Premio Racconti nella Rete 2025 “Credere” di Mattia Tonin
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025I superstiziosi muoiono due volte
– Arkhan, figlio di Zardosht – risponde.
I rametti bagnati scoppiettano nel fuoco che ci separa. Non ricambia la domanda e non sembra curarsene. Per me è quasi un sollievo. Avrebbero iniziato a cercarmi al termine della guerra: meglio non lasciare tracce. La pena per i disertori è la morte.
Per un po’ continuiamo a guardare il fumo che sale sopra la strada, e rimaniamo in silenzio, svuotando la fiaschetta di acquavite.
– Cosa fate qui? – riprende l’uomo. – Non immaginavo avrei incontrato nessuno questa notte. È da pazzi attraversare le steppe da soli, in questa stagione.
– Non lo stai forse facendo anche tu?
– Sì. – Annuisce lentamente e abbassa gli occhi sul fuoco.
Quest’uomo ha di certo qualcosa da nascondere. Come me, del resto. Non fosse per la disperazione, non si sarebbe nemmeno fermato. Non fosse per l’acquavite che gli ho offerto, non sarebbe rimasto. Beve molto, avidamente, ma non ha cattive intenzioni. Sembra innocuo. In questo deserto buio, sono più utili i vivi dei morti. Aiutano a non impazzire.
Beve ancora dalla fiaschetta e si schiarisce la voce con due colpi di tosse. Credo sia ubriaco.
– Sto fuggendo – dice infine.
– Hai disertato? Sei un soldato. Vero?
– Ho disertato la morte – sospira. – La guerra è finita.
Mi sento improvvisamente più debole. Sento il sangue risalirmi alla testa come un’onda. Un brivido mi attraversa. Se la guerra è davvero finita, allora avranno già iniziato a cercare i disertori. Non mi aspettavo che succedesse così in fretta. Ma non so se posso credergli. È ubriaco e confuso. Come può aver disertato e sapere con certezza che la guerra è finita?
– L’hai vista, la fine della guerra?
– Sì. Il grosso dell’esercito imperiale è arrivato in tempo. Appena in tempo.
***
Arkhan camminava lungo il sentiero di terra battuta da mille camminate. Si era svegliato presto e stava andando al ruscello a riempire il secchio. Nel freddo dell’alba pensava a tutte le volte che aveva accompagnato il nonno lungo quella strada. Il nonno era una persona diversa da tutte le altre che aveva conosciuto. Quando anche lui era un ragazzino, gli raccontava, era stato mandato al tempio e lì aveva trascorso diversi anni. È per questo che sapeva leggere e scrivere, ed è per questo che conosceva tutte quelle storie del mondo.
Lungo la strada del ruscello gli raccontava delle tigri del nord, degli inverni in cui sparivano gli uccelli, di Ahura Mazda e le sei scintille, della rabbia di Angra Mainyu. Un giorno, quando anche il padre era ancora vivo, Arkhan rubò il pane della sorella Zelsa.
Zelsa, affamata, andò a chiederne altro alla madre, ma non venne creduta, e la madre la picchiò.
Poco più tardi, il nonno trovò Arkhan nascosto dietro il capanno del cavallo, intento a mangiare quel pane.
Arkhan ebbe una paura folle: temeva la rabbia del nonno e le botte del padre. Ma il nonno lo guardò e non disse nulla. La mattina seguente, mentre andavano al ruscello, Arkhan, con timore, gli chiese perché non se la fosse presa con lui. Gli rispose che, in realtà, si era arrabbiato. Ma non stava a lui decidere del suo bene. Gli disse:
– Devi fare le cose che credi giuste, e solo cose buone torneranno a te. Sei responsabile delle tue azioni. Se pensi di aver commesso qualcosa di ingiusto, sappi che da questo non verrà nulla di buono.
Nei tre giorni seguenti, Arkhan diede metà del suo pane alla sorella. Il padre, felice di quell’amore dimostrato per Zelsa, intagliò un piccolo cavallo di legno e lo diede in dono ad Arkhan.
