Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Dieci minuti” di Isabella Santarelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Sono partito dall’hub spedizioni stamattina presto. L’indirizzo della prima consegna è distante appena pochi isolati eppure, anche oggi, qualcosa non torna.

Guardo l’orologio, conto i chilometri. La lavanderia a gettoni con la tenda a righe è lì, accanto alla scuola di musica. I riferimenti coincidono, eppure ho la sensazione che manchi ancora molta strada.

La prima volta che ci sono stato, conoscevo già quel palazzo: il suo grande portone rosso spicca tra i toni spenti dell’isolato e attira lo sguardo. Inoltre, trovandosi vicino all’hub da cui parto ogni giorno, ci ero passato davanti innumerevoli volte. Proprio per questo, quella mattina, l’avevo scelto come prima tappa del giro: era comodo perché per arrivarci sarebbero bastati dieci minuti.

Giunto al portone, ho suonato.

Una donna con i capelli rossi è scesa in fretta per le scale con un’agitazione del tutto fuori luogo.

— Non abbiamo ordinato nulla, questo pacco non è per noi, se lo riprenda per favore! — ha detto arrabbiata. Non riuscivo a vederle il volto, tanto ispida e gonfia era la massa di capelli che la dominava.

Solo quando le sue mani lentigginose hanno scostato quei tentacoli dal viso, ho visto i suoi occhi: verdi, fermi, da rettile. Mi fissavano con malignità. Anziana, sottile, ma tutt’altro che fragile, la donna scrutava me e il pacco con aria diffidente, come se le stessi consegnando un oggetto pericoloso.

— Signora, però il nome e l’indirizzo sono corretti. In questi casi mi serve una conferma esplicita del rifiuto…

— Scusi, cosa? Di cosa parla?

— Del pacco, signora!

— Quale pacco?

— Ma come quale pacco? questo che ha davanti! Lo prende o devo

La donna mi ha interrotto bruscamente chiudendomi la porta in faccia. Sono rimasto fermo, davanti al portone chiuso, con il pacco ancora tra le mani. Solo allora mi sono reso conto che, per tutto il tempo, non aveva mai battuto le palpebre.

Mi è toccato tornare in quel palazzo un paio di giorni dopo, per un’altra consegna. Stavolta, per lo stesso tragitto, ho impiegato oltre tre ore. Ho attribuito la stranezza alla mia distrazione, alle chiamate che mi rallentavano e al maltempo. Mi sembrava sempre di essere arrivato, ma ogni riferimento si allontanava. E intanto, da un po’, aleggiava nell’abitacolo del furgone un’esalazione dolce, come di frutta sciroppata. Non c’era vento ma l’aria ne era satura.

Quando sono arrivato al palazzo e ho suonato il campanello, la porta si è aperta subito, perché una ragazza stava uscendo in quel momento.

— Oh, sei un corriere? — mi ha sorriso.

Ho annuito sollevando il pacco.

Quando le ho detto il nome del destinatario, e ha capito che era indirizzato a lei, si è fermata. Ha corrugato la fronte, poi ha scosso il capo, smarrita.

— Deve esserci un errore, non ho ordinato nulla. Guarda.

Ha scrollato le notifiche sul telefonino con dita nervose.

Ho provato a porgerglielo. Non volevo restarmene con quella scatola in mano. Ma lei si è irrigidita e ha fatto un passo indietro.

— No… no, non lo voglio — ha detto piano, come se l’oggetto potesse contagiarla.

Alla fine me ne sono andato con il pacco ancora sotto il braccio.

La terza consegna è stata ancora più strana. Stavolta ho impiegato quasi una giornata intera per raggiungere il palazzo, nonostante il bel tempo e l’assenza di traffico.

Sono partito in mattinata sicuro di arrivare in fretta ma, dopo mezza giornata, ancora non ero a destinazione. L’orologio segnava il passare delle ore e l’indicatore del carburante scendeva. Ma non arrivavo mai. Intorno, l’aria era nuovamente intrisa di quella nota dolciastra e fruttata. La sentivo ovunque ma non ne capivo la provenienza.

