Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2025 “Il bene più prezioso” di Matteo Colibazzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

«Qual è il bene più prezioso del mondo?»

Con questa domanda il Professor Princton iniziò la lezione del 13 aprile ai suoi ventitré alunni, ancor prima di rivolgere il consueto e formale saluto di ingresso in aula. Ed era strano, perché il Professor P, così lo chiamavano gli studenti e pure gli altri insegnanti, era uno che il saluto formale non lo faceva mai mancare. Ed era pure affezionato ai riti, alle tradizioni, ad una certa quotidianità che non lo abbandonava mai. Ma non nel senso che la subiva, quanto più che la dominava.

Che fosse una giornata diversa dalle altre lo si era capito subito. E lo era per cinque motivi. Tanto per cominciare, pioveva. E nella piccola città del Professor Princton non pioveva quasi mai.

Gli alunni del Professor Princton si resero subito conto che stava piovendo, non perché guardarono fuori dalla finestra, che era abbassata almeno per i tre quarti, ma perché si accorsero che la punta delle scarpe del Professor Princton era bagnata, così come notarono altre gocce d’acqua sui pantaloni, più o meno all’altezza delle ginocchia. Il che poteva significare due cose: il Professor Princton non aveva portato l’ombrello, ipotesi remota perché in quel caso sarebbe stato tutto bagnato; il Professor Princton aveva con sé uno di quegli ombrelli in miniatura, che a malapena riescono a coprire il viso. Quasi tutti gli studenti scelsero questa seconda opzione, benché nessuno avesse visto entrare il Professor Princton con l’ombrello.

Prima di sedersi, il Professor Princton fu oggetto di una nuova, accurata osservazione da parte dei suoi alunni, che non poterono fare a meno di notare che aveva abbandonato il completo blu petrolio che lo vestiva nelle sue giornate. In tutte le sue giornate. Tanto che le malelingue si chiedevano se indossasse sempre lo stesso o ne avesse più paia uguali, così da mantenere lo stile senza perdere la dignità personale.

Ma ancora di più, andava per la maggiore chiedersi se il Professor Princton si facesse queste stesse domande, se si rendesse conto che vestiva sempre allo stesso modo o peggio, se gliene importasse.

Quel giorno il Professor Princton era vestito di nero. Aveva un completo nero, il soprabito nero, la cintura nera e le scarpe, pure quelle, nere. E questo costituiva il secondo motivo per cui quella era una giornata diversa dalle altre.

«Il diamante» esclamò sicuro Paul Saurgeine, primo banco fila a destra dalla prospettiva del Professor Princton, sicuro della risposta che aveva letto qua e là alcune decine di volte.

«No» rispose altrettanto fermo il Professor Princton.

«Come no?»

«No. Non è questa la risposta che sto cercando. Non è questa la risposta che stiamo cercando.»

Il Professor Princton scosse la testa come gesto di disappunto, in un modo quasi impercettibile, come se lui stesso volesse tirarsi indietro all’ultimo momento. Ma avendo già inviato l’input al cervello, non riuscì a nascondersi. Il risultato fu che se ne accorsero tutti.

Il Professor Princton voleva bene ai suoi studenti, ma aveva l’idea che facessero a gara a chi dava la risposta per primo, invece di quella giusta. E infatti, dopo l’immediata reazione di Saurgeine, l’aula calò nel silenzio per i secondi successivi. Il Professor Princton non aggiunse altro anche lui. Principalmente per due motivi: intanto voleva far vincere quell’imbarazzo iniziale dove nessuno ha il coraggio di rispondere. O forse, anche a coraggio acquisito, l’iniziativa viene accantonata per paura di fare brutta figura, di essere deriso dagli altri compagni. Saurgeine del primo banco faceva eccezione, era sempre uno dei primi ad aprire bocca e a preferir dire invece che ragionare.

E in secondo luogo, il Professor Princton temporeggiava. D’un attesa dove non sapeva se dire subito lui la risposta che voleva, o aspettare all’infinito che qualcuno lo soddisfacesse. C’era sempre, in lui, una sorta di ostentazione del sapere, tanto che spesso finiva col rispondere prima dei suoi studenti con un certo orgoglio, come a dire che la risposta poteva conoscerla solo lui, quasi dispiacendosi se qualcuno l’avesse trovata prima. Ma al contempo la faceva risultare come se fosse la risposta più facile da trovare al mondo.

«Non era evidente?» diceva sempre.

Come in uno di quei prestigiatori da strada che chiedono di indovinare la carta giusta. Sembra che vogliano rispondersi da soli e gridare: “Ve l’ho fatta!”