Rientrava verso casa con il secchio pieno, quando un uomo a cavallo e ben vestito gli passò accanto. Arkhan si preoccupò per la sua famiglia: quel sentiero portava a casa sua. Richiamò l’uomo, che rallentò e si fece raggiungere.
– Da dove venite, buon signore? – chiese Arkhan.
– Cerco Arkhan, figlio di Zardosht – rispose l’uomo.
Arkhan trattenne il fiato. Silenzio. Il cuore gli colpì le costole. Guardò l’uomo a cavallo. Non era di quelle terre, parlava con un accento strano. Il soprabito non era consumato, e gli stivali erano puliti.
– Sono io – disse infine Arkhan.
L’uomo annuì con l’aria di chi non ha altro da aggiungere. Infilò la mano in una sacca e ne estrasse una lettera. La aprì e iniziò a declamare, ma Arkhan lo fermò.
– So leggere – disse con orgoglio.
L’uomo lo guardò con più attenzione, poi gli porse la lettera. Girò il cavallo e fece un cortese cenno di saluto ad Arkhan.
Lo scialle verde scuro cadeva sulle sue spalle, più pesante del solito. Amina rimestava la cena sul fuoco e sembrava ignorare la sacca di cuoio appoggiata sull’uscio. Da quando, all’alba del giorno prima, era arrivata quella lettera, non riusciva a darsi pace. Sarebbe stato un inverno senza uomo, e forse il primo di molti.
Con un colpo della mano fece vorticare le mosche che ancora si avvicinavano alla zuppiera, poi si mise alla finestra. Il sole calava lento, e l’orizzonte tremava di un pallore freddo.
Fuori, Arkhan assicurava la sella al cavallo. Gesti di tutti i giorni, ma oggi più lenti e difficili. La stalla era buia, un ricovero fatto di assi di legno e coperture di pelli. Il puzzo di quel posto era parte di lui: odore di quiete, di casa, di rassegnazione all’incedere dei giorni.
Solo un fazzoletto di polvere senz’alberi. In fondo, dove cominciava l’erba, c’era il recinto delle capre. Dall’altro lato, la casa. Un piccolo edificio quadrato, fatto di pietre vecchie e resistenti, ingrigite dal vento. Tutt’intorno, una distesa di terra ed erba ghiacciata correva da un orizzonte all’altro, interrotta solo da sparuti alberi neri, curvi come ossute vecchie ingobbite.
Arkhan guardava la casa che suo padre aveva costruito e pensava al figlio appena nato. Pensava alle bestie, pensava ad Amina. Si chiedeva se avrebbe mai rivisto i suoi figli.
Non era mai andato alla guerra.
Prese la fiaschetta da sotto la pelliccia e bevve un lungo sorso. Sarebbe stato un inverno duro per tutti.
Assicurò le briglie e diede una razione abbondante al cavallo. I vecchi dicono che, prima di partire, bisogna ingraziarsi gli dèi. La buona sorte ha un prezzo.
Avrebbe dovuto sgozzare una capra per garantirsi la fortuna, ma in quella stagione, senza cibo, sarebbe stato uno spreco imperdonabile.
Si sorprese in questo pensiero e si sentì colpevole. Pestò più volte la terra ghiacciata con il piede per cacciare via quell’idea, fino a farsi male. Che gli dèi potessero leggergli la mente?
Era sempre stato un uomo retto, uno che paga i suoi debiti e onora gli dèi. Suo nonno lo ripeteva sempre: – Pensieri buoni, parole buone, azioni buone.
Entrò in casa ancora turbato. La prima delle due stanze era la cucina: la buca del fuoco, un piccolo tavolo di legno, una cassa per sedersi e molte cose appese alla parete opposta alla finestra. Amina cucinava. Il bambino giocava con dei sassi per ingannare la fame e il freddo. Arkhan li guardò senza tirar fiato. “Non avrebbero superato l’inverno senza la capra”, pensò. Si sedette vicino alla porta e si prese il capo tra le mani, poi si versò un bicchiere per scaldarsi.
