Premio Racconti nella Rete 2025 “A Natale succede sempre qualche cosa” di Alberto Marrias
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Il nostro cane è morto la mattina di Natale e dopo che è successo abbiamo detto a tutti quanti che non ci aspettavamo una tragedia del genere, ma non era vero. Il cane stava male già da tempo. Noi lo sapevamo benissimo. Negli ultimi giorni era semplicemente peggiorato. Aveva tre anni e, trattandosi di un’età abbastanza improbabile per ridursi a quel modo, mio padre non aveva accettato la malattia fin da subito. È così che sono andati i fatti. In qualche misura eravamo stati anche responsabili di questa cappa di omertà, perché avevamo sempre assecondato la sua convinzione. Era lui infatti che, ogni volta, andava a parlare col veterinario e alla fine si era convinto che il problema fosse meno grave di quanto gli avessero spiegato. È brutto quando uno non vuole vedere in faccia la realtà. La mattina del venticinque dicembre era dovuto correre in clinica. Ormai non c’erano più speranze. Aveva chiesto a mia madre la cortesia di accompagnarlo. Mia madre e mio padre erano tornati insieme da poco. L’avevano fatto per il nostro bene, ci fecero sapere, ma in realtà, si trattava solo di ipocrisia e di tornaconto personale. E comunque vivevano da separati in casa. Una roba tristissima. Per me, assolutamente patetica. Mio padre è sempre stato un grandissimo coglione. Un uomo stupido. Però, mia madre era peggio. Che lui fosse così lo sapevano pure i sassi, ma una donna che si sceglie un tizio del genere e non contenta ci fa pure due figli, deve avere problemi seri. Dall’unione di questi geni assoluti, siamo nati io, femmina, la più grande e mio fratello, il più piccolo. Nonostante tutto, ai nostri genitori gli volevamo bene, in fondo non erano cattivi, e poi alla fine alla mediocrità ci si fa l’abitudine. Soprattutto mio fratello voleva bene a mio padre. Era sempre stato la sua ombra. Un passo faceva papà e uno, lui. Non so cosa ci trovasse di tanto interessante in una persona così inutile.
Quella mattina, noi due rimanemmo a casa. La situazione era troppo pesante. Mio padre era andato nel pallone e mia madre cercava di calmarlo, insultandolo. Vedemmo il cane per l’ultima volta. Ho ancora la foto caricata sul mio cellulare. Morì qualche ora più tardi. Prima che rientrassero, chiamammo nostra zia per farci venire a prendere. Gli accordi erano semplici. Dovevamo andare a pranzo dai nonni, dato che nostro padre aveva deciso che il cane sarebbe stato seppellito nel giardino di casa. La scena di una cassetta zincata, con una targa appiccicata sopra che finiva in una buca, ci avrebbe turbato troppo. Un’attenzione che mi suonò davvero particolare. Era come se ad una persona piombata d’improvviso dentro casa tua, durante un diluvio, e grondante dalla testa ai piedi, gli avessi chiesto di togliersi le scarpe perché sennò si sarebbe bagnato tutto il pavimento. Come se il problema fossero state le scarpe. Qualche giorno prima, tra le altre cose, mio nonno era dovuto passare per preparare la fossa. E mentre scavava, lo avevamo sentito che biastimava e che si augurava di finirci lui in quella buca.
Quando arrivò mia zia, salimmo in macchina. Ci parlò e noi non facemmo un fiato. Non so come, ma riuscimmo a mettere quella faccenda dentro un paio di parentesi. Mia zia, la sorella di mia madre, era sempre stata il mio vero idolo. Perché era una donna bellissima e pure molto sveglia e si era trovata come marito un uomo ancora più bello e intelligente. Anche se la figlia era una scassacazzi di prima categoria. Arrivati dai nonni, iniziammo il pranzo. Dopo un po’, ci raggiunse anche mia madre. Si vedeva che aveva pianto. Mio padre, ovviamente, non c’era. Mia nonna non lo voleva più vedere. Ma tanto noi eravamo abituati a stare senza di lui. Mangiammo quello che c’era da mangiare. Dopo il dolce, la nostra cuginetta cominciò a fare la lagna dato che voleva giocare a tombola. Io mi sarei fatta ammazzare piuttosto. La tombola l’ho sempre schifata. Dovrebbero vietarla nel mondo e bruciare tutte le cartelle in circolazione. Siccome era mia cugina ed era piccola, dovevamo accontentarla, e alla fine fummo costretti a simulare una sua vittoria eclatante. Anche se la tombola vera l’avevo fatta io.