Ecco, il Professor Princton il più delle volte finiva col rispondersi da solo.

Ma un insegnante non dovrebbe godere del trasmettere il proprio sapere ai suoi studenti? Non dovrebbe vivere soddisfazione più grande se non quella di percepire che gli alunni hanno appreso da lui?

Il Professor Princton se lo chiedeva di continuo, ma non trovava mai risposta. Era un orgoglio a tempo, il suo. Che talvolta nutriva per se stesso, altre volte per quello che faceva con i suoi alunni. Non sapeva scegliere quale preferiva.

Anche gli studenti volevano bene al Professor P. Perché spiegava bene la materia, dicevano, perché aveva una grande proprietà di linguaggio, continuavano e perché era indulgente. Scrupoloso, ma indulgente. Non c’è niente di meglio, per uno studente, che poi alla fine il Professore si risponda da solo! Appariva come tutto d’un pezzo, senza dubbi, circondato da un alone di superiorità che lo proteggeva, che manteneva le distanze. Sembrava quasi un superuomo, come qualcuno che non necessita dei bisogni primari. Tra gli studenti andava di moda chiedersi: «Mangerà? Dormirà? Andrà in bagno? Morirà anche lui?»

Sì, gli volevano bene. Fatto salvo per l’abbigliamento sempre uguale, anche se a onor del vero nessuno si era mai lamentato di un presunto cattivo odore. E gli volevano bene anche per altre due o tre abitudini che destavano curiosità, quantomeno. In realtà il Professor Princton di abitudini ne aveva più di due o tre, ma i suoi studenti non ne erano a conoscenza. Tra quelle che sapevano, c’era il volersi lavare spesso le mani, almeno una volta all’ora, il che suscitava una certa ilarità, per una persona che vestiva sempre allo stesso modo.

Poi c’era altro: il Professor Princton non tossiva mai. Mai. Tutti potevano giurare di non avergli mai sentito fare un colpo di tosse, né per cibo o acqua, né per una frase andata di traverso, né per malattia. Un pieno controllo dei propri mezzi e un salute di ferro, forse.

E poi ancora, il chiudere la porta dell’aula sempre allo stesso modo, con un movimento veloce che sembrava presagire un Bam! da far rimbombare le pareti più lontane, ma che invece rallentava proprio quando mancavano un soffio di centimetri alla chiusura, così da evitare il rimbombo e diventare d’improvviso, dolce. Faceva sempre così, senza guardare. E non sbagliava mai. Lo rendeva così naturale da sembrare che non lo calcolasse. E forse era così per davvero.

Quella mattina il Professor Princton la porta l’aveva lasciata aperta. Il che costituiva, senza alcun dubbio, il terzo motivo per cui quella era una giornata diversa dalle altre. Ma ancor più incredibile fu che, dei ventitré studenti, nessuno lo notò. O almeno, non sul momento. Forse perché tutti furono stupiti prima dal suo completo nero. O forse perché erano distratti dai suoi vestiti bagnati. Sta di fatto che la porta rimase aperta tra l’indifferenza generale.

«Professor P, ci scusi, ma la domanda non è chiara» disse Margaret Sulley, secondo banco fila centrale, dalla prospettiva del Professor Princton. Margaret era quella che tutti chiamavano codalunga, per via dei suoi capelli, in effetti lunghissimi.

«Come non è chiara?»

«Beh, ci parla di bene prezioso, tutti sappiamo che è il diamante. Non è così?»

«No. Forse. Come bene materiale, forse. Chi ha detto che cerchiamo un bene materiale?»

«Beh, ma lei ha detto il bene più prezios…»

«So bene cosa ho detto» in tono fermo e solenne il Professor Princton.

Ci furono alcuni secondi di silenzio generale, probabilmente perché il tono del Professor Princton era stato più deciso del solito. Nessuno ebbe il coraggio di rispondere, ma ancora più probabile, nessuno aveva idea della risposta corretta. Qualcuno iniziò a pensare che fosse una domanda per gioco, una sorta di trabocchetto. Il silenzio fu rotto da Anita Seyfried, la più piccola della classe, per età e per statura, quarto banco fila destra, dalla prospettiva del Professor Princton:

«Dio?»

Ci fu stupore più che silenzio. Da parte di tutti, persino sul volto del Professor Princton, che riuscì a non mostrare segnali evidenti. Qualcuno iniziò a pensare che la risposta fosse corretta.

«Non diciamo eresie» tuonò in modo ancora più fermo il Professor Princton e continuò subito dopo:

«Se il bene non è materiale, non deve essere spirituale. Conoscete solo questi due mondi? Perché non guardate oltre? Perché non pensate alla conoscenza?»

