Premio Racconti nella Rete 2025 “Sono seduta alla mia scrivania” di Claudia Marina Lanzidei
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Sono seduta alla mia scrivania. Vorrei scrivere, ma non ci riesco, il foglio bianco, luminoso, segnato qui e lì dalla sporcizia e dalle ditate accumulatesi sullo schermo. E poi quella stanghetta nera che compare a intermittenza. È sottile, ma richiama l’attenzione su di sé, quasi a volermi ricordare, in maniera sempre più urgente e ticchettante, della mia inedia, della mia mancanza di fantasia, dei miei labirinti mentali che non portano a nulla.
“È solo un racconto”, stavo pensando poco fa, mentre passavo l’aspirapolvere. “Quanti racconti sono stati scritti, ce la posso fare anche io”, avevo cercato di pennellare i miei pensieri su uno sfondo colorato, positivo, prevedendo quello che sarebbe successo dopo, cioè adesso, e cercando di scongiurarlo. D’altronde, poi, perché mai stavo pulendo la casa, invece di cimentarmi già nell’impresa di scrivere? La nobile arte di rimandare, di procrastinare, ecco in cosa sono veramente una maestra. In ogni caso, a un certo punto è arrivato il momento in cui mi sono decisa, e il mio braccio – il lavoro coordinato delle articolazioni e dei muscoli della spalla, bicipite, tricipite, e polso, nonché le falangi, e i polpastrelli di tutte e cinque le dita – è riuscito a sollevare il pesantissimo schermo del computer portatile, molto più pesante degli arnesi di pulizia che stavo maneggiando poco prima. Eccomi qua, dunque, accomodata in uno spazio organizzato, pulito – quello di certo –, accogliente, degno di una penna di successo. Certo, manca una finestra aperta sul blu, un terrazzino con fiori color pastello, una lieve brezza marina che accarezza le storie, i pensieri e le mani che scrivono agili e ispirate.
Ma a parte questo, chi dice che a questa poltrona di velluto verde, appoggiata a questa scrivania di legno massello scurita dal tempo, accarezzata dalle luci calde e sincroniche di questa lampada da scrivania, di vetro anch’esso verde, in pendant con la poltrona, e dell’altra lampada ai cristalli di sale rosa, non possa essere seduta una Isabelle Allende o un Gabriel Garcia Márquez? Ce li vedo proprio, come ce ne vedo anche altri, di scrittori di successo seduti qui a creare meraviglie, in vestaglia, i piedi infilati in morbide pantofole appoggiate sul soffice tappeto che copre un pezzo del vecchio ma elegante parquet. Se ci fosse seduto qualcuno di loro, qui, questo posto troverebbe il suo senso, la sua realizzazione. Ma si dà il caso che ci sia seduta io, a questa scrivania, e che il vuoto, pienissimo, che ho dentro si trasmetta non solo su questo quadrato di luce bianco che ho davanti alla faccia, ma anche sul resto delle cose che con amore e speranza ho pensato divenissero la cornice della mia ispirazione. E invece, la tranquillità che questo posto mi trasmette, esattamente il risultato che avevo sperato quando me l’ero solo immaginato, è farlocca, è una finzione che non mi porta da nessuna parte.
Dopo attimi, minuti, forse quarti d’ora, di titubanza, in cui le mie azioni si alternano tra il guardare sconsolata il foglio bianco e, altrettanto sconsolata, mettere a fuoco le cuticole e reciderle coi denti dai contorni delle unghie, decido comunque di provarci. Penso che alla fine il foglio bianco è un cliché, una minaccia per tutti gli scrittori, un aspetto così banale che non merita neanche queste righe che gli sto dedicando. Ma mi dico: “dai, provaci, inizia a buttare giù qualche frase, e il resto verrà da sé”. E allora inizio davvero, immagino una scena e provo a descriverla, richiamando alla mente sensazioni vissute, che poi è l’unica maniera in cui mi riesce di dare forma alle frasi, basarmi su qualcosa che ho già visto, che conosco.
… Sono a casa mia, nel mio letto. Da ieri sono ufficialmente sola qui. Sto bene, sono nella mia tana, fresca e leggermente profumata di cannella. Mi arrivano ovattatissimi rumori di vicini vari che mi danno l’idea di essere circondata di vita umana, domestica, crepuscolare. Apprezzo la loro presenza, non perché mi facciano sentire meno sola, ma piuttosto perché ricamano, in lontananza, i confini della mia solitudine, facendomi percepire che sono in questa città semi-distrutta ma meravigliosa chiamata Habana. Mi sento come una Raperonzolo che non si mostra, che rimane chiusa nella sua torre a dar sfogo ai suoi pensieri, o forse a cercare la sua pace interiore. Le luci soffuse, calde e tremolanti delle candele si sposerebbero bene con della musica jazz a basso volume, ma così perderei troppo il contatto con la realtà, con le esistenze affaticate che mi circondano, che non ho mai visto ma delle quali distinguo oramai rumori ricorrenti che associo alle diverse tonalità dei ritagli di luce che colpiscono le mie finestre…
Beh, bello, penso, rileggendomi. Non sono poi così male, d’altronde. Mi faccio un po’ di coraggio. E adesso, cosa fa questa tizia, che poi sarei io, no? Che le faccio fare di interessante? Ah, boh… Distolgo lo sguardo dallo schermo, e lo faccio piroettare incerto per la stanza, le iridi leggermente all’insù, come a cercare un orizzonte che non c’è. Sì, ci sono le pareti color pesca intorno a me, qualche quadretto da me stessa posizionato in punti che mi sembravano panoramici, che potessero donare un tocco artistico, intellettuale, a quello spazio vitale imbastito a mia immagine e somiglianza. La composizione in effetti è graziosa, ma dov’è l’odore di salsedine, dove sono i rumori dell’Avana che sto cercando di imprimere su quella riproduzione virtuale della carta, su quel quadrato di luce che non è più di un bianco immacolato, ma neanche abbastanza fittamente scritto da suscitare in me qualche tipo di soddisfazione? Dopo essermi ciucciata a dovere l’unghia del pollice sinistro, guardo di nuovo lo schermo, svuoto la mente, e preparo le dita a picchiettare sui tasti.
