Premio Raccoti nella Rete 2025 “La campanella” di Stefano Cangiano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Dopo la photo opportunity con il Cancelliere il protocollo prevede il saluto alla rappresentanza diplomatica e a una delegazione di imprenditori italiani. La campanella viene sventolata in aria dal cerimoniere, è il segnale di apertura del grande portone decorato con altorilievi della storia patria, di là dal portone la schiera di completi, doppi petti e tailleur. Considerata la canicola berlinese in agosto e gli schnapps elargiti con prodigalità dopo il pranzo non morirei dalla voglia di stringere mani, dispensare sorrisi e soprattutto sentirmi sussurrare ossequi e vedermi indirizzare sguardi untuosi. Ma tant’è, e non sarà che un passaggio intermedio, l’atto necessario prima di quello dovuto, il più ortodosso e sacro dei riti: la conferenza stampa. «I nostri paesi sono legati da un’antica amicizia, la nostra eredità storica si nutre di un orientamento al progresso sociale che oggi più che mai rappresenta l’architrave di una comune visione europeista, costruita su solidi legami commerciali ma prima ancora su valori, ideali e sogni». Oggi il riferimento al sogno è d’obbligo, sembra l’elemento più prepolitico che ci sia, potrebbe essere la fetta di carne lanciata in bocca ai leoni della stampa internazionale ma in realtà sarà l’esca perfetta per dare il la all’autoelogio. Me l’aspetto già la domanda piccata e ficcante di Yvette Rémy di Le Monde. Perché Rémy è una sicurezza. «Presidente Mario Lerici non le sembra inappropriato parlare di sogno in una congiuntura come quella attuale in cui l’Europa ha nuove minacce come la stagflazione, la guerra commerciale e la disparità sociale?»… La disparité sociale. Janine tende l’agguato e io lo inseguo per schivarlo un istante prima. «La ringrazio per la sua domanda che mi permette di soffermarmi su un concetto a me molto caro, quello del sogno appunto. Cosa mobilita di più i singoli e le masse se non un sogno? Cosa trasforma le persone in cittadini se non un punto verso cui tendere al quale, appunto, diamo il nome di sogno? E da cosa, in ultima istanza, è nata l’Europa se non da un sogno? Io credo, oggi con fermezza e convinzioni crescenti, che sia proprio il sogno l’antidoto alle paure che agitano e scuotono il nostro continente e del resto – mi conceda l’aneddoto personale – anche la mia storia politica è iniziata così, da questo motto che già dieci anni fa sancì la vittoria del progetto del Partito Riformatore Italiano: valori, ideali e sogni». Rémy ribatterà, è un osso duro. Con lei la controversia nasce da lontano, dai tempi in cui riuscii a convincere l’allora Presidente della BCE Maria Cáceres ad abbassare ai minimi storici i tassi di interesse, scalzando i cugini, e qui rido, francesi. La fedeltà paga, questo è il primo comandamento delle relazioni politico-economiche europee, però deve essere una fedeltà molto molto molto conservativa, non bisogna fare colpi di testa, alzate di scudi e fughe in avanti. Bisogna sapere che la cessione di sovranità è la cosa migliore che ci possa capitare, l’assicurazione di un consenso politico a vita, un nemico sempre pronto all’uso interno e un amico delle scelte che contano all’esterno. Anche perché chi oggi siede alla BCE non è detto che domani non diventi il segretario generale della Nato o magari vada a capo del Consiglio di sicurezza dell’ONU e chissà cos’altro.
Ecco, l’ONU, se non fosse stato per la vendita del porto di Trieste alla Germania, all’epoca sotto la guida salda dell’amico Hans Stein, successivamente designato come segretario generale dell’ONU – appunto – il mio credito politico e di fedeltà come me lo sarei guadagnato? Qualche scaramuccia interna, questo sì, alleati di governo che borbottano, i giornali che hanno starnazzato per una settimana, certamente, ma come ci sarei arrivato altrimenti all’Assemblea generale dell’ONU a tenere il discorso sulla pace? Non ci sarei mai arrivato. E poi chissà, quando questa stagione di prudente e moderato riformismo, conservatorismo economico e qualche cauta apertura sui diritti civili, ecco, quando questa stagione si sarà chiusa – e mi do un’altra legislatura, il Lerici ter – un buen retiro in una delle grandi istituzioni sovranazionali non mi dispiacerebbe. Mi ci vedo bene, mi sento a mio agio, sono di casa.