«La conoscenza di Dio?» riprese subito la Seyfried.

«In che senso? Spiegati.»

«Cioè… se Dio esiste o no» disse con un certo orgoglio. E per un brevissimo momento credette di aver dato la risposta corretta, o almeno di aver centrato l’argomento.

«No, non è se Dio esiste o no, non è questo. Ma il tuo spunto è interessante.»

Per la Seyfried, che raramente aveva dato risposte corrette nella sua carriera scolastica, andava bene così. Poteva ritenersi soddisfatta, tanto che pensò di eclissarsi, con la mente e non con il corpo, per il resto della lezione, mantenendo un mezzo sorriso di vittoria a bocca serrata.

In quel momento il Professor Princton rivolse il suo sguardo verso la porta dell’aula. Era aperta. Si stupì e si alzò quasi di scatto per raggiungerla. Prima di chiudere, allungò il collo fuori dalla porta e diede un’occhiata al corridoio, prima a sinistra e poi a destra, come se cercasse qualcuno. Il Professor Princton però non aspettava nessuno, o almeno così doveva essere. Rientrato con il collo e con le spalle, accompagnò la porta a suo modo, con gran velocità, prima di rallentare e accarezzarla per l’ultimo passaggio. Poi rivolse lo sguardo all’aula, seduta composta e numerosa. Fu uno sguardo fugace e distratto che tornò subito indietro, distogliendosi dagli occhi fissi degli studenti. Lì, successe una cosa che nessuno avrebbe mai potuto immaginare, o sentire, o vedere. Il Professor Princton tossì.

Tossì una sola volta, di una tosse secca e di un rumore sordo. Fu uno di quei colpi di tosse dove si ha il tempo di avvicinare la mano alla bocca, per educazione. Il Professor Princton ebbe quindi il tempo di comprendere che stava tossendo. Ragionevolmente, i suoi studenti credettero che l’avesse scelto, che avesse deciso di tossire. E benché potesse sembrare strano, la preoccupazione degli alunni non era tanto che il Professor P avesse tossito, quanto se lui si fosse reso conto di non aver mai tossito in loro presenza e, forse, nella vita.

Il colpo di tosse del Professor Princton era certo il quarto motivo per cui quella era una giornata diversa dalle altre. Poco dopo si ricompattò:

«Il fatto che Anita si sia avvicinata alla risposta corretta, non vuol dire che la lezione sia finita. Nessun altro? Parliamo di conoscenza, di filosofia se volete. Non fatemi sentire il nome di altri metalli.»

Poi decise di aiutarli:

«Pensate: se il Giappone, la Cina, l’India o qualunque altro dannato paese avesse la formula magica per rendere immortali, gli Stati Uniti pagherebbero per averla?»

Rispose immediatamente Saurgeine:

«Certo, chi non vorrebbe averla?»

«Esatto.»

«Allora la risposta è l’immortalità, sarebbe questo il bene più prezioso del mondo?» continuò Saurgeine, che prese in prestito il sorriso a bocca serrata della compagna Seyfried.

«No, non è l’immortalità. Certo, sarebbe un vantaggio. Per avere più tempo. E qualcuno troverebbe il modo di usarlo per i propri scopi. Ma l’essere umano si stancherebbe anche di vivere.

Non era ancora mai intervenuto, ma dall’ultimo banco, fila centrale dalla prospettiva del Professor Princton, intervenne Arthur Penn, per tutti solo Penn. Era l’unico dell’aula a non avere nessuno come vicino di banco. Ufficialmente perché… stava bene da solo. Ma in verità era talmente grasso, che in due non si poteva stare. La voce non smentiva il fisico ed era imponente:

«Scusi Professor P, ma cosa può esserci più dell’immortalità? Poter vivere all’infinito senza mai doversi preoccupare di morire. Non riesco a pensare a nulla di più grande di questo!»

«Solo perché credi che morire sia brutto.»

«Non lo è?»

«Lo chiedo a te. Perché credi che morire sia brutto?»

«Beh, perché con la morte… finisce tutto.»

«Ne sei sicuro?»

«Certo. Beh, se hai fede, se sei religioso, se credi nel Paradiso o roba del genere, forse no, è meno brutto.»

Il tono di Penn si fece più cupo. E continuò:

«Ma io, Professor P, non vengo da una famiglia religiosa. Non mi hanno trasmesso la fede. La scorsa settimana ho avuto un lutto, Professor P. Un lutto di una parente stretta che aveva quarantasei anni. E non credo che se fosse campata, dieci, venti, trent’anni in più le sarebbe dispiaciuto.»