Amina non badava a lui. Curava il fuoco e rimestava la zuppa con gesto ossessivo. Si grattava la testa, non diceva una parola. L’aveva sposata che suo nonno era ancora vivo, suo padre invece morto da un pezzo. Quando gliela diedero in sposa non sapeva cosa fare, era ancora un ragazzino. Al loro primo incontro passò più tempo a guardare il nonno e la madre che Amina. Non le disse nulla, si limitò a un saluto con il capo. Entro la stagione furono sposati, e ben presto nacque il primo figlio.
La madre di Arkhan morì un anno dopo, e il nonno poco più tardi. Morirono entrambi nella stanza accanto a quella in cui ora si trovava, sul saccone dove adesso lui dormiva.
Il nonno morì sereno, mentre Arkhan si chiedeva come avrebbe tirato avanti senza di lui. Il giorno in cui si addormentò per sempre, gli strinse la mano e gli disse:
– C’è una sola via, ragazzo, ed è la via della verità.
Non capì mai il senso di quelle parole, ma da quel giorno cominciò a scaldarsi con l’acquavite. I lavori all’aperto erano più duri, da solo.
Dopo il bicchiere si sentì un po’ meglio. Bevve un altro sorso e si avvicinò ad Amina. Lei non si voltò. Lo ignorava di proposito. Arkhan sentiva la sua rabbia, e la capiva, ma non riuscì a non risentirsi. Bevve ancora un po’ e versò quel che rimaneva della bottiglia nella fiaschetta. Si sentì all’improvviso più forte, più risoluto. Decise di non sacrificare la capra agli dèi. Prese la sacca e uscì.
Non chiuse la porta e andò a montare il cavallo. Avrebbe dovuto cavalcare tutta la notte. Si strinse nella pelliccia e non si voltò a guardare la casa. Spronò la bestia verso ponente, e si allontanò.
Amina si asciugò le lacrime dal viso con le mani sporche e corse all’esterno. Si scoprì a gridare, ma era come se non riuscisse a sentirsi. Arkhan ormai era solo una figura che vibrava nera sulla luce dell’orizzonte.
***
– Quindi non sei un disertore.
– No, non potrei mai…
Si interrompe e stringe gli occhi come se avesse una fitta. Credo stia piangendo.
Non si sente nessun rumore tutt’intorno. Una lunghissima pianura senza vita. Nemmeno questi pochi alberi sembrano ospitare animale alcuno, eccezione fatta per i cavalli che vi abbiamo legato. Temo che il mio possa morire di freddo nella notte, e cerco di ravvivare il fuoco.
– Ma quindi da cosa scappi? – chiedo.
– Dalla mia morte.
– Ma cosa…?
– Non ho rispettato gli dèi. Ho fuggito il mio destino. Ho ingannato la morte.
– Tu sei ubriaco. Io non credo a queste superstizioni.
– A cosa credi, dunque?
– Non credo esista un destino – rispondo, cercando di organizzare i pensieri. – Credo solo che la vita sia una tragedia. Lo senti questo freddo? Quale scrittore di destini potrebbe aver mai pensato a un freddo simile senza averlo mai provato? E chi l’avesse provato, non lo scriverebbe certo nei destini degli uomini.
– Non ti capisco. Forse anche tu sei ubriaco.
– La vita è una tragedia, è un enigma da risolvere, una prova da superare. Per andare dove, non lo so.
Mi interrompo. Penso che la mia vita forse non durerà molto ancora. Se non mi avrà preso il freddo, lo farà la milizia imperiale.
Arkhan segue il fiato che gli esce dalle labbra e sale verso l’alto. Le stelle si vedono pallide, questa notte.
– Forse non ti sbagli del tutto – riprende Arkhan. – Ma il destino esiste. Esiste, e lo scriviamo noi con le nostre azioni, passo dopo passo. Giusti pensieri e giuste azioni guideranno il tuo destino verso un corso felice. Verso la luce.
