Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2025 “Un ragazzo opaco” di Donatella Asmodeo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

C’è chi nasce con un talento, o addirittura più di uno: il piglio per gli affari, un fascino fuori dal comune, un particolare sesto senso.

I pochi fortunati che nascono addirittura con un talento artistico sono unanimemente acclamati come oracoli della civiltà e della cultura, fari su un’umanità altrimenti spenta. Nonostante l’esiguo numero di questi gloriosi portenti, la mia famiglia è stata insignita della grazia di avere ben tre brillanti artisti: mio padre è un noto compositore, mia madre una sceneggiatrice di successo e mio fratello un attore famoso. Io invece sono quello “opaco”, come sentii dire da un’amica artista di mia madre in una serata tra colleghi artisti in cui erano invitate anche le famiglie. Certo lei, l’amica artista, ebbe la sensibilità di guardarsi intorno per accertarsi che io non fossi a portata di orecchio, ma ero piccolo e giocavo al bambino invisibile sotto al tavolo. Ero bravo, ad essere invisibile. Mio fratello invece era già una piccola star del grande schermo. Io sotto al tavolo, lui a capotavola.

In realtà scoprirmi opaco fu per me una rivelazione: mi ero impegnato tanto al corso di musica, per far contento papà. Provai la pianola, il flauto, il violino. Dicevano che non avevo orecchio. In realtà, mi sudavano le mani e dovevo concentrarmi così tanto sul non far scivolare le dita, che non mi restava attenzione per null’altro. Se fino ad allora mi ero potuto illudere che fosse l’insegnante di musica a non capire il mio talento, ora invece il tarlo dell’opacità aveva iniziato a rodermi dentro.

Mi resi conto allora che le recite a scuola mi avevano sempre visto in ruoli quali “l’albero”, o “un passante”, o “uno degli studenti”. Ammisi con me stesso che facevo fatica ad imparare le battute a memoria e mi annoiavo così tanto aspettando il mio turno, che quando toccava a me ero sovrappensiero e puntualmente mancavo il tempo.

Di lì a pochi giorni, dopo essere stato ore in posa per un provino fotografico, sentii il fotografo dire a mia madre, in un goffo tentativo di bisbigliare, che non brillavo come mio fratello, pur somigliandogli. “Lo so, è opaco”, rispose mia madre, con rassegnazione.

Fu così che ebbi la lapidaria conferma della mia opacità.

Stavolta non ero sotto ad un tavolo, ma dietro ai pannelli fotografici su cui era stampata la gigantografia di mio fratello che brandiva elegantemente la sciabola in “Il Giovane Garibaldi”, prossimamente al cinema. E non riuscii ad essere invisibile, perché nell’addentare il panino che mi avevano fatto portare per pranzo, tutti i pomodori caddero sul pavimento e sulle mie scarpe di tela nuove indossate per l’occasione: per pulire feci cadere i pannelli e fu chiaro a tutti che non potevo reggere lo schiacciante confronto con Garibaldi.

Da quel giorno cessò ogni tentativo di fare di me un artista. Con sollievo iniziai a vivere la mia vita sentendomi libero di non brillare. (Andavo a scuola con risultati ordinari; nelle partite di pallavolo non venivo mai scelto per primo, ma nemmeno lasciato per ultimo; alle mie feste di compleanno non c’era certo tutta la scuola ma potevo spegnere le candeline con quei tre o quattro amichetti invisibili come me.)

Tutto andò a gonfie vele finché non iniziarono a piacermi le ragazze. E alle ragazze piaceva mio fratello. O il belloccio della scuola. O quello che avevano conosciuto in vacanza e che avrebbero amato per sempre.

Purtroppo, le ragazze che mi attraevano erano quelle che calcavano la scena da protagoniste e che mai sarebbero uscite con un “albero” o “un passante” o “uno degli studenti”. Le ragazze sfavillanti erano attratte da chi riuscisse ad eccellere in qualcosa di degno delle luci della ribalta. Come Il Giovane Garibaldi, appunto.

Passai quindi in rassegna i miei potenziali talenti per liberarli dalle ragnatele di cui erano prigionieri; ce la misi tutta per risalire da sotto al tavolo e sedermi a capotavola.

Talento nascosto n. 1: la bellezza. Non ero brutto, ma non amando molto la competizione, mi ero tenuto alla larga dagli sport per tutti gli anni in cui i giovani virgulti scolpiscono le loro spalle ed i loro toraci muscolosi. Bene, sotto con le flessioni, allora! Il programma era molto intenso e per non perdere la giornata di allenamento, uscii a correre nonostante la strada presentasse qua e là delle pozzanghere ghiacciate. Fu così che la mia determinazione andò a schiantarsi con l’osso sacro sul duro asfalto. Mi ruppi una vertebra. Finii l’ultimo anno delle superiori portando un busto ortopedico che mi rendeva rigido come uno di quei soldatini di plastica da pochi soldi, quelli di un unico colore, a cui nessuno si è preso la briga di disegnare la faccia, perché sono solo una massa opaca di sacrificabile fanteria.