«Non parlo di religione, nel mio discorso la fede e la religione non trovano spazio. Credi che la tua parente ora sia triste perché voi siete tristi? Prova a pensarci: perché credi che morire sia brutto?»

Penn restò ammutolito, non rispose. E per un breve ma interminabile momento non rispose nessun altro.

Poi, con poco coraggio ma con una gran voglia di prendere la parola, dall’ultimo banco fila sinistra dalla prospettiva del Professor Princton, si levò flebile la voce di Eleonor St. James, che tutti chiamavano solo per nome, Eleonor, nonostante ad essere altisonante fosse il suo cognome: era figlia dei St. James proprietari della famosa catena di tessuti di alta qualità, con negozi sparsi per tutta la città. Mai una volta si era rifugiata dietro al suo cognome:

«Perché non conosciamo la verità.»

Il Professor Princton non riuscì a mascherare una sorta di velato entusiasmo e disse subito: «Cosa intendi Eleonor?»

Eleonor sospirò. Forse non trovava le parole giuste per dirlo, ma voleva dirlo:

«Che non sappiamo cosa c’è dall’altra parte.»

Il Professor Princton non rispose, ma tutti, nessuno escluso, capirono che era appagato, che era quella la risposta che stava cercando. E stavolta era sincero, era orgoglioso della risposta data da Eleonor. Un sorriso a metà bocca, ben diverso da quello che aveva attraversato il volto di Amanda Seyfried e Paul Saurgeine, le dominò il viso.

«Esatto. Noi abbiamo paura di morire perché non sappiamo cosa c’è dall’altra parte. Non sappiamo cosa succede nel momento in cui finisce questa vita. È forse l’unica cosa che non conosciamo e ne abbiamo paura. Niente di più umano.»

Intervenne immediatamente Saurgeine, preoccupato solo di arrivare alla soluzione del quesito, forse per tentare di strappare un ingiustificato merito:

«Scusi Professor P, quindi la risposta alla sua domanda iniziale è che non sappiamo cosa c’è dall’altra parte? Questo è il bene più prezioso?»

«Il bene più prezioso sarebbe saperlo. Sapere cosa avviene dopo la morte. Non credete che ogni individuo, ogni essere vivente, chiunque vorrebbe saperlo? Anche chi è dotato della più grande fede dell’universo non avrà mai la certezza di quello che c’è dall’altra parte. Non credete che questo sarebbe un bene più prezioso di un diamante? Non credete che sarebbe un potere ancora più grande dell’immortalità? E se si potesse andare dall’altra parte e poi tornare indietro? Se si tornasse e si raccontasse cosa si è visto? Quanto vale tutto questo?»

Nessuno rispose, ma arrivati a questo punto, nessuno l’avrebbe fatto. Perché nessuno aveva il coraggio di contraddire il Professor Princton, ora.

La quasi sacralità della discussione, che era ormai diventata un monologo, fu interrotta bruscamente da un rumore stonato e ripetuto. Bussarono alla porta. Il Professor Princton andò ad aprire. Era l’inserviente scolastico che lo pregò di raggiungerlo, facendo un movimento ondulatorio con la testa come a dire di avvicinarsi il più possibile all’uscio, quasi a sottolineare che la conversazione che sarebbe seguita era di tipo riservato. Il Professor Princton si avvicinò. L’attenzione della classe era stata catturata dalla scena. Tutti gli studenti guardarono in direzione della porta, tentando di carpire le informazioni che l’inserviente stava pronunciando così sottovoce.

Il Professor Princton ascoltava impassibile, senza rispondere. Tutto ad un tratto, senza voltarsi verso l’aula, uscì dalla porta. Non era mai andato via senza salutare. Così come non era mai entrato in aula senza i suoi riti. Uscendo, qualcuno lo aveva visto aprire un ombrello. Un piccolo ombrello.

L’inserviente scolastico entrò in aula come a dover confessare qualcosa. E spiegò.

Spiegò che il Professor Princton aveva subito un lutto e che quella mattina era arrivato a scuola da un funerale. Si scusava, ma era dovuto andar via di corsa perché era richiesta la sua presenza per alcuni certificati di sepoltura.

D’un tratto, tutta la classe realizzò. L’abito nero, simbolo di lutto e di rispetto per il defunto; la porta aperta, insolita dimenticanza testimone di un mente che sta vivendo altrove; il colpo di tosse, strozzato e soffocato da chissà quante lacrime precedenti; e la pioggia, incontrollabile e fatale casualità, portavoce e cornice di un dipinto irripetibile.

Fu chiaro, quindi: la morte del padre del Professor Princton era il quinto ed ultimo motivo per cui quella era una giornata diversa dalle altre.

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