Premio Racconti nella Rete 2025 “La bottiglia di Amos Casarsa” di Andrea Rossi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Ho chiesto da bere: me lo hanno concesso. È la prima volta che parlo, che li interrompo. Mi ero detto di non farlo. Ma ho sete: anche il silenzio mette sete. Non sono violenti. Al loro posto farei di peggio: lo so io come lo sanno loro. Ero pronto. Un sacrosanto rischio del mestiere, niente più. Non c’è premio a questo mondo, senza rischio. Il mio silenzio contro le loro domande sempre uguali, ora vaghe ora taglienti, non sembra irritarli. È che ho sete e gliel’ho detto. Anche loro devono bere, lo sento dalla loro voce roca. Sarà il mio silenzio che mette sete. Al silenzio io ci sono abituato. È il pane che mangio da quando hanno tirato su il muro. Ci faccio conto per sfinirli. Finiranno per buttarmi via come una cosa da cui non si è riusciti a cavare nulla. E io starò là, nell’angolo dove mi avranno gettato. Se torneranno potranno ritrovarmi esattamente lì. Non ho bisogno di muovermi, non ho bi-sogno di spazi. Né di libertà. Non di quella di cui loro si riempiono la bocca. A questo mi affido per vivere. E per fare bene il mio mestiere, per farlo al meglio, come piace a me. Come è giusto che sia. Che urlino ancora più forte. Che mi accechino con luci ancora più violente. Non riusciranno a farmi dire niente. Non che prima lo abbiano fatto, urlare intendo. Il loro tono di voce è stato sempre controllato, studiatamente controllato:
“Lei è Amos, Amos Casarsa. Conferma?”
Tutte quelle dannate voci che si sono alternate e che mi è toccato ascoltare non hanno mai alzato il tono neppure di un nulla. E hanno sempre ripreso da qui, da questa inutile domanda. Sanno chi sono. Stupido chiedere, stupido rispondere. È con questa cantilena che intendono stordirmi. Come un destro ben assestato alla bocca dello stomaco, di quelli che fanno strabuzzare gli occhi e tolgono il respiro. Mi torturano con la noia. Non sanno che lei per me non esiste. Mi basta un nulla, davvero, perché la mia testa sia dove deve stare. Perché la mia curiosità sia viva, l’attenzione vigile. Per ore, per giornate. Quando serve. Se voglio. È questione di precisione. È questione di ordine e di pulizia.
Ordine e pulizia sono due belle parole. Tengono in piedi il mondo. Ti ci fanno vivere bene. Te lo fanno riconoscere al mattino quando ti affacci alla finestra. Per questo abbiamo tirato su il muro. L’abbiamo fatto in fretta. Prima che il mondo cambiasse, che le cose si confondessero e noi ci perdessimo. C’ero, volevo esserci, quando è successo. Ho passato le notti a vederlo crescere per le strade della città. Bello, solido e dannatamente veloce. L’ho visto salire al primo piano delle case. Poi più in alto, fino al secondo. E quindi ancora più su, fino alle torrette di guardia. E lontano, sempre più lontano, fino a perdersi nei campi, lungo l’argine del fiume. È venuto a dividere ciò che andava diviso. Lì dove ce n’era bisogno: tra gli uomini e tra le loro cose. Ecco il mondo che torna in ordine, pensavo. Voi di là, noi di qua. Un confine per sapere dove stare. Buoni e cattivi? Non è questo, non per me. Voi di là, noi di qua: ecco tutto. Ognuno per sé. Perché si sappia da che parte uno viene. Perché si sappia con chi ci si può guardare in faccia e con chi no. Una volta e per sempre.
Sì ma poi, mi ripetevo, c’è bisogno di qualcuno che stia dietro a questa impresa, giorno dopo giorno. Ordine e pulizia non sono eterni, non sono doni di dio. Sono figli dell’uomo. Così ho detto sì quando mi hanno cercato. Ed ecco perché certi giorni sono proprio orgoglioso di me. Me lo dico da solo, ben piantato sulle gambe, le braccia al petto e in silenzio. Lo stesso silenzio col quale parlo a voi che state di là dal muro. Lo stesso silenzio col quale vi spio. Mentre voi non sapete che vi spio. Mentre voi non sapete che vi parlo.
Io sono per voi come il primo vento freddo e tagliente d’autunno, quello che stacca le foglie una a una dal ramo. Quelle già morte. Come voi che mi sfilate davanti e entrate nel fuoco del mio mirino. Un colpo secco e vi stacco dal ramo. Sono io che decido quando è arrivato il vostro inverno. Sono come il vento freddo e tagliente d’autunno che porta via i già morti. E il vento è muto. Non ci fossero gli ostacoli contro cui cozza, non avrebbe voce. Le vostre urla, le vostre lacrime, le vostre bestemmie sono la mia voce. Sono l’eco del mio soffio che vi porta via.