Nello stesso periodo mio fratello interpretava invece un giovane eroe di guerra tutto muscoli e valori, pronto alla conquista del pubblico americano.

Nonostante una coltre di cenere avesse ricoperto il mio orgoglio, qualche sporadico tizzone tentava di rianimare la mia agonizzante voglia di emergere. Passai così al Talento nascosto n. 2: essere un genio. Seguirono settimane di studio matto e disperatissimo.

Riuscii a recuperare tutte le lacune e persino a fare amicizia con la partita doppia, nemica acerrima di tutti gli studenti dell’istituto di Ragioneria che frequentavo. Qualche ragazza mi si avvicinò, sì. Di quelle sfavillanti, sì. Un paio di loro si dileguarono dopo che le lasciai copiare ad un compito in classe. Un’altra invece voleva diventare brava davvero, per andare poi a lavorare nello studio del padre. Lei volle che studiassimo insieme ed io fui ammesso nella sua casa con giardino, a studiare con lei nel suo salone, a bere insieme la spremuta e ad essere oggetto di quelli che a me sembravano inequivocabili segnali di interesse: “come hai fatto a diventare bravo in ragioneria? Preferisci la crostata o il ciambellone? La settimana prossima per il mio compleanno diamo una festa in giardino e mamma ha detto che devo invitarti”.

Insomma, mi innamorai.

Durante la festa in giardino venni presentato alle sue amiche come “l’eroe della partita doppia”. Il SUO, eroe! Sembrava proprio che fosse arrivato il momento di mettere in campo il Talento nascosto n. 3: il coraggio! E così, dopo il taglio della torta, mi avvicinai a lei con la scusa di farle gli auguri. Ostentai un’andatura fiera – forse l’avevo acquisita nei tanti mesi passati con il busto ortopedico; come avevo visto nei numerosi film di cui era stata infarcita la mia infanzia, mi portai accanto a lei porgendole un calice di spumante:

– Un brindisi al tuo compleanno e ai tuoi progressi. Se io sono l’eroe della partita doppia, tu sei la Regina -. 

L’avevo colpita. Lo capii dal modo in cui mi guardò negli occhi, esitando mentre cercava qualcosa da dirmi.

Fu quello il momento in cui mi vide per la prima volta e nei secondi di incertezza che seguirono, stava decidendo se farmi fare il protagonista o la comparsa.

I tizzoni morenti del mio amor proprio si erano trasformati in torrenti di lava che mi attraversavano le vene. Non mi ero mai sentito così vivo e così fiero di me stesso, come se il solo essere arrivato fin lì fosse il più grande successo della mia vita, a prescindere dalle parole che alla fine sarebbero uscite da quelle labbra a forma di cuore.

Labbra che in conclusione articolarono la mia condanna definitiva a personaggio di contorno:

– Piaci tanto alla mia amica e siccome io vorrei tanto conoscere tuo fratello, ti volevo chiedere se potremmo uscire in quattro -.

Dei torrenti di lava rimasero solo solchi aridi. Tutto era un ingranaggio, dunque, nulla più: niente batticuore, nessun coro di angeli. L’amore romantico era solo per i protagonisti e quindi non mi avrebbe mai riscaldato il cuore. Sentii la mia pelle riopacizzarsi dopo che lo sfavillio della festa e dell’infatuazione mi aveva illuso di poter risplendere.

– Ma eccola, te la presento subito, perché aspettare. Luciaaaaaaa!!!!! – il trillo della voce del mio amore non corrisposto mi ridestò dal torpore.

Faticavo ad adattare gli occhi alla nebbia in cui ero ripiombato e non riuscivo nemmeno a distinguere la sagoma, di questa sua amica. Poi piano piano presero forma i contorni di un abitino semplice, dello stesso colore della foschia che lo avvolgeva; ne uscivano delle gambette pallide alle cui estremità erano maldestramente abbinate delle scarpe da tennis grigiastre.

La mia attenzione fu richiamata sul suo viso, perché in quel momento avvampò per il disagio. Il suo sguardo imbarazzato incontrò i miei occhi ancora delusi dal fallimento amoroso. Restammo così, per lunghi secondi, muti a riconoscerci nei rispettivi sguardi opachi. 

– Ciao, io sono Francesco – le dissi avvicinandomi e sperando non si accorgesse che la mia mano era un po’ sudata per l’emozione.

– Piacere, Lucia.

Loading

1 commento »

  1. Mi piace molto la storia del ragazzo opaco, senza faccia, che nessuno vede, riconosce o distingue. Inevitabile identificarsi. E non sono sensazioni legate solo alla turbinosa adolescenza. Il racconto scorre leggero, sorvola in fretta la tragedia e la fatica di chi si sente inadeguato per giungere ad un finale tutto da immaginare, ad un incontro decisivo e inaspettato, di quelli che spesso aiutano a risolvere l’equazione della vita.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.