Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Rolex” di Alvise Bonaldo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Oggi è un giorno da Rolex, dice fra sé e sé l’uomo infilandosi la camicia azzurra. Oggi si festeggia, bisogna festeggiare, bisogna fare di questo giorno un giorno indimenticabile. In assenza di ricorrenze
più durature, o significative, anche celebrare un mese di astinenza dalle sigarette può andare bene. Sente un’euforia leggera come un brivido corrergli lungo i sentieri nervosi, penetrargli con metodo negli
ultimi recessi. L’antidepressivo sta facendo il suo sporco mestiere, e lo fa bene e in fretta, pensa. Secondo quale nesso, poi, un orologio possa rappresentare e quasi incarnare il concetto di festeggiamento,
per il momento rinuncia ad approfondirlo. Poi gli viene in mente. Una cosa: ecco cos’è, una cosa. Una cosa di acciaio, con un peso e una dimensione, discretamente esclusiva, sinonimo di soldi e di saper
vivere. Una cosa che gratifica e distingue, dà qualità a un’intera persona, una cosa da vestire, da esporre, che propone un giudizio, dà un voto. È impossibile che chi ha un Rolex al polso non sia almeno
un Direttore di Banca, un Dirigente, un Manager. Chiunque sfoggi un Rolex deve per forza essere un Dottore, un Ingegnere, un Avvocato; nella più disperata delle ipotesi un Architetto. Un Dottore, un vero
Dottore non può non avere almeno un Rolex nel cassetto del comodino, come non può non avere almeno un piumino Aquascutum, un paio di Church’s lucidissime, un gessato, girare come minimo in
Audi. E d’estate? Magliette Guru, e chissà che altro. Molti si sentono nessuno senza una Guru. A questo punto gli si insinua il dubbio ostinato che una maglietta Guru c’entri veramente poco con un Dottore. L’antidepressivo è come la primavera, i suoi pensieri si sono eccitati, sono corsi troppo avanti, e l’uomo con la camicia azzurra ha dovuto richiamarli come si fa con i cani. Forse, pensa, d’estate è meglio lasciare perdere i titoli e concentrarsi sull’appeal fisico e le palestre.
Dal bagno la moglie gli grida qualcosa che ha a che fare con qualcos’altro. Il rumore dello sciacquone copre le ultime parole; poi altri rumori di piccoli pezzi di plastica sbattuti l’uno contro l’altro, acqua che corre, piedi che ciabattano. Nella testa dell’uomo si forma una scritta, un’insegna al neon rosso che pulsa nell’oscurità, NO NO NO NO.
Fa scorrere la tenda, dà un’occhiata fuori dalla finestra. Dal cielo comincia a piovere una luce lattiginosa che intride la nebbia spessa. Gli sembra di essere sul fondo di un mare intorbidito. L’uomo con la camicia azzurra apre il cassetto del comodino e tira fuori il cofanetto con gli orologi, stando attento a non rovesciare la fiaschetta mezza piena di gin. Appoggia il cofanetto sul letto, lo apre, osserva il Rolex appoggiato sul raso rosso, prende la fiaschetta e senza mollare gli occhi dall’orologio si fa un goccio. Questa volta il brivido è più intenso, quasi una frustata; gin e Xanax se la intendono, sono due professionisti che lavorano bene assieme. In camera entra la moglie avvolta nell’accappatoio, se
lo toglie e lo butta sul letto, resta nuda. Da un cassetto prende alcuni indumenti intimi e comincia a metterseli. L’uomo le guarda con insistenza il pube, la pancia, il seno un po’ rilassato ma ancora molto
attraente, i capezzoli larghi e scuri, appuntiti. Il pene dell’uomo si gonfia dentro i pantaloni. La donna non si accorge nemmeno del marito; mentre si piega per mettersi le mutandine incrocia lo sguardo
dell’uomo, ma è come se non lo vedesse. Lentamente gira la testa, senza parlare continua a vestirsi come se lui non fosse lì, come se lui fosse una cosa, uno dei mobili della stanza. L’uomo sente desiderio e
rabbia, così tanta rabbia che fatica a deglutire. Per non soffocare va in bagno, dopo un paio di conati si sente meglio. Quando alza lo sguardo, vede nello specchio un uomo con gli occhi arrossati e una
piega amara sulla bocca. Si passa una mano nei capelli ingrigiti, il movimento va dalla fronte al lato sinistro. Si costringe a pensare termini volgari. Per l’ennesima volta si rende conto di detestare sua moglie almeno tanto quanto ne desidera il suo corpo. Pensa al corpo di sua moglie praticamente sempre,
durante il giorno. Pensa a corpi femminili nudi, accatastati, migliaia di corpi aggrovigliati, labbra carnose che si schiudono, natiche soffocanti sopra lingue che guizzano come fiamme, rosse di sangue, volti congestionati sui quali non si vedono gli occhi. Pensa a liquidi organici che luccicano su pelli di ogni colore, a sudori e umori intimi e saliva. Ma soprattutto pensa a sua moglie, alla sua pelle, che l’uomo avrebbe potuto sfiorare e accarezzare e annusare se solo avesse voluto. È lì a portata di mano, sono sposati da più di quindici anni, senza figli, hanno tutto il tempo che serve. Ma non succede niente. Nella più totale indifferenza la donna ha finito di vestirsi davanti a lui. La testa gli pulsa come se avesse la febbre. Sua moglie neanche sa chi sia, non sa più niente di lei da molti anni se non che è una persona fredda e sgradevole, che lo disprezza. Sa anche che vale esattamente il contrario. Ogni sera sono due estranei che casualmente entrano nello stesso letto.