Ho accostato per controllare il navigatore. Funzionava. Diceva che il palazzo era vicinissimo, che dovevo solo seguire la direzione. Eppure, quando il sole ha cominciato a calare e il riflesso nello specchietto mi ha abbacinato la vista, ero ancora in giro.

Era sera quando sono arrivato davanti al portone rosso. Il furgone era ancora pieno: non avevo consegnato nulla.

Esausto, confuso e anche piuttosto seccato, ho suonato più volte al citofono, senza risposta.

Stavo per lasciare l’avviso, quando è uscito un uomo alto, vestito di nero, col bavero della giacca alzato e un grande cappello a coprirgli il volto.

— Cerca qualcuno?

— Ho un pacco da consegnare all’appartamento dell’ultimo piano, ma non risponde nessuno.

— La signora che ci viveva è morta il mese scorso, mi spiace.

È rimasto lì, immobile, in attesa che io capissi.

— Viveva da sola —  ha aggiunto dopo un po’, — non c’è nessuno a cui lei possa consegnarlo.

Ho annuito e me ne sono andato con il pacco sotto il braccio.

La mattina dopo, con un certo sollievo, ho notato che quell’indirizzo non compariva nel giro di consegne previsto. Avevo già abbastanza a cui pensare: oltre alle spedizioni della giornata, dovevo smaltire tutti i pacchi arretrati.

Una volta partito, controllavo il navigatore di continuo ma nulla di strano accadeva. Sul volante restavano aloni umidi, mi sudavano le mani anche se fuori faceva freddo, ma le tappe si susseguivano nei tempi previsti e, in serata, avevo consegnato tutto e m’ero rimesso in pari.

Sono trascorsi diversi giorni senza consegne per quel palazzo e, poco a poco, la tensione si è sciolta. Stamattina, quando mi è stato affidato il pacco con l’incarto rosso, ho pensato che sarebbe stata una giornata come le altre.

Poi ho letto l’indirizzo.

Era diretto proprio lì.

Visti i tempi assurdi delle ultime consegne, ho deciso di lasciarlo all’hub, fingendo una dimenticanza. Lo avrebbe preso in carico il primo collega che lo trovava.

La telefonata del capo è arrivata quasi subito.

— Ma che diamine combini? Hai mollato qui un pacco importantissimo! È una spedizione Posta Remota, mica è roba qualsiasi. Adesso torni indietro, lo recuperi e lo consegni oggi stesso. Quella zona ce l’hai tu. Non puoi fare così, porca miseria!—

Non ho potuto discutere e sono tornato indietro.

Il pacco è sul sedile accanto a me.

A vederlo, non ha nulla di speciale: una scatola rivestita con carta da imballo rossa, chiusa con lo spago. Non sembra danneggiata, è solo un po’ impolverata.

Potrebbe passare per una confezione appena fatta, ma l’etichetta incollata di lato racconta un’altra storia: Servizio Posta Remota – Consegna con Protocollo Speciale.

Sotto, ci sono un timbro sbiadito, un codice seriale lunghissimo e la data di spedizione: il pacco viaggia dai tempi della Seconda guerra mondiale.

Mi avevano spiegato qualcosa al corso, il primo giorno.

La “Posta Remota” è un servizio nato negli anni trenta che consentiva di spedire lettere e oggetti nel futuro, con consegna programmata anche a decenni di distanza.

Un gesto simbolico, talvolta una follia romantica. Pochi sapevano della sua esistenza e ancora meno la utilizzavano. Col tempo il servizio è stato dimenticato ma alcuni pacchi, evidentemente, sono ancora in viaggio. “Protocollo Speciale” significa che la spedizione non può restare in giacenza e che indirizzo e destinatario sono stati accuratamente verificati prima della messa in consegna, ed esistono tuttora.