Non serviva spingersi così a nord per incontrare bigotti del genere. Il mio tutore, Yasim, che mi istruiva nella biblioteca di famiglia, lo diceva spesso. Quando, tra un racconto e l’altro, mi lamentavo annoiato, si fermava a guardare le nostre terre dalla finestra e indicava:
– Vedi quegli uomini? Non sanno e non capiscono. Sono disposti a credere a qualsiasi cosa pur di sentirsi sicuri. Una volta che gli si è dato il pane e la sicurezza, non sono più disposti a sapere né a capire.
Guardo il buio attorno a noi. Sto congelando. Mai provato un freddo simile. Sono ben coperto, ma tutte le pelli del mondo non potrebbero scaldarmi in questo luogo sterile e miserabile. Guardo Arkhan, il timore che ha nel volto. È incredibile che io sia finito qui, a bivaccare con quest’uomo.
Per un attimo penso che forse questo pazzo non ha torto. So che non è stata una bella prova la mia: uccidere il compagno per non farmi vedere mentre fuggivo. Ma sono certo che fosse l’unica soluzione per scamparla.
– Arkhan, com’è stata la guerra?
***
Sangue. Non vedeva altro da giorni, settimane.
Ormai non badava più alle urla. Era stanco e sporco. Aveva marciato per non affaticare il cavallo prima della battaglia, e ora si trovava incapace di resistere ancora. Come se la stanchezza delle gambe fosse salita lungo la schiena e, ancora più su, fino alla testa. Fece un sorso dalla fiaschetta e si guardò intorno. I suoi compagni cadevano uno dopo l’altro.
La ferocia di quegli uomini lo impressionava: non gli sembravano nemmeno uomini. Combattevano in modo diverso, il sangue li esaltava. Arkhan non riusciva a pensare a loro come a esseri umani. Non poteva immaginare che potessero avere famiglie. Che potessero amare. Eppure, gli dèi erano dalla loro parte. Le armate di Khiva.
Demoni della guerra. Demoni a cavallo.
Fece un altro sorso e pensò ad Amina. Quegli uomini li avrebbero sconfitti, e sarebbero arrivati fino alla stalla, alla corte, fin dentro ai muri della casa, anneriti dal fuoco. Suo figlio sarebbe cresciuto senza padre, in una terra ormai straniera. Questo pensava quando si lanciò in avanti a cavallo.
Subito il mondo si svuotò sotto le gambe: il nulla, poi l’impatto violento a terra. Il cavallo abbattuto nitriva disperato, con una gamba mozzata. La guancia di Arkhan sul suolo ghiacciato. Era la fine.
Avrebbe dovuto sgozzare la capra. Aveva peccato in coraggio. Quando vide la morte arrivare, capì.
Un uomo dal volto oscuro, stretto in fasce di lana, urlava brandendo una pesante lama.
Arkhan strinse gli occhi di fronte alla fine.
L’urlo si interruppe, poi riprese spaventoso vicino a lui. Arkhan aprì gli occhi e lo vide: steso al suolo lì accanto, il suo assassino ora era riverso con una grossa ferita che gli apriva l’addome e correva dietro la schiena. Lo finì con un colpo tra la spalla e il collo. Per un istante rivide la sua capra.
Cos’era accaduto? – pensò, sgomento.
Aveva ingannato la giusta sorte. I reggimenti imperiali erano arrivati in gran numero da sud. La battaglia non era ancora perduta.
Si svegliò con gli schiamazzi dei ragazzini che bastonavano un cane. La fiaschetta era vuota. Si alzò e fece per uscire dalla tenda. Aveva un gran mal di testa. Guardò la donna che aveva pagato. Non ricordava dove l’avesse incontrata. Era la prima notte che passava con lei? – si chiese.
Era confuso. Scostò la pesante pelle ed uscì. Venne accecato dal sole. Gli occhi gli facevano male. La gola bruciava. Doveva trovare dell’acqua. Guardò il borsello alla cintura: della ricompensa reale non era rimasto molto. Tutta consumata in donne e vino. Ne voleva ancora.