L’uomo con la camicia azzurra esce di casa senza salutare la moglie, come al solito, e scende le scale. Buongiorno dottore, buona giornata, gli fa l’inquilino del primo piano incrociandolo sulla porta di
ingresso. Sei un idiota, pensa l’uomo con la camicia azzurra sibilando un saluto fra i denti. Non è dottore, non è arrivato ad esserlo per un paio di esami, questa ormai è storia di parecchi anni fa, quando vedeva davanti a sé un futuro luminoso e certo; ma inspiegabilmente ora è imprigionato in un presente che non
corrisponde a quel futuro. È costretto a vivere una vita che non gli appartiene, che non sa di chi sia, mentre la vita che, non c’era alcun dubbio, avrebbe dovuto essere di sua competenza, e che solamente
aspettava che lui arrivasse, ora è desolatamente disabitata. Evidentemente ci deve essere stato un momento in cui si è distratto, e per caso ha sbagliato strada. Ora vive in un tempo in cui non è
dottore ma viene chiamato dottore, non è nessuno ma tutti lo credono qualcuno. Ciò che nel futuro che gli apparteneva, e che gli è stato sottratto, sarebbe stata sostanza solida, nel presente improprio
in cui ora si trova ha la consistenza del fumo, della nebbia che avvolge ogni cosa là fuori. Non sa dire quando il titolo gli si è appiccicato al nome, ma ormai ha rinunciato a correggere i suoi interlocutori. Ora è un quarantenne col telefonino di ultima generazione, fa vacanze in luoghi esotici pieni di turisti, veste in
maniera elegante e un po’ esagerata, ma stando sempre appena dentro i limiti del volgare. I vicini lo vedono cambiare auto una volta ogni due anni, anche meno, e sempre aumentando la cilindrata, la
potenza, l’aggressività della carrozzeria. Nel parcheggio del condominio c’è l’Audi TT che lo aspetta, l’ultima conquista. Ci sale, e parte facendo andare su di giri il motore.

Gli antidepressivi gli hanno regalato un’eredità pesante di effetti collaterali. Fa incubi tremendi e incomprensibili. Sogna spesso un omino piccolo, triste e brutto, di cui nel sogno si prende gioco, lo
odia, lo disprezza. Nel momento in cui crede di sapere chi sia, le sue stesse urla lo svegliano in piena notte, lasciandolo spossato e incapace di capire in che luogo e in che tempo si trova. Un paio di
volte, quando per lavorare aveva ancora bisogno di una scrivania e di un telefono fisso, ha dato in escandescenze in ufficio, si è messo a sfasciare tutto quello che gli capitava a tiro, e i colleghi chiusi in
bagno hanno dovuto chiamare il Pronto Intervento con un cellulare. Ma è in auto che gli antidepressivi si mettono a girare proprio bene. Lo rendono estremamente concentrato, reattivo, è come se stesse
giocando a un videogame. La mente è inchiodata alla strada che ha davanti a sé, ma perde la nozione e la percezione del suo corpo, il rischio di un incidente è eliminato, conta solo guidare bene, e veloce,
nella nebbia. Il piede spinge sull’acceleratore, sempre di più, le traiettorie si affilano, gli piace lasciarsi andare sul limite dei millimetri e dei secondi, la macchina risponde bene alle sollecitazioni più
azzardate. Vede fari lampeggiare, molti suonano il clacson infastiditi dalla sua guida spericolata, senza rendersi conto di buttare benzina sul fuoco. Lungo un tratto rettilineo, l’uomo apre il finestrino e getta
fuori una bustina con qualche residuo di polvere bianca, che subito viene inghiottita dall’umidità. Il tipo che glie l’ha procurata gli ha assicurato che costa una fortuna ma è roba di qualità, ne basterebbe
un pizzico per stendere chiunque. Per non sbagliare l’uomo ha disciolto quasi tutta la bustina dentro la bottiglia di bourbon che la moglie nasconde nel disbrigo, dietro una catasta di vecchie riviste, e
che a quest’ora starà sicuramente prosciugando, come al solito. Non è mai riuscito a capire perché la moglie cambi continuamente marca di whisky, perché non si affidi ad un unico vero amico per sempre,
come fa lui. Non vuole ucciderla, ci mancherebbe, vuole solo lasciarle un ricordo incancellabile di questi anni, come per esempio un intestino mezzo sciolto da una dose letale di lassativo, che la costringa a vivere per sempre con un buco nella pancia dal quale spurghi merda in continuazione. Oppure un esofago eroso dall’acido, che lentamente ma inesorabilmente marcisca fino a diventare terreno
di coltura per una fioritura di tumori. Non sa esattamente cosa ha comprato, ma il tipo gli ha descritto effetti di questo genere. La cosa comunque non ha più importanza, ormai, fra lui e la sua vita apocrifa si sta accumulando sempre più tempo e strada, davanti a lui c’è un futuro impalpabile come la nebbia, il prossimo passo sarà un lungo viaggio in treno, poi attraverserà il confine a piedi, dalla parte delle
montagne, e poi dovrà trovare alcune altre soluzioni per depistare eventuali indagini che per il momento sono solo abbozzate nella sua testa. Si è convinto che da un certo momento in poi è necessario
lasciare fare al caso, per aumentare le probabilità di riuscita della fuga. Almeno non deve preoccuparsi dei soldi, le due ventiquattrore che si porta dietro ne contengono a sufficienza per ristabilire il proprio equilibrio ovunque.

