Premio Racconti nella Rete 2025 “Magnolia” di Barbara Rendina
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Mia madre ancora non era morta che già le zie si spartivano gli ori: i suoi anelli, sparsi sul tavolo, sembravano il bottino di una rapina.
Una mattina di marzo avevo suonato al suo campanello prima di andare al lavoro e lei non aveva risposto, le chiavi nella serratura e la radio che continuava a suonare. Avevo chiamato i soccorsi. Dieci minuti dopo, i lampeggianti illuminavano la scala del palazzo. Seduta sul primo scalino del piano, aspettavo che sfondassero la porta. Poi ero entrata.
«Il cervello è stato molto tempo senza ossigeno», mi aveva detto il medico mentre cercavano di rianimarla, senza che riuscissi a capire. Con gli occhi incollati a quel corpo sdraiato ai piedi della serranda alzata del balcone, avevo risposto «Ditemi solo se è viva», la voce bassa per non disturbarlo. Poi la strada in ambulanza fino all’ospedale, la riabilitazione, la struttura in cui adesso teneva gli occhi incollati davanti a sé, senza una parola.
La casa, intanto, era diventata tutto uno spostare soprammobili, inscatolare statuine della Madonna di ceramica e terracotta, buttare pentole vecchie e stoviglie sbeccate, tra l’assenza di mia sorella che, con la scusa di dover accudire i bambini, come sempre non c’era, e un senso di inutilità che accompagnava i miei gesti stanchi e ripetitivi. Finché stamattina, in mezzo a tutte le persone di famiglia che si agitavano in una stanza o nell’altra, ho girato la testa verso il balcone, e ho visto la pianta.
Quando passavo a trovarla, finito il lavoro, mia madre mi parlava spesso della sua magnolia stellata, che aveva fiori così grandi, e fitti, da far sembrare i gerani intorno ancora più insignificanti. L’aveva annaffiata, potata, riparata dal freddo, accudita in ogni stagione. Ogni giorno, anche dopo la morte di papà.
«Ne ha bisogno», diceva, «e anch’io».
Ho aperto il balcone e raggiunto la magnolia, toccando con delicatezza i suoi petali bianchi. Avevo voglia di stringerla, ma ho avuto paura di sciuparla.
Ho afferrato il vaso e l’ho trascinata in casa, fino al corridoio.
«Devo andare», ho detto poi ad alta voce
«Ma dove vai?», ha urlato zia Teresa, seduta sulla sedia intorno al tavolo mentre aprivo la porta delle scale.
«Gliela porto», ho risposto, senza voltarmi, e sono uscita.
Ho raggiunto la fermata con la pianta in braccio e l’ho caricata sul pullman. L’autista ha scosso la testa dietro i suoi occhiali da sole, ma non ha detto nulla e ha continuato a guidare. Mi sono seduta di fronte alle porte d’uscita, stringendo il vaso tra le gambe. Le persone guardavano me, poi la pianta, poi ancora me, come in una partita di tennis, mentre io raccoglievo i petali che si staccavano dai fiori e li infilavo nella tasca posteriore dei jeans.
I palazzi fitti hanno lasciato il posto alla periferia, poi alle case basse e, poco distante, al carcere, coi suoi cancelli e le sue mura. Qualcuno sarebbe uscito oggi, qualcuno forse mai: non era molto diverso dal posto in cui stavo andando, ho pensato. Sono scesa lasciandomi la città alle spalle, ho ripreso la pianta tra le braccia, le foglie che mi sfioravano la faccia, e ho camminato fino alla casa di cura.
La donna al bancone della reception mi ha detto che non potevo lasciarla: «È troppo grande, signora. Si figuri, se per ogni paziente lasciassimo portare una pianta del genere, cosa diventerebbe questo posto».
In ogni caso, mia madre non l’avrebbe riconosciuta, ho pensato all’improvviso.
Mi sono fermata nella hall per riprendere fiato, in piedi, con la magnolia accanto. C’erano solo due visitatori vicino alla macchinetta del caffè, e qualche medico in camice bianco che si aggirava nel corridoio come se non sapesse dove andare. Solo allora mi sono accorta che la magnolia aveva il terriccio secco e la punta delle foglie ingiallita. Così, ho preso un bicchiere d’acqua dal boccione vicino al distributore di merendine e l’ho versato nel vaso. Ho guardato in direzione della stanza dove stava mia madre. Ho risollevato il vaso da terra e sono uscita. Fuori l’aria era fresca e pulita, così in contrasto con l’odore di urina che si sentiva lì dentro.
Quando più tardi ho sistemato la magnolia sul balcone di casa mia, avevo ancora le mani sporche e la maglietta sudata. Mi sono seduta sul pavimento e ho appoggiato il braccio destro sul vaso. Il cielo continuava a risplendere di un crudele azzurro primaverile, come se nulla fosse.
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Complimenti, vittoria meritata.