Era vivo. Era sopravvissuto anche a questo inverno. Doveva andare al mercato. Avrebbe mangiato qualcosa, si sarebbe sentito meglio. Prese un soldo per farsi riempire di nuovo la fiaschetta. Esitò un istante, poi ricordò le fibbie d’oro rubate dal cadavere di un ufficiale. Decise di spendere il soldo. Quella roba gli avrebbe riscaldato il cuore.
La primavera iniziava appena sulle piane del Turan, ma il sole faticava ancora a scaldarlo. Aveva bevuto troppo, di nuovo. La testa era una ferita aperta al sale della piazza. Ogni passo negli stivali era una martellata alle tempie. Aveva sete.
L’acqua era più rara del vino, in quei giorni di festa. Barcollava tra la gente cercando del cibo. La gola secca. Troppe voci nelle orecchie. Il puzzo del grasso di montone gli dava la nausea. Cercò di scacciarla con un altro sorso dalla fiaschetta. Gli bruciò lo stomaco.
Si diresse verso una bancarella dove si cuocevano pani in un forno di terracotta, ma una spallata lo fece girare sugli stivali e si trovò a terra, tra la gente del mercato. Circondato da un bosco di piedi e stivali.
Piantò un pugno a terra e cercò di rialzarsi, mentre una donna trascinava via i figli, guardandolo con disprezzo. Non capiva bene la lingua di quelle parti. Si sentì smarrito. Con fatica, un ginocchio per volta, si rimise in piedi e si trascinò verso il forno. Trovò un posto a sedere. Gli portarono del tè e un pezzo di nan caldo. Bevve avidamente. Era tiepido, ma bastava.
Guardò l’involto che usava da borsello: le monete bastavano per pochi giorni. Avrebbe dovuto saltare la cena – si disse – almeno finché non fosse riuscito a piazzare le fibbie. Con quelle non sarebbe stato difficile guadagnare abbastanza per un cavallo e delle pelli.
Sulla via di casa avrebbe comprato delle capre. Se i giorni avessero continuato a intiepidirsi, il cavallo sarebbe rimasto in forze, e non gli sarebbe servito troppo tempo per ritornare da Amina e dai bambini. Una luna, o poco più.
Il ghiaccio del fiume non sarebbe più stato spesso abbastanza per la traversata. Avrebbe dovuto allungarsi fino al guado più a nord. Sapeva che la città sul guado era un ottimo posto per comprare capre dai pastori che risalivano alle praterie del nord dopo l’inverno. Pensava ad Amina. Sarebbe stata fiera di lui. Avrebbe sgozzato una capra appena rientrato.
Pensava alla morte scampata per miracolo mentre masticava gli ultimi pezzi di nan. Chiese un nuovo sorso di tè al ragazzino, che si era spinto di nuovo nella ressa della strada per chiamare altri clienti.
Chiuse quel che rimaneva della colazione nel borsello insieme alle monete e ingollò il tè in fretta. Questa volta era molto più caldo. Strinse i denti per il dolore alla gola e allo stomaco. Si alzò. Gli girava ancora la testa. Bevve ancora un sorso dalla fiaschetta. Nausea.
Si affannava tra la folla, senza sapere bene dove andare. Cercò di concentrarsi. Doveva vendere le fibbie. Pensò al cadavere dell’ufficiale. Quell’uomo era morto in battaglia. La stessa battaglia da cui lui era uscito miracolosamente vivo. Si sentì colpevole. Rivide la sua capra.
Il pensiero lo disturbava. La testa era pesante. La sete già tornata.
Si era perso. Quanto tempo era passato? – si chiese.
Il sole aveva varcato il mezzogiorno. A quest’ora Amina aveva già sfamato i ragazzini. Chissà se allattava ancora? Il piccolo doveva ormai essere abbastanza grande per stare ritto sui suoi piedi.
Una spallata improvvisa. Barcollò e si trovò aggrappato al soprabito di un uomo che lo spinse via, grugnendo parole incomprensibili. Riprese appena l’equilibrio quando un’altra spallata lo fece roteare.