Finito il pranzo, mio nonno disse che ci aveva preparato una sorpresa. Vicino casa loro, in occasione delle festività, era stato allestito una specie di luna-park. Il comitato di quartiere insieme ai commercianti di zona si erano inventati questa roba, per provare a riqualificare la zona. Pareva di stare sul set di un film di Fellini. A ridosso di un grosso capolinea degli autobus, avevano disposto una pista da pattinaggio, una ruota panoramica, un tirapugni, un calcinculo, qualche misera giostra sgangherata e un piccolo chiosco per comprare da bere e da mangiare. La scena era imbarazzante. Da un lato, verso il capolinea, gruppi di ubriachi parlottavano e urlavano e spesso si mettevano a pisciare sui muri delle banchine. Qualche altro disperato, di tanto in tanto, sconfinava in direzione nostra per chiedere gli spiccioli. Insomma, tutti i disagiati della zona erano accorsi per passare qualche ora il giorno di Natale.
Il gestore del chiosco era un amico di mio nonno. Ecco perché eravamo andati là. Mio nonno avrebbe bevuto e mangiato a scrocco. Venimmo a sapere che la moglie aveva lasciato quell’uomo da poco. E lui si stava arrangiando come meglio poteva. Ci offrì a me e a mio fratello uno stecco di zucchero filato che fummo costretti a dividerci. Dopodiché, facemmo una capatina alla giostra del tiro a segno coi fucili ad aria compressa. Ma c’era troppa fila. Così, andammo in un’altra, lì vicino. Il proprietario ci spiegò come funzionava. Era un omone che non parlava benissimo l’italiano, con due bei baffi lunghi ingialliti dal fumo di sigaretta, denti di un bianco eccessivo, tipo maioliche del bagno, i capelli lisci tirati indietro con la gelatina. Indossava una camicia a righe a mezze maniche, rigorosamente aperta davanti con una capezza al collo e un Gesù Cristo che pendeva e si andava ad incastonare fra i peli del suo petto. Il gioco era molto elementare. C’erano delle paperelle di plastica che galleggiavano dentro una tinozza. Lui ti dava un’asta di ferro con un cappio sull’estremità. Quando partiva la musica, queste paperelle cominciavano a muoversi e a girare in tondo (di sicuro sotto la tinozza c’era una specie di motore che creava come un vortice dentro l’acqua) e tu dovevi prenderle con quell’asta e metterle dentro un altro secchio, più veloce che potevi. Finita la musica, ti dovevi fermare. Lui le prendeva e alla base c’era scritto col pennarello un numero. Sommava i numeri e in base al punteggio raggiunto ti dava un premio. Ogni giro si pagava. Iniziò mia cugina. Quella della tombola fasulla. Fece cinquanta punti. Poi, toccò a mio fratello. Centocinquanta punti. Infine, fu la mia volta. Con uno sforzo da atleta olimpionico, riuscii a raggiungere i trecentottanta punti. Mi diede lo stesso lurido pupazzetto che aveva dato anche a mia cugina e a mio fratello. Allora, mi sorse un dubbio. Chiesi gentilmente quanti punti sarebbero serviti per i premi più belli. Lui rimase un attimo in silenzio. Poi, mi rispose che sarebbero serviti dai cinquecento punti a salire. E ce ne andammo. Salutammo l’amico di mio nonno e tornammo a casa. Nel tragitto, ripensai alle parole del giostraio. E mi venne una rabbia tremenda. Ero convinta che ci avesse fregati. Se avessi preso tutte le paperelle che c’erano e avessi sommato i numeri, di sicuro i cinquecento punti non li avrebbe raggiunti mai nessuno. Era questo il segreto. Mi sentii fortemente presa per il culo. In macchina mi venne un po’ di sonno. Giunti a destinazione, scendemmo. E salimmo sull’auto di zia. Che ci riportò a casa nostra che c’era pure mio padre ad aspettarci. Là, trovammo il vicino di casa che stava andando a buttare una montagna di buste d’immondizia. Quando ci vide, ci salutò e disse a me che ero scesa per prima: “Buon Natale, cara!” Io avrei tanto voluto sputargli in faccia e dargli un cazzotto sul suo muso da demente. Risposi educatamente: “Buon Natale anche a lei”. E filai dritta a casa, raggiungendo gli altri che intanto mi avevano preceduto.
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Mi sembra carino, scrittura brillante. Finale debole.
La storia si srotola con fluidità tra le parole di una ragazzina arrabbiata, rendendo ben visibili le scene che si vanno creando. Il finale sembra troncato all’improvviso. Come se qualcuno fosse entrato nella stanza e avesse tolto la corrente inaspettatamente.
Forse per questo, anche me, è sembrato un po’ debole.