La dottrina del multilateralismo in fondo è questo, lasciarsi sempre una porta aperta, dispensare il giusto a chi conta, senza troppi scossoni interni, senza alzare polveroni. È una prassi politica che sta più nel non detto che nel teorizzato, è il vero interesse comune. Vendere la più grande azienda farmaceutica a un acquirente cinese non è meno difficile di un negoziato di pace in Armenia ma posso dire, per averlo vissuto, che in fondo la tecnica rimane la stessa: dosare attesa e risposta. Bisogna saper attendere, far attendere e poi al momento giusto rispondere, non rincorrere a tutti i costi la prima parola, voler dettare a tutti i costi le condizioni. Bisogna uscirne da vincitori anche senza aver vinto, con la postura serena del gran leader. La democrazia è una cosa fragile e bisogna badare a non svuotarla quanto piuttosto a modellarla.
Alla scuola politica del partito che mi hanno intitolato, durante la settimana di ritiro intensivo a Madonna di Campiglio, come paradigma del pensiero multilaterale cito sempre l’esempio del negoziato per la cessione di Ceuta e Melilla al Marocco. Anche quello era la cronaca di una morte annunciata, una lotta tra tori destinata a durare per chissà quanto tempo ancora. Serviva una voce esterna, un punto di vista sopra le parti, un negoziatore di lungo corso che non scontentasse nessuno e, perché no, portasse a casa una ricompensa anche per sé. Presente, eccomi: cessione delle città, dazi ridotti a zero sui porti della costa marocchina per gli spagnoli e la promessa di un parco fotovoltaico italiano che più italiano non si può nei pressi di Tangeri, con la giusta, sacrosanta dose di occupazione locale e finanziamenti statali.
Mi hanno steso un tappeto rosso al rientro nel Belpaese? No. Sono cresciuto nei consensi? No. Ma in compenso ho reso felici tanti amici, accontentato due ministri con i relativi sottosegretari, regalato qualche commessa agli amministratori delegati giusti e anche ottenuto un tappeto marocchino finemente decorato che adorna la sala presidenziale di Palazzo Chigi. I più livorosi sostengono che in filigrana, nella trama del fine tessuto, si scorga la mia silhouette ma è un’insinuazione veramente oziosa.
In quella occasione ho voluto fare dono di un presente condividendolo con l’intera nazione, mi sembrava che fosse la cosa più giusta da fare, anche perché in nessuna delle mie case dispongo ancora di una stanza di dieci metri per quindici dove poterlo installare. Ho però una stanza nella casa romana dove tengo tutti i doni ricevuti dai capi di stato, dai sovrani e dai papi che mi hanno voluto incontrare. Il cappello in paglia toquilla pregiata della Presidente panamense Lopez, la riproduzione della nave vichinga norvegese del re Erlend II, il diorama del più grande artista filippino vivente donatomi dal Primo Ministro Jayson Macatangay, la prima moneta in oro del protettorato russo della Transnistria, l’ikat di seta finissima donatomi per la risoluzione della crisi uzbeko-turkmena e anche la campanella del cerimoniere tedesco, la campanella, la campanella…
«La campanella Mario! Mario tocca a te!»
«Consigliere Clerici prego, attendiamo il suo intervento sul ripristino della pavimentazione del tratto di marciapiedi antistante la scuola materna di via Zampaglia»
«Presidente la ringrazio e ringrazio l’assemblea oggi qui riunita. Parlo a nome dei quattro Consiglieri di minoranza e dico che Ripadisotto merita di più. Il marciapiedi di via Zampaglia è l’emblema di un problema radicato e che può essere visto da più lati, per troppo tempo siamo rimasti in attesa ma ora chiediamo una risposta, la invochiamo a gran voce, per i valori che questa maggioranza dice di professare, per gli ideali per i quali noi ci battiamo e per i sogni di tutta la comunità di Ripadisotto!».
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