Si appoggiò al fianco saldo di uno sconosciuto per non cadere, e scrutò la folla.
Una donna vestita di nero lo guardava da sopra tutte le spalle. Era alta per essere una donna.
Non era vecchia, ma Arkhan non sapeva definirne l’età. I suoi occhi erano sottili come aghi. Guardava nella sua direzione.
Arkhan sentì una fitta allo stomaco e cercò di allontanarsi dalla folla. Pensò che forse avrebbe potuto vendere le fibbie all’emporio. O forse il fabbro aveva bisogno d’oro per l’elsa di qualche spada.
In città c’era gente d’ogni specie: reduci, mercanti, puttane, ufficiali, fanti pezzenti, disertori e senza terra. La città era una temporanea capitale del disordine. Un carnevale di sollievo e rovina.
Vide l’emporio. La ressa si diradava davanti al negozio. Gli scaffali erano ricchi di pelli, spezie, teiere, specchi. Uno specchio ovale, mosso dal vento, ruotava lentamente appeso a una corda. Si mise a guardarlo, senza un motivo, mentre piano girava riflettendo tutto il mondo attorno. Fu allora che la vide ancora.
Una donna in nero lo fissava dal riflesso dello specchio. Sembrava ancora più alta, senza la cornice della folla. Era strano, per una donna di quelle parti, essere così alta. Era inquieto.
Rivide la capra. Il sangue mai versato. Il miracolo in battaglia. E capì. Gli dei non dimenticano.
La testa girava. La nausea dell’alcol gli accartocciava i pensieri. Sentì il brivido della fine. Il freddo della lama. Vide riflessi nello specchio i suoi stessi occhi, e si vide fragile. Capì l’inconsistenza della sua vita mortale. Spiga tra mille altre, esile ramoscello nelle sterminate messi d’uomini. Inerte contro la falce che tutti miete.
Le gambe gli cedettero. Provò a scappare ma cadde dopo pochi passi. Si rialzò. Desiderava solo fuggire al suo destino, ma non sapeva come. Era ormai tempo che gli dèi venissero a riscuotere il dazio.
Il respiro era corto, affannato. Doveva tornare a casa – si disse. Sarebbe rientrato carico di doni, di pelli e bestiame per Amina. Sarebbe morto guardando la linea del Pamir, lì dove si alza il sole.
Aveva bisogno di aiuto.
Si ricordò di Efez, il sottufficiale conosciuto dopo la battaglia. Avevano venduto delle pelli assieme, sulla strada per la città. Arkhan gli aveva offerto del vino, quando ne correvano fiumi. Non gli avrebbe negato aiuto.
Ingollò buona parte della fiaschetta e si mise alla ricerca di Efez. Chiese di lui in tutte le strade, e non ci volle molto per trovarlo. Stava alla locanda.
Arkhan pensò che la locanda era un alloggio costoso. Forse, nell’affare delle pelli, Efez ci aveva guadagnato più di lui. Sentì salire un filo di rancore e cercò di ricacciarlo giù con un nuovo sorso.
Entrò nella locanda. Era ubriaco. I pensieri confusi. Gli dissero che Efez era al secondo piano.
Lo trovò disteso con una donna grassa. Nudo, non sembrava più lo stesso. Era uno di quegli uomini dal pelo fulvo e la pelle chiara, una pelle che nemmeno la guerra sa cambiare. Non l’avrebbe mai detto, vedendolo vestito.
Arkhan entrò nella stanza e gli raccontò tutto. Gli disse di essere in pericolo di vita. Gli girava la testa.
Efez, inspiegabilmente, andò su tutte le furie. Disse di non conoscerlo. Lo spinse nel corridoio, dove Arkhan cadde a terra.
