Premio Racconti nella Rete 2025 “La voce del cuore” di Grazia Bertini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Imbruniva. La Cinquecento familiare arrancava su per la salita, rallentando ad ogni curva; tornante dopo tornante si apriva sempre di più la vista su quei monti tanto cari a Matilde. Quanti anni erano che non tornava? Cinque, forse sei. Si era ripromessa, quando dovette lasciare quei posti con la famiglia, di non tornare mai più; aveva resistito tutto quel tempo con il cuore dolente per la lontananza, con gli occhi ancora colmi della dolcezza selvaggia del paese, delle sue case di pietra arroccate sullo sperone che guarda la valle, con le viuzze strette, lastricate dove d’inverno, quando tirava quel vento gelido di tramontana, nemmeno i gatti passeggiavano.
Aveva resistito tanti anni perchè erano partiti malamente, quasi una fuga, dopo che i proprietari, allettati da un bel mucchietto di sterline, avevano venduto la casa in due balletti. Non c’era stato tempo, allora, di far parlare il cuore. Bisognava trovare con urgenza un altro posto dove andare, dove portare tutte le cose che avevano ammucchiato in tanti anni; bisognava andare e non guardare tanto per il sottile, non cercare qualcosa di speciale come era stata “Croce di Sotto” per loro, ma semplicemente una casa dove continuare a vivere.
Aveva implorato tutti gli abitanti del paese, Matilde, tutti coloro che possedevano case vuote ma sembrava che nessuno volesse, o potesse, affittarne una alla sua famiglia. E sì che in tredici anni di permanenza si erano integrati perfettamente nella piccola borgata garfagnina, si consideravano “del posto”. I figli avevano fatto comunella con i bambini del paese, Matilde era andata di casa in casa per farsi insegnare i segreti del vivere in montagna: aveva imparato a fare il pane con le patate, a conservare la frutta e la verdura per l’inverno e perfino a vangare un pezzetto di terra per seminare l’orto.
Suo marito, poi, era diventato in poco tempo “quello di città che sa fare di tutto” e non era raro che venisse chiamato ora da questo e ora da quello per piccole riparazioni per le quali, altrimenti, ci sarebbe voluto un tecnico e molti soldi. All’epoca, questi scarseggiavano un po’ dovunque, in paese.
La domenica mattina, quando il sagrestano suonava “i tocchetti” per la Messa, Matilde ed i suoi si avviavano giù per lo stretto sentiero comunale, che portava direttamente in piazza. Se c’era tempo, facevano quattro chiacchiere con la gente, altrimenti si ritrovavano dopo la funzione. C’era come un tacito accordo: la domenica non si poteva “correre” affaccendati come gli altri giorni, la domenica doveva essere un giorno dedicato alla famiglia, agli amici, con calma. Non era raro, infatti, che in quel giorno si scambiassero a turno inviti a pranzo: oggi un gruppo da Teresa, domenica tutti da Ester e così via. Due, tre volte l’anno toccava anche a Matilde e allora, il sabato, che sudate! Pretendeva l’aiuto di tutta la famiglia per fare bella figura: non voleva che si dicesse in giro che “quella di città” non sapeva fare da mangiare.
Con questi pensieri, intanto, Matilde era arrivata all’ingresso del paese. Non volle entrare in piazza con la macchina, non desiderava essere vista. Dopo che erano partiti, anni addietro, non aveva più voluto tornare, nemmeno per salutare gli amici. Mai. E l’avevano chiamata superba. Nessuno aveva capito quanto dolore avesse nel cuore, quanto male le facesse ritornare. Ed aveva preferito continuare ad essere offesa piuttosto che morire tornando.
Che cosa l’aveva decisa a farlo, ora? Non lo sapeva nemmeno lei. Non l’aveva detto neppure al marito che sarebbe andata “lassù”. Era partita e basta. Ed ora, mentre scendeva dalla macchina, uno strano tremolio l’aveva invasa tutta ed avvertiva allo stomaco un vuoto, la stessa sensazione che ebbe quando per la prima volta incontrò suo marito.
Per fortuna, nella piazza non c’era nessuno; dalle finestre aperte -era fine giugno- si sentiva un rumore di piatti e posate. Al paese era sempre usato cenare non appena imbruniva e poi andare a letto presto, ché la mattina il lavoro dei campi non aspettava nessuno.
Si avviò per la piccola strada contornata di cipressi che porta alla Chiesa grande. Era chiusa, ma se lo aspettava. Il gatto rosso della Loredana (era sempre vivo?!) le si avvicinò come se la riconoscesse. “Vieni, Giugetto, vieni!” Ed il gatto, fatto un paio di fusa, scomparve dietro il campanile.
