Premio Racconti nella Rete 2025 “Avventura all’estero” di Ignazio Sanna
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025I. Daytime
La giornata andava spegnendosi in un tepore serale particolarmente piacevole. Le luci della città erano calde, accoglienti, invitanti. E ancora di più lo erano quelle del locale pubblico, bar, sala giochi, ristorante e albergo, al cui interno si trovava uno spazio vastissimo che dava l’illusione di essere ben lontani dal centro abitato. Di ritorno da una passeggiata nel centro storico entro, bevo qualcosa al bar e mi guardo un po’ intorno. Mi incuriosisce la sala giochi. Varco l’ingresso e mi rendo conto che in realtà le sale sono più di una. Senza un motivo preciso entro in quella del biliardo. Èancora presto, ci sono pochi giocatori. Noto che non fuma nessuno. Che strano… Poi vedo un cartello che lo vieta, e mi viene in mente che in questo paese i cittadini rispettano sempre i divieti, con grande senso civico. Ah, se fosse così anche da noi! Comincio a seguire una partita. Ad essere sincero non è che capisca proprio tutto di quello che succede, so molto poco delle regole del biliardo. Ma almeno capisco che quello dei due che sta vincendo è il tipo alto, grosso, biondo, un tipico esemplare del posto. L’altro è molto più basso (comunque più alto di me). Ha un fisico magro, e tuttavia muscoloso. Di pelle olivastra, dà l’impressione che tutta la sua personalità si riassuma nello sguardo scontroso, che pare posarsi su cose e persone con aria di sfida. Indossa un maglioncino nero leggero, blue jeans stinti e scarpe da tennis il cui logo simula quello di una marca molto alla moda. Nessuno dei due giocatori è loquace, parlano il minimo indispensabile per capirsi sul punteggio e poco altro. Ma quel poco che dice il più scuro dei due mi convince, come già sospettavo, che non è del posto. A un certo punto sbaglia platealmente un colpo e gli sfugge un’imprecazione, “Cunn’e mama rua![1]”. ‘Oddio, è di Cagliari anche lui!’, penso. Faccio per allontanarmi, non avendo nessuna voglia di rischiare un tête-à-tête con un siffatto personaggio, ma è troppo tardi. Non appena finisce di formulare la sua esclamazione rivelatrice incrocia il mio sguardo. Forse da come lo guardo si rende conto che ho capito quello che ha detto, ma l’alta probabilità di essere conterranei non serve a stabilire un’intesa. Tutt’altro. Chissà, forse ha solo voglia di sfogare il suo malumore con il primo che gli capita a tiro, e utilizza la lingua comune soltanto a questo scopo. “E tui ita ‘renisi de castiai, facc’e catzu![2]”, mi apostrofa elegantemente. Resto un attimo di stucco, non me l’aspettavo. In un istante decido che è meglio che mi allontani senza rispondergli, anzi senza nemmeno guardarlo. Neanche il tempo di fare un passo che l’amico mi afferra con forza per un braccio e mi fa: “Là chi seu narend’a tui, o calloneddu![3]” Di nuovo, non ho neanche il tempo di pensare che le cose si stanno mettendo decisamente male che il gigante biondo urla seccamente qualcosa nella sua lingua, che anch’io capisco poco, e il mio nuovo amico mi lascia andare lanciandomi un’occhiataccia e tornando alla partita. “Castia, scetti custu ri nau: chi ri torr’a biri innoi funti catzus tuusu![4]”. Intimorito, sgattaiolo via come un topo appena riuscito a sfuggire alle grinfie del gatto.
Tornato in camera mia rifletto sull’accaduto. Come faccio a non farmi vedere più in giro? Io sto in quest’albergo, ho pagato in anticipo per una settimana e ho con me pochissimi soldi. Non me ne posso andare. E poi questo è un bel posto, mi piace, non me ne voglio andare. Alla fine, decido che è molto probabile che il tipo, che sicuramente aveva bevuto, abbia soltanto voluto fare un po’ di scena per sfogarsi un po’, e se mi rivede mi lascia perdere, anzi magari neanche mi riconosce. Del resto, non gli ho nemmeno risposto, non ho fatto proprio nulla. A questo punto guardo l’orologio e vedo che è già quasi mezzanotte. L’avventura con l’amico mi ha fatto passare l’appetito, e comunque ormai è troppo tardi per cercare qualcosa da mangiare in giro. Pazienza, a letto senza cena. Certo, il bilancio del primo giorno di vacanza non è un granché. Speriamo che domani vada meglio, anche perché ci vuole proprio poco.