Si alzò, cercò di calmare l’amico, di spiegarsi, di rientrare nella stanza. Efez urlava, chiamandolo pazzo ubriacone. Lo spinse di nuovo a terra. La donna grassa lo trascinò nella stanza mentre Efez cercava di colpirlo con un calcio. Arkhan rimase a terra, le mani davanti al volto, i palmi rivolti verso l’ex compagno. Trattenne le lacrime. Sentì l’ira crescergli nel petto. Si alzò e scese le scale, rischiando di cadere più volte.
Nel salone della locanda vide una donna sola, vestita di nero, bere da una brocca di vino. Una donna che beveva vino: non ne aveva mai viste.
Si turbò ancora. Aveva mal di testa.
Si fece riempire la fiaschetta dal locandiere, uscì, e vide il cavallo di Efez – o almeno sembrava il suo.
Lo sciolse e lo lanciò al galoppo verso levante.
***
– Ho a che fare con un pazzo – penso.
Probabilmente è ubriaco da settimane. In poche ore ha finito metà di tutta l’acquavite che avevo.
– Quindi è per questo che sei qui? Sei scappato perché hai visto una donna alta nella folla?
– Tu non capisci. Io non ho sgozzato la capra e…
– Lo so che sei preoccupato. Ma non stai ragionando. Dalle mie parti, al sud, le donne bevono il vino – gli dico, ridacchiando.
– Ho visto la mia morte in battaglia. Dovevo morire allora, per ripagare il mio debito agli dèi. Invece ho ingannato il mio destino. Ho rubato, ho bevuto, ho festeggiato per giorni.
– Sì, forse troppi. Ma da come sei messo, direi che le fibbie te le hanno rubate. Come mai galoppi senza sella?
***
Arkhan corse nel buio delle notti e nella luce dei giorni. Non si fermò mai per mangiare, ma quando cercò di masticare i pezzi di nan che teneva nel borsello, dovette arrestare il cavallo per il vomito. Non gli era chiaro quanti giorni fossero passati, ma giunse finalmente al villaggio sul guado. I pastori ancora non erano passati. Aveva tempo ora, ma non si sentiva bene. La fronte era calda. Era un cencio, quando cercò di vendere le fibbie. Camminò nel villaggio che, a quell’ora del mattino, era ancora vuoto. Passò il fiume che divideva in due l’abitato, dove il guado era più stretto.
Si avvicinò a un rigattiere che giocava a carte con dei compagni, seduto a terra vicino al banco della roba. Offrì le sue fibbie. Tutti lo guardarono senza voltare la testa. Solo il rigattiere, dritto in fronte a lui, gli piantò lo sguardo negli occhi.
Guardò i suoi vestiti sciupati. Lo sguardo si abbassò sugli stivali. Arkhan intuì il sospetto e parlò in fretta: non era un ladro né un assassino. Raccontò della guerra. Dell’ufficiale morto. Non le avesse prese lui, le fibbie, lo avrebbe fatto qualcun altro, si giustificò.
Il rigattiere si alzò, seguito dagli amici. Non sembravano più sospettosi. Sembravano spaventati. Gli chiesero di andarsene.
Rubare ai morti porta disgrazia – dissero. I morti tornano sempre per avere ciò che gli spetta.
La voce si diffuse nel paese. Nessuno volle comprare le fibbie, a nessun prezzo. Tutti lo cacciavano. Nessuno voleva un fantasma tra le mura. Decise di vendere la sella del cavallo per comprarsi del cibo.
L’avrebbe riacquistata coi soldi dell’oro. La vendette per poco, ma riuscì a mangiare un po’ di carne secca e a comprare del vino. Si fece riempire la fiaschetta.
Fu all’ultimo sorso che guardò verso ponente, stringendo gli occhi con fatica. La testa era pesante.
Vide una figura a cavallo all’orizzonte, vestita di nero. Era alta. Non ebbe dubbi. Era lei.
Capì che non gli era permesso fermarsi. Si alzò e riprese a cavalcare. Temeva di non essere veloce abbastanza. Il cavallo era esausto. Ma quando lasciò il paese e si voltò, non vide la donna a cavallo.
Pensò allora di potercela fare. Si rasserenò. Bevve un sorso e spronò la bestia.