La bicicletta tipo Olanda sbuca improvvisamente dalla nebbia, davanti ai fari. Per istinto l’uomo sterza con violenza, ma con un ruggito l’Audi si getta sulla bici come se fosse una preda, la schianta, la divora, salta sopra i rottami. Infine con una leggera vibrazione si attiva l’ABS, l’Audi rallenta, poi si ferma.

Silenzio e nebbia. L’uomo con la camicia azzurra guarda fisso davanti a sé. L’adrenalina trasforma la sua corrente sanguigna in un maelstrom. La nebbia pulsa di giallo, sono le luci di posizione che si sono attivate automaticamente per la brusca frenata. L’uomo innesta la retromarcia, fa fischiare le ruote, prima che abbia tempo di rendersi conto della sciocchezza la macchina sobbalza di nuovo. L’uomo sente qualcosa cadergli dentro, nel vuoto che ha al posto dell’intestino.
Nebbia e silenzio. L’uomo esce lentamente dall’auto, il sudore gli si congela addosso all’istante. La luce dei fari alogeni si frantuma contro il muro di vapore. Pochi metri più in là del muso dell’Audi c’è una
massa i cui contorni non sono ben definiti. La massa respira a scatti, faticosamente. L’uomo si avvicina, tutti i sensi allertati per frugare dentro la nebbia e percepire anche il minimo segnale della presenza
di qualche macchina in avvicinamento. Una gamba della donna, ora vede che è una donna, anzi una ragazza, una ragazzina, è innaturalmente piegata in fuori all’altezza del ginocchio. Qualche parte del telaio della bici deve essersi spezzata, perché dal fianco della ragazza esce una specie di tubo tutto storto, che sbatte sull’asfalto ad ogni respiro. La ragazza è stesa sulla strada, attorcigliata a ciò che resta della bici, e sotto la sua testa si sta allargando una chiazza scura di sangue. Non aveva il casco, pensa
l’uomo che intanto è a un passo dalla ragazza. Quando si piega sulle gambe per osservarla da vicino, la ragazza gira la testa verso di lui, e lo guarda con due occhi velati e spenti. Sull’asfalto resta un po’ di
poltiglia grigiastra. Emette un debole lamento, poi con un grugnito che le sale dallo stomaco butta fuori dalla bocca un grumo di sangue e saliva. L’uomo si tira indietro bruscamente, per istinto si guarda le
Church’s. Il tubo ora sbatte con rapidità, mentre come un drenaggio fa colare un liquido giallo e rosso, che puzza. La puzza colpisce l’uomo con la forza di un pugno, lo fa barcollare inorridito. I conati della ragazza si fanno più forti e irregolari, le sbattono i denti ed è scossa da violenti tremiti.
L’uomo guarda il Rolex. Guarda l’Audi, le luci gialle che lampeggiano nella nebbia. Guarda la ragazzina, potrebbe essere sua figlia, questo è un pensiero che gli si genera automaticamente ogni volta che osserva un adolescente. Ma lui e sua moglie non hanno figli, sono sposati da quindici anni e non hanno figli. All’improvviso non vuole niente altro che sentire il metallo freddo della maniglia dell’Audi nella
sua mano, vuole sentirsi avvolto dal calore del sedile in pelle, vuole sentire l’accelerazione schiacciarlo indietro, vuole passare accanto ai rottami della bici e della ragazza, sta passando, è già passato, veloce, più veloce ancora, è già lontano nella nebbia. Dopo un po’ non sente nemmeno più quell’odore osceno, non sente più i rantoli. È tutto passato, ora deve di nuovo concentrarsi sul suo futuro.
L’uomo con la camicia azzurra parcheggia l’auto davanti alla Stazione, con uno squittio e il doppio lampeggio delle luci di posizione l’Audi TT gli conferma lo scatto della chiusura centralizzata e l’attivazione dell’allarme. L’uomo si avvia verso la Stazione Centrale dei treni, assieme alla folla schiuma come la risacca oceanica attraverso le grandi arcate dell’ingresso monumentale, spintona per fare il
biglietto, trova l’indicazione per il binario da cui parte il suo treno, è in ritardo, correndo urta altre persone.
L’esplosione della Stazione Centrale si sente a chilometri di distanza.

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