Premio Racconti nella Rete 2025 “Aiuto imprevisto” di Maria Grazia Scelfo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025È una sera di maggio, tiepida e luminosa, come solo Roma sa regalarne. Le strade di Trastevere sono vive di suoni: i passi sui sampietrini, le risate nei vicoli, il tintinnio dei bicchieri nei locali affacciati sulle piazze. Il ristorante “Nannarella”, uno di quei posti caratteristici per le specialità della cucina romana, che piacciono tanto ai turisti, a pochi metri da piazza di Santa Maria in Trastevere, ha acceso le sue luci soffuse.
Seduta a un tavolo acccostato al muro, con vista sulla strada, c’è una donna sui sessant’anni, sola. Ha un trucco leggero, il portamento, la cura nei dettagli, la calma con cui versa il vino nel calice la fanno spiccare tra gli altri clienti. Un giovane cameriere, Pietro, poco più che ventenne, appena arrivato per il turno, l’ha subito notata. È abituato a servire gruppi di turisti chiassosi, coppie distratte, famiglie affamate. L’altro cameriere, in pausa, gli dice che la cliente ha già ordinato un carciofo alla giudía, tonnarelli cacio e pepe, un calice di cesanese. Forse vuole un caffè, un amaro – vedi tu. Pietro si avvicina al tavolo. Non l’ha mai vista prima. Quando si gira, resta affascinato dagli occhi chiari e tristi. Lei ha appena finito. Due bicchieri vuoti: uno di vino, uno d’acqua. Il tovagliolo piegato con cura. Un gesto antico. La osserva un istante di troppo. Poi le chiede:
- Any more?
- No, nient’altro.
- È italiana?
- Sì.
- Pensavo fosse una ricchissima americana.
- Magari fossi ricchissima.
- Comunque… complimenti, è di una eleganza stratosferica.
- Grazie.
Ora sorride davvero. Lo squadra. Lo pesa.
- Hai un bel modo di osservare, tu.
- Scusi, dice Pietro. Lavoro qui da un po’, ma non l’ho mai vista.
— Perché non c’ero.
— Sta aspettando qualcuno?
— No.
— Un pranzo di lavoro?
- No.
— Un caso?
— Ti piacciono i misteri?
— Solo quelli con un finale interessante.
Lei appoggia piano la forchetta sul piatto, senza distogliere lo sguardo.
— Io sto cercando mio figlio.
La frase arriva dritta, senza preamboli. Come uno schiaffo gentile. Pietro deglutisce.
— Qui al ristorante?
— No. Era uno di voi. Lavorava in un ristorante, qui in zona. In questo quartiere. In mezzo a questi tavoli, queste strade, questi turni massacranti. Mio figlio ci viveva, ci lavorava. Poi è sparito. Faceva tardi, dormiva poco, parlava poco. L’ho perso di vista. Letteralmente. Una sera è uscito e non è più tornato. Nessuno sa dove sia andato. Nessuno l’ha cercato davvero. A parte me.
— Sparito? Quando?
— Sette anni fa. Quel giorno abbiamo avuto una forte discussione a causa del lavoro. Guadagnava poco e non era soddisfatto. Gli ho chiesto di cambiare – sai tre lingue, sei colto, fa i concorsi e trovati un posto fisso –. Gli ho detto di andare a vivere da solo, di crescere. Mi ha mandato a quel paese. È andato a lavorare al solito ristorante; il giorno dopo nessuno lo ha più visto. Niente telefoni, niente segni. Nessun funerale, nessuna tomba. Solo… assenza.
— Ha sporto denuncia?
— Sì. Ma è adulto. Libero di andarsene. Così hanno detto. Nessun reato. Solo un altro ragazzo stanco del mondo. Oppure uno che ha visto troppo e non ha voluto parlare.
— E lei pensa che possa essere… ancora qui?
— Io penso che chi scompare resta sempre da qualche parte. Magari vivo. Magari con un altro nome. Magari lavora in un ristorante con un grembiule diverso. Ma è ancora qui.
— Come si chiama?
— Marco. Ma tutti lo chiamavano Marchino.
— Marchino…
Il nome gli suona familiare. Troppo familiare. Ma non sa da dove.
Lei si alza. Lo guarda negli occhi.
— Sai, tu gli assomigli un po’. Ma non sei lui.
Pietro sorride, nervoso.
— No, non credo.
— No. Lui aveva un altro modo di camminare. Come se portasse un peso sulle spalle. Tu invece sei leggero. Lei prende la borsa. Sottile, nera, di quelle che costano troppo. Ma logora. Come chi l’ha portata lontano, e troppe volte. Prima di andarsene si ferma. Parla senza voltarsi:
— Tornerò. Ogni tanto. Solo per guardare. Se vedi qualcuno che sembra uscito da un’altra vita, chiamami.
Lascia un biglietto da visita sul tavolo. Solo un nome e un numero. Elena Rossi.
Pietro lo guarda mentre lei esce. Non dice nulla. Ma resta lì, fermo. Immobile.
Poi, senza sapere perché, va dietro al banco. Apre un cassetto. Dentro ci sono vecchie fotografie dimenticate, lasciate dai clienti o trovate tra i menu plastificati.
Ne prende una a caso. Una foto sbiadita, formato tessera. Un volto. Capelli scuri, occhi chiari, sorriso appena accennato. Sul retro, una scritta a penna: “A Marchino, l’amico silenzioso.”
Pietro si siede con la foto in mano. Sente un brivido dietro la schiena, non riesce a togliersi dalla mente quella foto trovata nel cassetto: un volto familiare, un sorriso appena accennato. Decide di indagare.