Davanti alla Chiesa si apre un piazzale, beh, chiamarlo piazzale è alquanto esagerato, una piccola piazza a groppa d’asino, circondata da due o tre case ed in fondo, proprio davanti al campanile di pietra d’epoca romanica, c’è il belvedere. Matilde si affacciò alla balaustra fiorita di bocche di lupo e valeriana. Giù nella piana, verso la Turrite, si cominciavano a vedere alcune luci accese che tremolavano. Volse lo sguardo ai monti: le Panie si stagliavano nitide nel cielo pulito, sentinelle da secoli di quei posti.
Si riempì gli occhi di quello spettacolo e poi, piano piano, entro in via dell’Arco percorrendola lentamente. Non incontrò nessuno, nemmeno la Gioliva che solitamente, a quell’ora, andava al pollaio con il secchio del pane ammollato. Compiuto il giro del paese e ritornata in piazza, si inerpicò lungo il sentiero che portava a casa loro, alla casa di Croce di Sotto tanto amata.
Ecco la capanna del Luciano, con quei cesti esagerati di gigli di S. Antonio proprio davanti. Il profumo dei fiori la stordì un poco. Si fermò per riprendere fiato. Fu in quel momento che dalla casa di Federico, pochi metri sopra, uscì la moglie, Onelia, che durante gli anni della loro permanenza in paese era la sua più cara amica.
La vide, anche se ormai era quasi buio. “Matilde”, chiamò, “Matilde, sei proprio tu?” Correndo insieme, le due donne si ritrovarono abbracciate sul sentiero e Matilde riuscì finalmente a piangere tutte le lacrime che per anni, per pudore, si era portata dentro. Per pudore ed anche per non sentirsi prendere in giro.
Si sedettero, le due amiche, sul lastricato che delimitava l’aia della casa tenendosi per mano, quasi senza parlare. “Vai lassù?” le chiese Onelia. “Tentavo”, rispose Matilde con un filo di voce. “Tentavo, ma non so se alla fine ce la farò”. ”Non lo fare, sei stata tanti anni e non sai come gli inglesi hanno tutto rifatto, tutto modificato, tutto ritinto. Dami retta, ora soffriresti ancora di più a vedere come l’hanno cambiata! E’ diventata una casa di città, con tre bagni, la piscina, i campi da tennis. E poi, sai, hanno voluto farci anche la strada che arriva davanti casa. E “loro”, qua in paese non si vedono mai, e poi parlano in una maniera che non si capisce niente. Almeno quando c’eravate voi, che gioia avervi d’intorno!”
Matilde ascoltava, beveva le parole dell’amica: avrebbe voluto restare ancora e ancora, farsi raccontare tante cose, ma era tropo tardi e doveva fare tanti chilometri per tornare a casa. Si alzò. “Ti prometto che tornerò presto, ormai ho rotto il ghiaccio, un’altra volta mi sarà più facile, vedrai”.
Si abbracciarono ancora con quella promessa di rivedersi presto. Sapevano tutte e due che stavano mentendo.
Matilde si inoltrò per il sentiero; voleva e non voleva vedere la “sua” casa. Dove lo stradello cominciava a pianeggiare passando tra calzevote e alte querce e da dove avrebbe potuto vedere la casa, si fermò. Il cuore non resisteva, il suo cuore non voleva vedere quello che era stato fatto. Voleva ricordare le cose come lei, come loro le avevano lasciate. “Non ce la faccio”, pensò.
E tornò sui suoi passi, correndo quasi giù per il viottolo. In pochi minuti fu nella piazzetta odorosa di tigli. Passando dalla stretta via Marconi (già perchè l’avevano intitolata a Marconi proprio quassù in cima a questi monti? Le altre vie hanno tutti nomi particolari: dell’Arco, dell’Arcolaio, del Sole, del Poggione……) evitò per un pelo di incontrare una delle Fuzziche, quelle signorine Pieroni che avevano la bottega, l’emporio ed il posto telefonico pubblico del paese.
Entrò in macchina svelta, il cuore le batteva a trecento all’ora. Perché era tornata? Per quale ragione aveva voluto rivedere quel posto? Il suo cuore le dette la risposta che già sapeva, che conosceva da sempre. Era il suo paese, anche se non c’era nata, erano i suoi posti, dove i figli erano cresciuti, dove gli anni più belli erano scappati via, dove l’amicizia contava non per quello che uno faceva, ma per quello che uno dava.
L’aveva portata la voce del cuore, che aveva voluto vedere ancora una volta quel paese, quella gente. Ma non era più come prima.
E non sarebbe tornata più.
Mise in moto. “Dai Gegia”, disse Matilde dando una affettuosa pacca al cruscotto della macchina,” dai, fai un altro sforzo che tra poco siamo a casa”.
Il tramonto ormai aveva lasciato spazio alla sera, qualche piccola stella si intravedeva già nel cupo azzurro del cielo limpido. Dette un’ultima occhiata. Il susseguirsi dei tornanti e delle curve le impedì di continuare a vedere il paese.
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