostanziosa e inaspettata donazione della Famiglia Cristiani ossia Ambrogio Cristiani che, a dispetto del nome, continuava a ubriacarsi e a recarsi alla santa messa solo la notte di Natale.
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