…A parte quelli emessi dai miei vicini – la sigla del telegiornale o della Novela, il telefono fisso che squilla, la finestra del terrazzo che si apre, una tromba malinconica, qualche conversazione più o meno vivace – che sono i suoni che riesco a sentire meglio dalla mia stanza, adoro i rumori della strada. Ce ne sono tantissimi di giorno, e Cayo Hueso sembra un’orchestra volutamente scoordinata. Poi piano piano, di pari passo con il diradarsi della luce, si fanno meno audaci, meno fragorosi, lasciano il posto ad altri, come a scandire il trascorrere della giornata. Finché non svaniscono quasi, e non rimane che qualche miagolio, qualche rombo di motore in lontananza, a volte il vento, e poi i rumori dei vicini che mi cullano. Non ho mai pensato di elencarli su un foglio, i rumori dell’Avana, ma forse un foglio solo non mi basterebbe. Dovrei provarci una volta. Ho imparato che purtroppo, per quanto nitide possano essere le proprie percezioni in un dato momento, ciò che non si scrive si dimentica facilmente. E non vorrei che di questi rumori rimanesse solo una nebulosa di chiasso poetico ma maleodorante, quando sarò andata via di qui…
Mi fermo, rileggo, e di nuovo sono attraversata da lievi scariche di soddisfazione. Forse mia madre ha ragione, non me la cavo male con la scrittura. Però sto procrastinando ancora, manca l’azione, cosa diavolo le faccio fare a questa tizia, non potrà starsene chiusa in casa tutto il giorno. Se comincio adesso l’elenco dei rumori, mi infilo in un vicolo ceco. Mi sforzo di immaginare, qualcuno potrebbe bussarle alla porta, magari un bel ragazzo. E poi? Oppure è lei che potrebbe uscire, mischiarsi tra i suoni colorati e decadenti della città, e incontrare qualcuno. Ma chi? Un mulatto caliente e dallo sguardo profondo e il sorriso ingannevolmente rassicurante? Oppure una signora di mezza età con le treccine e dei fili di perline attorno al collo che le sveli qualcosa di premonitorio sulla sua vita? Oppure un vecchietto che vende erbe medicinali per la strada e le dica, in tre frasi, qualche illuminante verità sul socialismo cubano? “Quanta banalità”, mi viene da pensare, nessuna di queste ipotesi sembra portarmi a nulla di originale, o meglio, ho come l’impressione che nel tentativo di descrivere qualcosa di possibilmente reale, ne stia distorcendo il contenuto fino a renderlo falso, inautentico. “Che poi, qual è il messaggio?” mi chiedo, di cosa diamine voglio scrivere, a chi mi rivolgo? Come posso essere tanto presuntuosa da pensare che io, l’ultima arrivata, possa scrivere qualcosa sulla vita di persone di cui non conosco le sofferenze, i sogni, le illusioni, ma di cui ho ascoltato solo rumori quotidiani attutiti dalle pareti e dalle finestre senza vetri, e dei quali ora, peraltro, ricordo ben poco?
Forse, se questa stanzetta tanto accogliente, abbinata, pulita e profumata avesse una finestrella dalla quale entrino, insieme alla salsedine e all’aria umida e selvaggia del mare, insieme alle zanzare e ai fumi neri di motori rombanti e ormai obsoleti, i rumori della calle, i suoni gutturali dei venditori ambulanti, i miagolii lontani, le canzoni di bolero e di reggaeton, gli schiamazzi confusi – asere, mi vida, China!, Jimagua!, Hasta quando lo tuyo, mami –, e, se affacciandomi a questa finestrella potessi vederla, la strada, l’immondizia che si accumula all’angolo, il cumulo di macerie dell’edificio caduto la settimana scorsa, le facciate colorate e schiarite dal sale, il brulichio delle persone scottate da un sole perenne, curve ma che non si sono piegate, ancora, ai drammi della vita; e poi, se lì in fondo potessi intravedere anche la distesa blu metallico che si estende più in là di dove arrivano gli occhi, placida ed evaporante, allora forse sì che riuscirei a riempire di senso questo quadrato di luce bianca, tanto asettico quanto le quattro pareti che lo circondano.
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