II. Nighttime
Mi ritrovo a vagare per uno stretto labirinto di stradine, che sembrano incrociarsi senza una logica apparente. Qua e là bassi muri di cinta dietro i quali emergono come da una nebbia indistinta degli anonimi caseggiati, talvolta accompagnati da un po’ di verde che li rende meno grigi. Più avanti i muri si fanno più alti e non si vede altro. La luce è incerta, al punto che non capisco se sia notte o giorno, l’alba o il tramonto. Sto per raggiungere un gruppo di persone. Mi lanciano uno sguardo ostile, ma quando passo oltre mi ignorano. Continuo a camminare senza una meta. Il dedalo di viuzze sembra riconoscermi come un elemento familiare. Non così i suoi abitanti. Eccone altri laggiù, emergere da una macchia buia. Uno di loro mi fissa e mi viene incontro, altri lo seguono. Mi accorgo che ha un bastone in mano, eppure non ne sono spaventato. Non so come ma arriviamo insieme a una svolta, da una via lunga e stretta a una ancora più stretta. In quello stesso istante sembra perdere ogni interesse nei miei confronti, e lui e i suoi proseguono per i fatti loro senza degnarmi di uno sguardo, inseguendo chissà quale altro nemico, vero o presunto. Continuo a camminare, tra vecchie auto parcheggiate, alcune ormai solo carcasse spolpate. In lontananza un campo di sterpaglie, che sembra piuttosto una discarica in disuso. All’improvviso un suono fastidioso mi ferisce le orecchie. È la sveglia.
III. Daytime
La mattina dopo l’incidente è quasi dimenticato. Nella sala da pranzo dell’albergo mi aspetta una colazione pantagruelica. Dovessi vivere qui per il resto della mia vita non riuscirei mai ad abituarmi a mangiare tutta questa roba la mattina. Lasciando intatta la quasi totalità del cibo esco e vado a visitare un museo. Ho sempre desiderato vedere dal vero le opere di un maestro come Edvard Munch. La sua Madonna, il suo Vampiro, e soprattutto L’Urlo, divenuto l’icona di un tempo in cui l’orrore della guerra e delle violenze insensate ormai risparmiano pochi luoghi al mondo. Mentre osservo quel volto angosciato su un ponte di legno, il cui ambiente stesso, mare e cielo, sono trasfigurati in un insieme di pennellate multicolori, vengo riportato al presente da una voce a fianco a me. “Are you Italian?” Il primo impulso è rispondere di no, ma le parole mi muoiono in gola quando il mio sguardo si fissa su un paio d’occhi verdemare che mi colgono di sorpresa. Subito dopo mi dico che tanto vale rispondere di sì, dal momento che tanto l’ha già capito. Un po’ in inglese e un po’ in italiano mi racconta di essere una studentessa di storia dell’arte, appena di ritorno a casa da un anno trascorso a studiare a Firenze. Per un po’ mi parla di Giotto, Michelangelo, Brunelleschi, e di quant’è bella l’arte italiana. Poi capisce che la mia conoscenza della materia è molto limitata, e allora cambia argomento e mi chiede che ci faccio lì, in un museo. Le spiego che sono in vacanza e che ho voluto approfittare dell’opportunità di vedere da vicino le opere di Munch, che mi hanno sempre colpito. Penso che mi sarebbe piaciuto conoscerla meglio, ma prevedendo che mi avrebbe scambiato per il solito italiano in cerca di avventure facili ci rinuncio, anche se a malincuore. Ma ecco che, quasi indovinando i miei pensieri, mi chiede se voglio farle compagnia a pranzo. Felice dell’invito accetto, e finiamo per mangiare un kebab presso un chioschetto poco distante. E siccome una cosa tira l’altra, parlando parlando ci infiliamo in uno dei tanti bellissimi parchi della città, dove trascorriamo il resto della giornata. Al momento della chiusura lei mi saluta regalandomi un sorriso stupendo, e io mi avvio verso l’albergo tutto felice. Mi sento proprio come un adolescente innamorato. Ma a un tratto, mentre sto già per entrare nella hall, mi fermo all’improvviso. Come una doccia fredda. Che stupido! Non solo non le ho chiesto come si chiama – ma si può essere più stupidi? Non le ho nemmeno chiesto se avremmo potuto rivederci. E va bene, pazienza. Posso sempre tornare al museo domani, sperando di trovarla di nuovo lì. Questo pensiero mi consola, e dopo aver mangiato qualcosa vado a dormire tutto speranzoso, pronto a sognare un bel paio d’occhi verdi.
IV.Nighttime
Sono sdraiato, il corpo rilassato. Un brusio mi riporta alla realtà. Mi accorgo con stupore che accanto a me, nel letto, c’è un corpo di donna. I suoi piedi sono all’altezza della mia testa. Guardo dalla parte della sua testa, e vedo che scrive, o forse disegna. Assolutamente tranquilla, come se quello fosse il suo posto naturale. Eppure non la riconosco, non so chi sia. O meglio, ha qualcosa di familiare ma non riesco proprio a darle un nome, anche perché il volto è nascosto, vedo solo i suoi corti capelli che le coprono la nuca. Passato lo stupore iniziale mi rendo conto che non potrei stare meglio di così, anch’io mi sento come se fosse del tutto naturale essere lì, accanto a lei. Non c’è contatto fisico, solo vicinanza, ma mi sento come se io e lei fossimo una cosa sola. E mi piace. Non capisco perché sia così, ma mi piace, mi fa stare bene. Ma non siamo soli. Il brusio che mi ha svegliato proviene da altri letti che si trovano accanto al nostro, disposti a formare una serie di cerchi concentrici all’interno di una stanza talmente enorme che non ne vedo i limiti. Una stanza apparentemente infinita. È una contraddizione logica evidente, eppure per me è una cosa naturale, non me ne stupisco. Anche gli altri, quelli che riesco a vedere, sembrano disposti come me e la mia compagna. Se non mi sembrasse una sciocchezza direi che siamo dentro una camerata di una caserma in Paradiso, il regno della luce. Ed ecco infatti che una luce comincia pian piano a penetrare nell’ambiente. Diventa sempre più forte finché apro gli occhi e mi rendo conto che una nuova giornata sta iniziando.