Avrebbe allungato il tragitto fino a Samarcanda. Lì sarebbe stato al sicuro. In quell’immenso mercato avrebbe facilmente venduto le fibbie, e trovato le migliori capre.
Cavalcava da due giorni. Aveva quasi finito l’acquavite, ma il freddo notturno si faceva di giorno in giorno più mite, cavalcando verso sud. Il sole si abbassava veloce. Era stanco, e ormai non vedeva più la propria ombra sulla strada. Quella sarebbe stata una di quelle notti in cui la luna muore. Presto sarebbe stato troppo buio per cavalcare.
Vide delle ombre all’orizzonte. Sembrava un gruppo di alberi. Si sarebbe fermato lì finché non fosse tornata la luce. Quando fu abbastanza vicino, capì che di quegli alberi non restavano che le spoglie secche: crepe nere sul profilo del cielo.
Con enorme sorpresa vide un uomo trafficare in modo impacciato con un flebile fuoco.
Si avvicinò, e legò il cavallo di fianco al suo.
***
– Quindi non hai ancora venduto le fibbie. Le hai qui con te?
Che scemo sono stato – penso. Non dovevo mostrarmi così interessato. Ora si insospettirà.
– Sì, guardale – mi dice, passandomi un involto di pezza. – Quanto possono valere? Sono molto pesanti.
Prendo le fibbie tra le mani. Le soppeso. Sono pesanti e lavorate: per uno come lui, valgono una fortuna.
– Non credo molto – gli rispondo con sufficienza. – Ma ne avrai abbastanza per la sella e qualche capra.
Quest’uomo dev’essere uno stupido. Come può fidarsi di me fino a questo punto? Forse è solo molto ubriaco.
Ripenso a quello che mi ha raccontato prima. Per il momento, gli restituisco le fibbie. Ho ancora voglia di compagnia. Ormai è quasi l’alba.
– Se ti dirigi a Samarcanda, vengo con te.
In una grande città sarà più facile far perdere le mie tracce. Cambiarmi nome. Iniziare una nuova vita. Magari con i denari di Arkhan.
***
Arrivarono a Samarcanda. Si sfamarono e bevvero del vino.
Arkhan si sentiva salvo, e decise di bere ancora per festeggiare. Erano gli ultimi soldi, ma presto avrebbe venduto le fibbie – disse. Si alzò dal tavolo. Barcollava, ma era felice. Sollevato. Il vino gli aveva alleggerito i pensieri. Raggiunse la strada precedendo l’amico. All’improvviso il cuore fu sgomento. Lo stomaco sanguinava dentro.
Una donna alta, con un velo nero, lo guardava incuriosita dall’altro lato della strada. Arkhan decise di arrendersi. Non gli era possibile scappare. Attraversò la strada, faticando a mantenersi in piedi. Chiese alla donna come fosse possibile trovarsi uno di fronte all’altra a Samarcanda.
La donna sembrò sorpresa. Esitò. Poi sorrise, divertita:
– Perché? Dove altro, forse, dovremmo essere?
Arkhan fu prossimo al pianto. Non poteva sfuggire agli dèi. Il suo destino era segnato.
Avrebbe dovuto uccidere la capra quando era il tempo. Avrebbe dovuto rispettare i morti. Urlò di rabbia e terrore. Si strinse i capelli tra le dita sporche. Gli era difficile pensare. Corse di nuovo impaurito verso l’altro lato della strada, la testa in confusione. Un carro. L’impatto. Il nitrito di un cavallo e un grido. Poi il silenzio.
La donna con cui aveva parlato stava rientrando verso casa. Viveva poco lontano. Raccontò, scossa, dell’accaduto ai suoi familiari.
– Finché l’uomo ancora respirava – disse – un altro lo aveva raggiunto e gli aveva frugato le tasche.
Ci vollero ore prima che qualcuno si prendesse la briga di spostare il corpo dalla strada.
Uno dei tanti ubriachi incauti di ritorno dalla guerra.