Inizia a chiedere ai colleghi più anziani del ristorante, ma nessuno sembra ricordare un certo Marco o “Marchino”. Le sue ricerche lo portano a visitare vecchi ristoranti, a parlare con ex colleghi e a frugare negli archivi della polizia. Scopre che Marco ha lavorato in diversi locali di Trastevere, ma è scomparso misteriosamente sette anni prima.
Un ex collega gli racconta che era coinvolto in attività poco chiare, forse legate al traffico di droga, allo spaccio. Altri parlano di un ragazzo introverso, ma sempre gentile. Le versioni sono contrastanti, ma tutte concordano su un punto: Marco era sparito nel nulla.
Pietro si reca di nuovo alla polizia per consultare i fascicoli dei casi irrisolti. Scopre che Marco era stato indagato per piccoli reati, ma nulla di grave. Il caso della sua scomparsa era stato archiviato per mancanza di prove.
Continuando le indagini, scopre che Marco aveva una relazione con una donna più grande di lui, forse una cliente abituale del ristorante che l’aveva convinto a far uso di droga e a spacciare per guadagnare e vivere meglio. Decide di contattare Elena.
La donna lo riceve nel suo appartamento. Quando Pietro le mostra la foto, impallidisce.
— Dove l’hai trovata? — chiede con voce tremante.
— Nel cassetto del ristorante. Stavo cercando informazioni su Marco.
Elena si siede, visibilmente scossa.
— Marco era mio figlio. L’ho cercato per anni. Pensavo fosse morto.
Pietro le racconta delle sue indagini, delle voci contrastanti sul ragazzo. Elena ascolta in silenzio, le lacrime agli occhi. Il rimorso di averlo rimproverato duramente e avergli detto non contare più su di lei la tormenta.
— Grazie. Hai fatto più di quanto avessi mai potuto sperare.
Il giovane lascia l’appartamento con un senso di vuoto. Aveva scoperto, in parte, la verità su Marco. Ma non era soddisfatto.
Dopo la visita a Elena, Pietro non riesce più a dormire. Il viso di Marco lo assilla. Quegli occhi della foto sono gli stessi che ha visto in un rifugio vicino a Porta Portese qualche anno prima, nel suo lavoro di volontario Caritas. Un giorno vi ha portato del cibo con un gruppo di altri volontari. Un tipo magro, silenzioso, con gli occhi scavati aveva attirato la sua attenzione. Aveva un’espressione profondamente triste, ma l’aspetto era dignitoso. Non parlava con nessuno. Lo guardava fisso.
Quando ci torna per chiedere notizie il responsabile della comunità non dice molto. Pietro insiste. Mostra la foto.
L’uomo guarda. Poi annuisce appena.
— Era qui. Ma è andato via tre mesi fa. Senza dire dove. Non era pronto.
— Era lui? Marco?
— Qui usano altri nomi. Lui si faceva chiamare “Enrico”. Ma sì… era lui. Se cercavi Marco, l’hai trovato.
Pietro sente un peso freddo scendergli nello stomaco.
— È vivo, quindi?
— Per ora. Era coinvolto in un giro di droga e di spaccio con una donna. Sembrava che lei lo sorvegliasse. Il guaio è che si trattava del fentanyl, che non perdona.
Pietro esce con un nome falso e nessuna certezza. Non può dire a Elena che l’ha trovato davvero, ma può dirle che era vicino. Che non era un fantasma. Non ancora.
Quella sera torna al ristorante. Elena è di nuovo lì. Stessa eleganza stanca, stesso tavolo. Non le dice subito la verità. Le racconta lentamente del rifugio, del nome, di una possibilità.
Lei lo ascolta, senza piangere. — Mi basta sapere che respira, dice. Poi si alza.
— Non lo cercherò più. Non ora. Ma se un giorno vorrà tornare… io sarò sempre lì. Dove mi ha lasciata. Esce senza voltarsi.
Un medico dell’ospedale San Gallicano chiama Pietro. Dice di aver trovato il suo numero in una vecchia busta, tra gli effetti personali di un uomo senza documenti. Lo avevano raccolto sotto Ponte Testaccio, caduto – o buttato – nel Tevere. Aveva addosso solo una foto stropicciata: un’immagine sbiadita di una donna con un bambino piccolo. Sul retro, una scritta: “Per la mia mamma, Marco.”
Pietro va in obitorio. Lo riconosce. Il viso tirato, scavato, ma gli occhi… gli occhi sono quelli della foto nel cassetto. Marco. Marchino. Scomparso, mai davvero ritrovato. Ufficialmente è “morte per annegamento accidentale”. Ma Pietro vede i lividi. Capisce. Nessuno indagherà. Nessuno vuole guai per un tossico senza fissa dimora. Un altro fantasma sotto i sampietrini di Roma.
Va da Elena. Non sa come dirglielo. Non vuole farlo. Ma deve.
Lei apre la porta. Capisce subito. — È morto, dice. Come se lo sapesse da sempre.
Pietro le consegna la foto. Non dice nulla. Le mani le tremano. Elena la prende. La guarda a lungo. Poi si siede. Non piange. Non grida. Solo guarda quel volto come si guarda un’ombra. Poi dice: — Almeno… ora lo so.
Pietro rimane lì, in silenzio, mentre fuori ricomincia a piovere. Quando si alza per andarsene, Elena lo ferma.
— Hai fatto per me ciò che nessuno ha fatto. Trovare mio figlio. Anche se tardi.
Qualche mese dopo, una sera, tardi, trova sotto il bicchiere una fotografia. È la stessa che Marco portava con sé. Solo che ora, dietro, c’è un’altra scritta: “Ora riposa in pace”. Grazie di tutto.
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