Il mio mondo sta in un mirino, il mondo intero ci sta. È ciò che mi serve. Non chiedo di più. La perfezione vive attraverso le impercettibili dimensioni delle cose, lo so. Basta un impalpabile gesto del braccio, l’esitazione di un dito, anche solo un respiro affrettato e il mio lavoro va in fumo. La rabbia che allora mi prende è cruda. La voglia di spalancare la finestra e scaricare il caricatore all’aria è feroce. Ma non posso, né devo. Ne va del mio lavoro, del suo successo. Ne va della mia soddisfazione. Mi mordo le labbra fino a farle sanguinare. Poi torno ad attendere. Cambio punto d’osservazione, questo sì. È prudente. Poi di nuovo imbraccio il mauser, l’appoggio alla spalla e tutto ricomincia. Il silenzio più assoluto, dentro e fuori. L’attesa immobile. Le panoramiche lente. La messa a fuoco dei particolari. La cura per ogni minimo dettaglio. Per minuti, per ore, per giornate intere.
Ordine e pulizia non sono questione di tempo. Sono questione di perfezione. C’è sempre qualcosa che può venire a guastarla. Fosse anche solo un riflesso. Mi basta. Quest’angolo del mondo è mio e non ci voglio niente tra noi, neppure un viso che sporge dietro il profilo di un muro. Non mi chiedo chi è, lo so già. È la prossima vittima. Un respiro profondo come inizio. Le dita della mano sinistra si serrano saldamente alla canna. Quelle della destra prima si aprono, poi si incollano tenaci all’impugnatura e al grilletto. Un altro respiro e poi più nulla.
È l’apnea la cosa che mi piace più d’ogni altra in quei momenti. È il segnale, per me. Sono lì, non vorrei essere altro che lì. Il corpo si fa da parte. Lascia alla mente lo spazio e l’energia che le servono. Non ho corpo in quei momenti. Sono alla caccia di un corpo. Voglio un volto: uno teso, nervoso. E un petto che ansimi e si dibatta. Voglio sorridere quando li vedo, senza stirare le labbra né sgranare gli occhi. Voglio misurare gli attimi di un’attesa che non è lunga. E che, anche quando lo è, è nulla per me. Un respiro e un sorriso mi sono sufficienti. Poco dopo, il viso che studio ha un sussulto. Inevitabilmente accade. Le guance si fanno meno tese, le palpebre meno chiuse. Il petto s’allarga in un sollievo. La certezza d’avercela fatta è per voi un peccato capitale. Per me, il segnale che la caccia è finita.
Se posso preferisco in fronte, proprio in mezzo agli occhi. Mi piace fermarvi lo sguardo nello stesso istante in cui vi fermo la vita. Il foro è piccolo, rotondo. Nessuna slabbratura nella ferita. Il sangue non esce subito. È diverso quando sono costretto a prendervi in petto. Il fiotto è subito forte. La testa si piega a scoprire il dolore. La bocca si spegne in una smorfia. Tutto il corpo fa un salto indietro per il contraccolpo e la sorpresa. In testa no. Il proiettile s’incunea come una scossa e vi paralizza. I vostri occhi, pieni di stupore fino alle lacrime, mi cercano. Andate giù di botto. Crollate sulle gambe come una casa che muore sulle proprie fondamenta molli. Vi ritrovo più sotto, abbassati la canna e il mirino, col volto intatto. Soltanto un rivolo di sangue che dalla fronte, per la tempia, scende fino a terra. Le braccia spalancate. E ancora quello stupore negli occhi. È così che vi devono trovare di là dal muro. Sono particolari: potrei essere più rozzo. Potrei colpire dove capita con una raffica. Ma di questo vivo, di particolari. Se voglio che il mondo s’addormenti in ordine ogni sera e si svegli in ordine ogni mattina. Non posso fare altrimenti. Ordine e pulizia non ammettono angoli bui, né imperfezioni.
“Ho sete.”
Ho chiesto da bere: me l’hanno concesso. Bene, ho pensato, ora ho da fare. E a lungo. Ora che mi hanno concesso questa piccola bottiglia di plastica piena d’acqua possono anche urlarmi davanti alla faccia. Possono tenermi spalancati a forza gli occhi sulla luce più accecante che hanno. Possono fare questo o anche di peggio. Non servirà a nulla. Finché quella luce e quelle voci erano le uniche cose su cui potessi concentrare la mia attenzione, non potevo fuggire. Preso in trappola dentro quel faro. Catturato dalle loro parole. Ne avevo bisogno per vivere, per pensare. Per costruirci contro, solido come il muro, il mio silenzio. Non più, ora che stringo la bottiglia. La dispongo in orizzontale. Ne tengo le estremità con le dita per essere meno ruvido nei movimenti. Osservo il dondolio dell’acqua da una parte all’altra, dal fondo al tappo. E viceversa. L’onda mi ubbidisce. Risponde ai minimi movimenti delle mie dita con cui inclino la bottiglia ora da un lato, ora dall’altro. Con cui la faccio roteare sul suo asse, giocando con le oscillazioni. Posso chiaramente vedere gli effetti di questi miei gesti sottili. Un sorriso, un lungo respiro, l’apnea. Ecco la perfezione che torna. La ritrovo in un piccolo mare in bottiglia. C’è ordine e pulizia anche in una minuscola onda che risponde ai miei comandi. Il mio respiro ritrova la sua pace, ora. Mi dice chiaro che sono tornato a vivere. Anche da quest’altra parte del muro.