Considerando la mia solita sfortuna con quel palazzo, so già che la scatola finirà inevitabilmente in giacenza, impedendomi di rispettare il Protocollo Speciale. Per questo, stamattina, l’avevo lasciata all’hub.

Sono immerso nel traffico. Il mio furgone è un vascello trascinato dalla corrente di un fiume inesorabile, e io sono solo un passeggero avvinto, impotente. Avanzo ma non mi muovo, pietrificato da uno straniamento che non riesco a comprendere. Ed eccolo di nuovo. Vellutato, caramelloso, saturo di gelsomino e di frutta al sole. Mi invade le narici, questo odore, come un dolce esantema che pulsa nell’aria inebriandomi.

Viaggio da più di un giorno. Conosco il tragitto a memoria e anche il navigatore conferma la rotta. Eppure la carreggiata si allunga, si sposta, si rigenera davanti a me.

La città mi ha inghiottito. Vengo spolpato, scarnificato, digerito lentamente. Forse la strada dritta sulla quale mi trovo altro non è che l’esofago viscido di un corpo di cemento e asfalto, e gli incroci sono spasmi, contrazioni peristaltiche che mi spingono sempre più a fondo, dove la luce si fa fioca. 

Accanto a me, sul sedile del passeggero, il pacco della Posta Remota esercita una strana pressione. È solo una scatola eppure sembra provenire da essa una forza oscura, una vampa che mi avvolge in un abbraccio ammaliante.

Attraversando periferie e campagne, ho iniziato a notare alcuni dettagli: le foglie sugli alberi non si muovono più, forse perché non c’è vento. Nessun uccello in volo. Nessun aereo. Le nuvole sono ferme in un cielo lattiginoso. Le ombre, inchiodate al suolo. Il sole, immobile.

Tutto intorno a me è quieto, saturo di quel profumo dolciastro che ormai non distinguo più dall’aria stessa. Seguo la mia rotta per deriva, incapace di fermarmi o di cambiare direzione.

Scivolo lungo una fenditura del tempo. Vivo, esisto, ma tutto intorno a me è disallineato, come se il mondo si fosse spostato di pochi gradi, abbastanza da lasciarmi passare accanto a sé, ma non attraverso.

Mi sono conficcato le dita nella carne. Ho sentito dolore e ho capito di essere ancora dentro la realtà. Allora mi sono fermato a prendere un caffè. Le persone intorno a me hanno parlato, riso, pagato il conto e sono uscite. Questo mi ha rinfrancato: esiste ancora il tempo. Il barista mi ha detto con assoluta certezza che il palazzo col portone rosso è vicino, “sta proprio qua dietro, ci metti dieci minuti”. Eppure, tornato in auto, tutto è ricominciato come prima. Sono perso in una periferia che si moltiplica in infinite variazioni di se stessa, cercando invano un palazzo che forse non esiste più.

È buio e non so più da quanti giorni sono in viaggio.

Oltre il parabrezza rigato da una pioggia lieve, tra i tergicristalli che vanno e tornano, qualcosa finalmente appare. All’angolo dell’isolato, il palazzo comincia a emergere.

L’intonaco è più rovinato di come lo ricordavo e scuri rampicanti si aggrappano ai muri.

Rimango fermo col motore acceso ad aspettare che spiova e, nel frattempo, osservo i quattro piani dell’edificio. Ognuno di essi è saturo di storie, di presenze che si insinuano nei muri, si annidano nelle fessure e restano immobili dietro le orbite cieche delle finestre.

Il portone rosso è lì. Un segnale muto. Uno squarcio di colore che resiste al logorio del tempo.

Scendo con il pacco sotto braccio, cerco sul citofono il cognome del destinatario e suono.

Qualcuno apre. Non ero mai entrato, fino ad ora.