V. Daytime
L’indomani, affrontata la colazione con lo stomaco ancora più chiuso della mattina precedente, mi precipito al museo. Ma di Occhi Verdi neanche l’ombra. Peccato, mi dico, un vero peccato. Deluso dal mancato incontro la giornata prosegue con la visita a un altro museo e una capatina al parco di ieri, non si sa mai. Nulla. Tante belle ragazze, questo sì, ma di Occhi Verdi nessuna traccia. Allora, con un filo di rassegnazione, a fine serata si torna all’albergo. Attraverso la strada immerso in uno sfavillio multicolore di luci: i fari delle auto, l’illuminazione stradale, le vetrine colorate e le insegne lampeggianti. Sono meravigliato dallo stato d’animo che si è impadronito di me. È una strana sensazione, come a metà tra un sentimento languoroso di nostalgia senza nome e una sorta di incanto psichedelico. Mi sembra perfino che il tempo abbia rallentato la sua corsa, percepisco le luci come qualcosa di vivo, viaggiatori lanciati nello spazio siderale, che vanno in tutte le direzioni a illuminare ogni angolo dell’universo. A un tratto, bruscamente, il mio fantasticare viene interrotto da qualcosa che proprio non mi aspettavo. Sul lato opposto della strada vedo passare Occhi Verdi. Incapace di articolare parola agito le braccia cercando di richiamare la sua attenzione, ma proprio non sembra avermi visto. Attraverso la strada col cuore in gola, non senza qualche rischio, e mi fiondo verso di lei, che già sta per girare l’angolo e sparire. Ma non appena metto piede sul marciapiede opposto mi trovo davanti l’amico, vestito esattamente come l’altro giorno, stesso sguardo e stesso atteggiamento. “O, ma intzà ses calloni diarerius![5]” La sua voce sgraziata e aggressiva mi colpisce come uno schiaffo. Resto interdetto, lo fisso inebetito, incapace di manifestare un pensiero che sia uno. L’unica cosa che si fa strada in me, a sostituire la sorpresa, è una strisciante sensazione di paura, che cresce lentamente fino a dominare tutta la mia persona. L’amico se ne accorge, e gli fa l’effetto che fa il sangue ai cani che inseguono le lepri ferite in una battuta di caccia. Con un sorriso maligno fa partire un destro al volto. Prima ancora che possa rendermene conto il gigante biondo, che evidentemente era già lì, come invisibile ai miei occhi, gli blocca il braccio e lo stringe in una morsa, fino a costringerlo a inginocchiarsi a terra. Vedo che accanto a lui ci sono altri due tipi che hanno tutta l’aria di essere lì a fargli da angeli custodi, due autentiche guardie del corpo. Il gigante tira fuori un pistolone enorme, almeno nella mia percezione, incurante del traffico e dei passanti, e dice qualcosa al mio amico. Ancora più stupefatto, lo vedo addirittura piangere e tirare fuori qualcosa da una tasca. Si direbbe droga, forse cocaina. Capisco che sono capitato nel bel mezzo di un regolamento di conti tra spacciatori. Tutt’a un tratto vedo una fiammata uscire dal pistolone, e l’amico afflosciarsi come un sacco vuoto. Nello stesso istante incrocio il suo sguardo, uno sguardo che non credo che potrò dimenticare tanto facilmente. Sembrava uno strano miscuglio di rabbia, stupore e addirittura vergogna, come se pensasse di avere fatto una brutta figura davanti a un essere tanto insignificante come me. Nel frattempo, il gigante biondo e i suoi uomini sono scomparsi, e realizzo che il loro sguardo non mi ha mai sfiorato, nemmeno per un secondo. Infine, accennando un sorriso, mi meraviglio dello stupido pensiero che sto formulando: sto cercando di ricordare se l’Arcangelo Michele avesse le fattezze di un gigante biondo.
[1] “Per l’organo genitale di tua madre!”
[2] “E tu cos’hai da guardare, faccia di organo genitale maschile!”
[3] “Guarda che dico a te, piccolo testicolo!”
[4] “Guarda, ti dico soltanto questo: se ti vedo di nuovo qui sono organi genitali maschili tuoi!”
[5] “Ah, ma allora sei proprio un testicolo!”