Nella penombra densa dell’ingresso, mi accorgo che l’androne si estende ben oltre quanto immaginassi da fuori. Dinanzi a me si aprono labirinti di scale che culminano in ballatoi sospesi.

Resto fermo col pacco rosso in mano, sentendomi un intruso. Dagli angoli del cortile, immobili sotto la luce velata di una lampadina, grossi scarafaggi nereggiano nell’ombra, addormentati.

Sembra che il destinatario mi stia aspettando: da sopra, al terzo piano, si apre una porta.

Non c’è ascensore. Comincio a salire. Tra la muffa pelosa dei gradini e il muschio color ferro, affretto il passo. Volo più che camminare e in pochi balzi sono già su. Intorno a me, l’odore amaro e stagnante che mi ha assalito all’ingresso, cambia lentamente. A ogni rampa diventa più dolce, fruttato, come zucchero caramellato che si brucia. Lo riconosco subito, ma stavolta è più forte. Mi si attacca alla gola, mi impregna i vestiti, i capelli, la pelle. Sale dalle pareti, si spande dal corrimano, esala dalle fughe delle piastrelle.

Più mi avvicino alla porta, più si fa intenso. Penetrante. Asfissiante.

La porta è socchiusa. L’odore viene da lì.

È questa la casa. È qui che il pacco vuole arrivare.

Busso. Spingo la porta ed entro.

Ma non ho più nulla in mano.

Non sono mai stato un corriere.

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5 commenti »

  1. Racconto che si legge tutto d’un fiato. Intriganti anche i richiami sensoriali, con l’odore dolciastro che traccia un filo conduttore.
    L’atmosfera onirica si presta a molteplici metafore: il tragitto potrebbe essere il percorso di vita; il pacco da consegnare, un obiettivo non raggiunto, o ambizioni sempre più alte e irraggiungibili.
    Il finale aperto lascia ampio spazio all’immaginazione del lettore: potrebbe essere interpretato come il passaggio ad un’altra vita, o come una repentina acquisizione di consapevolezza.
    Potrebbe anche diventare l’inizio di un romanzo.

  2. Condivido il commento sopra, il finale aperto solitamente non mi piace molto, ma in questo caso sembra l’apertura ad un seguito che sarei interessata a leggere.

  3. Complimenti Isabella, un racconto che dal suo incipit “ti butta dentro” e non ti lascia il fiato per uscirne sino alla fine. Io l’ho letto, ma scusa la deformazione personale, come un soggetto per un corto, ne ho visto le immagini ed ho pensato a un ragazzo, proprio quel ragazzo della consegna, che vive la trincea e l’odore dolciastro della carne polverizzata dalle bombe. E’ lui a far la scommessa sulla sua capacità di salvarsi, di sopravvivere, il destinatario del pacco, lui che spera. Si proietta nel futuro ma quell’odore, la cosa più pregnante del racconto, testimonia che ancora quella “carne” brucia sotto le bombe. Anche io amo i finali aperti: vedi mi ci hai buttato talmente dentro alla tua storia che ne ho voluto seguire/scrivere “un pezzo” anche io, come spero facciano i miei lettori. Comunque brava Isabella!

  4. Grazie moltissime a Donatella, Elisa e AnnaRosa per le vostre parole incoraggianti, grazie davvero.

  5. Mi è piaciuto molto il tuo racconto e l’atmosfera onirica che sei riuscita a creare. Come ha anche già detto Donatella, il percorso del corriere è aperto a molte interpretazioni. Personalmente, ci ho letto l’impossibilità di raggiungere un obiettivo, nonostante l’impegno e il tempo dedicato. Potrebbe anche rappresentare l’impegno e la costanza nel mantenere i rapporti con una persona, che tuttavia risultano vani nel momento in cui non sono reciprocati.
    Il finale aperto sicuramente aiuta a dare spazio alle molte interpretazioni che, nel caso di un racconto così onirico, le ritengo essenziali.
    Complimenti davvero!

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